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Full text of "Il Culto Del Littorio"

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Gentile 

Il  eulto  del  littorio 


Editori  Laterza 


Economicà 


CL  20-6323-9 


Un  viaggio  aH’interno  deH’universo 
simbolico  del  fascismo, 
fra  i  miti,  i  riti  e  i  monumenti 
di  un  movimento  politico  che  ebbe 
l’ambizione  di  imprimere 
nelle  coscienze  di  milioni 
di  italiani  e  italiane 
la  fede  nei  dogmi 
di  una  nuova  religione. 


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Emilio  Gentile  insegna 
Storia  contemporanea 
all’Università  di  Roma 
La  Sapienza.  Tra  le  sue  opere 
più  recenti:  La  Grande  Italia. 

Ascesa  e  declino  del  mito  della  nazione 
nel XX secolo  (n.e.,  Milano  1999), 
Fascismo  e  antifascismo.  I partiti  italiani 
fra  le  due  guerre  (Firenze  2000),  La  via 
italiana  al  totalitarismo  (n.e.,  Roma 
2002T  Le  origini  dell’ideologia  fascista 
(n.e.,  Bologna  2001"),  Il  totalitarismo 
alla  conquista  della  Camera  alta  (Soveria 
Mannelli  2002).  Per  i  nostri  tipi:  L’Italia 
giolittiana.  La  storia  e  la  critica  (1977), 
Storia  del  partito  fascista.  1919-1922. 
Movimento  e  milizia  (1989),  Le  religioni 
della  politica.  Fra  democrazie 
e  totalitarismi  (2001),  Il  mito  dello  Stato 
nuovo  (n.e.,  2002’),  Fascismo.  Storia 
e  interpretazione  (2003"),  Le  origini 
dell’Italia  contemporanea.  L’età  giolittiana 
(2003)  e  Renzo  De  Felice.  Lo  storico 
e  il  personaggio  (2003). 


)  (i.i.) 


In  copertina:  Taro,  Cartolina  propagandistica  (par 
1925. 


Delb  stesso  autore 
in  altre  nostre  collane: 

Fascismo.  Storia  e  interpretazione 
«i  Robinson /Letture» 

Il  mito  dello  Stato  nuovo 
«Biblioteca  Universale  Laterza» 

Le  origini  dell’ideologia  fascista  (1918-1925) 

«Biblioteca  di  Cultura  Moderna» 

Le  origini  dell’Italia  contemporanea. 

L’età  giolittiana 
«Storia  e  Società» 

Le  religioni  della  politica. 

Fra  democrazie  e  totalitarismi 
«Storia  e  Società» 

Storia  del  partito  fascista.  1919-1922. 
Movimento  e  milizia 
«Storia  e  Società» 


A  cura  dello  stesso  autore 
in  altre  nostre  collane: 


L’Italia  giolittiana.  La  storia  e  la  critica 
«Tempi  Nuovi» 


Emilio  Gentile 


11  culto  del  littorio 

La  sacralizzazione  della  poKtìca 
nell’Italia  fascista 


Editori  Laterza 


©  1993,  Gius.  Laterza  &  Figli 

Nella  «Economica  Laterza» 
Prima  edizione  2001 
Seconda  edizione  2003 

Edizioni  precedenti: 
«Storia  e  Società»  1993 
«Biblioteca  Universale  Laterza»  1994 


Proprietà  letteraria  riservata 
Gius.  Laterza  &  Figli  Spa,  Roma-Bari 

Finito  di  stampare  nel  marzo  2003 

Poligrafico  Dehoniano  - 

Stabilimento  di  Bari 

per  conto  della 

Gius.  Laterza  &  Figli  Spa 

CL  20-6323-9 
ISBN  88-420-6323-1 


È  vietata  la  riproduzione,  anche 
parziale,  con  qualsiasi  mezzo  effettuata, 
compresa  la  fotocopia,  anche 
ad  uso  interno  o  didattico. 
Per  la  legge  italiana  la  fotocopia  è 
lecita  solo  per  uso  personale  purché 
non  danneggi  l’autore.  Quindi  ogni 
fotocopia  che  eviti  l’acquisto 
di  un  libro  è  illecita  e  minaccia 
la  sopravvivenza  di  un  modo 
di  trasmettere  la  conoscenza. 
Chi  fotocopia  un  libro,  chi  mette 
a  disposizione  i  mezzi  per  fotocopiare, 
chi  comunque  favorisce  questa  pratica 
commette  un  furto  e  opera 
ai  danni  della  cultura. 


PREMESSA 


[...]  quella  realtà  di  fatto  che  noi  cerchiamo, 
è  costituita  dai  modi  di  pensare,  che  anch 'es¬ 
si  sono  fatti  positivi. 

J.  Burckhardt 

La  storia  di  un  popolo  non  s’intende  a  pieno 
se  non  si  studia  anche  la  sua  storia  sacra.  Ché 
non  pochi  accadimenti,  profani  in  apparen¬ 
za,  e  siano  pure  di  natura  politica  o  pretta¬ 
mente  economica,  rivelano  tuttavia,  a  ben 
guardare,  connessioni  religiose  profonde. 

R.  Pettazzoni 


Per  due  decenni,  sotto  il  governo  fascista,  le  piazze  d’Italia, 
dalle  grandi  città  ai  piccoli  paesi,  furono  trasformate  in  un  unico, 
immenso  scenario  dove  milioni  di  persone  celebravano,  con  una 
simultanea  coralità,  scandita  da  un  ritmo  continuo,  le  feste  della 
nazione,  gli  anniversari  del  regime,  le  vittorie  della  «rivoluzione», 
il  culto  dei  caduti,  la  glorificazione  degli  eroi,  la  consacrazione  dei 
simboli,  le  apparizioni  del  duce.  Molte  altre  cerimonie,  adunate, 
parate,  mostre  e  pellegrinaggi  d’occasione  moltiplicavano  il  ciclo 
annuale  dei  riti  di  massa  del  regime  fascista.  Popolo  e  paese  furo¬ 
no  avvolti  in  una  fitta  rete  di  simboli,  che  abbracciava  l’urbanisti¬ 
ca  e  il  paesaggio,  le  macchine  e  i  monumenti,  l’arte  e  il  costume,  gli 
abiti  e  i  gesti,  imprimendo  ovunque  e  su  tutto,  dallo  stemma  dello 
Stato  ai  tombini  di  strada,  l’emblema  del  fascio  littorio. 

Con  questa  ricerca,  proponiamo  al  lettore  di  compiere  un 
viaggio  all’interno  dell’universo  simbolico  del  fascismo,  fra  i  mi¬ 
ti,  i  riti  e  i  monumenti  di  un  movimento  politico  che  ebbe  l’am¬ 
bizione  di  infondere  nelle  coscienze  di  milioni  di  italiani  e  italia¬ 
ne  la  fede  nei  dogmi  di  una  nuova  religione  laica  che  sacralizza¬ 
va  lo  Stato,  assegnandogli  una  primaria  funzione  pedagogica  con 
lo  scopo  di  trasformare  la  mentalità,  il  carattere  e  il  costume  de¬ 
gli  italiani  per  generare  un  «uomo  nuovo»,  credente  e  pratican¬ 
te  nel  culto  del  fascismo.  Il  fascismo  è  studiato,  in  questo  saggio, 
come  una  manifestazione  della  sacralizzazione  della  politica.  Ab¬ 
biamo  cercato  di  portare  alla  luce,  attraverso  esempi  significati¬ 
vi,  i  nessi  che  legano  i  vari  aspetti  della  «religione  fascista»  -  il 
mito,  la  fede,  il  rito,  la  comunione  -  per  verificare  se  e  in  che  mi¬ 
sura  ci  troviamo  di  fronte  ad  un  coerente  sistema  di  credenze  e 
di  riti,  che  sono  gli  elementi  costitutivi  di  qualsiasi  religione. 

Gli  anni  fra  le  due  guerre  sono  il  periodo  prescelto  per  la  nostra 


vili 


Premessa 


ricerca,  che  si  rivolge  principalmente  alla  fase  di  formazione  e  di 
istituzionalizzazione  della  «religione  fascista»  come  culto  collettivo 
mirante  al  coinvolgimento  di  tutto  il  popolo  italiano  nei  miti  e  nei 
riti  del  regime.  Il  principale  proposito  della  nostra  ricerca  è  stato 
quello  di  individuare  e  analizzare  Torigine,  le  motivazioni,  le  forme 
e  gli  scopi  del  «culto  del  littorio»  nel  periodo  di  formazione  e  di  pie¬ 
na  affermazione,  che  coincide  con  l’apogeo  del  fascismo  al  potere. 
E  la  nostra  attenzione  è  stata  pertanto  rivolta  principalmente  ai  pro¬ 
motori  e  ai  propagatori  del  «culto  del  littorio»,  inquadrandolo  nel 
più  ampio  fenomeno  della  ricerca  di  una  «religione  della  patria» 
presente  nel  corso  della  storia  dell’Italia  contemporanea  fin  dagli 
albori  del  Risorgimento.  Dalla  nostra  indagine  è  stato  lasciato  fuo¬ 
ri  il  periodo  della  seconda  guerra  mondiale.  La  guerra,  per  un  ver¬ 
so,  non  introduce  significative  innovazioni  nelle  forme  del  «culto 
del  littorio»  come  era  stato  istituzionalizzato  negli  anni  precedenti; 
per  un  altro  verso,  invece,  con  le  dimensioni  immani  ed  impreviste 
che  essa  assume  e  con  la  disfatta  militare  e  il  croUo  del  regime  fa¬ 
scista,  crea  una  situazione  nuova  non  solo  per  quanto  riguarda  l’at¬ 
teggiamento  della  popolazione  in  generale  e  dei  fascisti  stessi  verso 
il  «culto  del  littorio»,  ma  soprattutto  perché  sposta  il  problema  del¬ 
la  «religione  fascista»  dall’ambito  nazionale,  su  una  dimensione  eu¬ 
ropea  e  mondiale,  nel  quadro  di  un  conflitto  che  fascisti  e  antifa¬ 
scisti  interpretarono  sempre  più  radicalmente  come  «guerra  di  re¬ 
ligione»  cui  si  ricollega  anche  l’esperienza  fascista  della  Repubbli¬ 
ca  sociale.  Il  problema  della  «religione  fascista»  nel  periodo  della 
guerra  e  della  Repubblica  sociale,  pur  con  tutti  i  nessi  che  la  legano 
all’esperienza  del  regime,  presenta  una  specificità  e  una  comples¬ 
sità  tali  da  costituire  materia  per  una  trattazione  autonoma. 

Una  precisazione  di  metodo  e  di  stile  ci  sembra  necessaria. 
Muovendosi  fra  i  miti,  i  riti  e  i  simboli  di  una  religione  politica 
che  ha  rivelato  tutta  la  sua  fragilità,  si  può  essere  tentati  di  rap¬ 
presentare  tale  materia  sotto  l’aspetto  caricaturale  e  moralistico, 
fustigando  il  passato  che  non  piace  con  la  derisione  e  il  sarcasmo, 
che  sono  sovente  surrogati  di  una  ironia  senza  intelligenza  stori¬ 
ca.  Fra  gli  atteggiamenti  verso  la  storia  che  giudichiamo  deplo¬ 
revoli,  questo  ci  sembra  il  più  deplorevole,  forse  perché  è  il  più 
facile  e  il  più  infantile.  Per  la  nostra  indagine,  abbiamo  seguito  il 
consiglio  di  un  saggio  antropologo: 


Premessa 


IX 


Uno  dei  principali  problemi  metodologici  quando  si  scrive  scienti¬ 
ficamente  della  religione  è  di  mettere  subito  da  parte  il  tono  sufficien¬ 
te  dell’ateo  del  villaggio  e  quello  del  predicatore  del  villaggio,  come  pu¬ 
re  i  loro  equivalenti  più  sofisticati,  così  che  possano  emergere  in  una  lu¬ 
ce  chiara  e  neutrale  le  implicazioni  sociali  e  psicologiche  delle  partico¬ 
lari  credenze  religiose.  E  quando  si  è  fatto  questo,  le  questioni  genera¬ 
li  se  la  religione  sia  «buona»  o  «cattiva»,  «funzionale»  o  «disfunziona¬ 
le»,  «rafforzatrice  dell’ego»  o  «generatrice  di  ansia»  scompaion  come 
le  chimere  che  sono,  e  si  resta  con  valutazioni,  giudizi  e  diagnosi  parti¬ 
colari  su  casi  particolari.  Naturalmente  resta  il  problema  non  trascura¬ 
bile,  se  questa  o  quella  asserzione  religiosa  sia  vera,  se  questa  o  quella 
esperienza  religiosa  sia  genuina,  o  se  siano  possibili  asserzioni  religiose 
veridiche  e  esperienze  religiose  genuine.  Ma  non  si  possono  porre  si¬ 
mili  domande,  né  tanto  meno  trovar  loro  una  risposta,  entro  i  limiti  che 
la  prospettiva  scientifica  si  autoimponeh 

Pensiamo  che  questo  criterio  sia  valido  anche  per  chi  si  pro¬ 
ponga  di  studiare  una  religione  secolare,  in  una  prospettiva  sto¬ 
riografica,  al  solo  scopo  di  ricondurre  nel  dominio  della  cono¬ 
scenza  razionale  un  fenomeno  che  per  sua  vocazione  si  era  col¬ 
locato  ostentatamente  nei  campo  dell’irrazionale,  senza  essere 
per  questo,  in  realtà,  privo  della  sua  propria  razionalità  storica. 


'  C.  Geertz,  La  religione  come  sistema  culturale,  in  Id.,  Interpretazione  di 
culture,  trad.  it.  di  E.  Bona,  Bologna  1987,  pp.  179-180. 


RINGRAZIAMENTI 


Nel  corso  delle  ricerche  per  questo  volume,  abbiamo  contratto 
numerosi  debiti  di  gratitudine  verso  istituzioni  e  persone  che  hanno 
agevolato  il  nostro  lavoro.  Desideriamo  ringraziare,  in  particolare, 
la  sovrintendenza  e  i  funzionari  dell’Archivio  centrale  dello  Stato,  la 
direzione  e  i  funzionari  dell’Archivio  del  Ministero  degli  Affari  este¬ 
ri,  della  Biblioteca  del  Dipartimento  di  Studi  politici  della  Facoltà 
di  Scienze  politiche  dell’Università  «La  Sapienza»,  della  Biblioteca 
della  Camera  dei  deputati,  della  Biblioteca  di  Storia  moderna  e  con¬ 
temporanea,  della  Fondazione  Gentile  e  dell  Istituto  Gramsci. 

Ricordiamo,  inoltre,  per  la  loro  collaborazione,  gli  amici  Philip 
Cannistraro,  Patrizia  Ferrara,  Carlo  M.  Fiorentino,  Claudio  Fogu, 
Maria  Fraddosio,  Marina  Giannetto,  Leonardo  Lisanti,  Franco 
Nuti,  Cristina  Mosillo,  Amalia  Rossi  Merighi,  Ettore  Tanzarella. 
Un  particolare  ringraziamento  rivolgiamo  al  colonnello  Franco 
Romano  e  al  tenente  colonnello  dott.  Marco  Ricotti,  capo  dell’Uf¬ 
ficio  storico  del  Comando  generale  dell’Arma  dei  Carabinieri. 

Gli  amici  Giuseppe  Conti  e  Niccolò  Zapponi,  con  i  loro  sug¬ 
gerimenti  e  consigli,  ci  hanno  consentito  di  colmare  lacune  nella 
ricerca  e  di  dare  un  miglior  ordine  alla  esposizione  dei  risultati. 
È  stato  ancora  una  volta  indispensabile,  nella  ricerca  archivisti¬ 
ca,  il  paziente  ed  esperto  aiuto  dell’amico  Mario  Missori. 

Il  maggior  debito  di  gratitudine,  per  la  realizzazione  di  que¬ 
sto  lavoro,  è  nei  confronti  del  prof.  George  L.  Mosse,  che  fin  dal 
primo  abbozzo  della  ricerca,  delineato  nel  nostro  studio  su  11  mi¬ 
to  dello  Stato  nuovo  (Roma-Bari  1982)  e  successivamente  svilup¬ 
pato  in  un  articolo  apparso  nel  1990  sul  «Journal  of  Contempo- 
rary  History»  e  su  «Storia  contemporanea»,  ci  ha  esortato  a  pro¬ 
seguirla,  soprattutto  nei  momenti  di  incertezza,  con  il  consiglio 
dello  storico  e  l’incoraggiamento  dell’amico. 


ABBREVIAZIONI 


ACS 

APC 

DGPS 

MAE 
MI 
MCP 
MRF 
PCM 
PNF,  DN 
SPD,  CO 
SPD,  CR 
SPEP 


Archivio  centrale  dello  Stato 

Istituto  Gramsci,  Archivio  del  Partito  Comunista  d’Italia 
Direzione  generale  della  Pubblica  sicurezza,  Affari  ge¬ 
nerali  e  riservati 

Ministero  degli  Affari  esteri.  Archivio  storico 

Ministero  dell’Interno 

Ministero  della  Cultura  popolare 

Mostra  della  rivoluzione  fascista 

Presidenza  del  Consiglio  dei  ministri 

Partito  nazionale  fascista.  Direttorio  nazionale 

Segreteria  particolare  del  Duce,  carteggio  ordinario 

Segreteria  particolare  del  Duce,  carteggio  riservato 

Situazione  politica  ed  economica  delle  provincie 


Introduzione 


ALLA  RICERCA  DI  UNA  RELIGIONE  CIVILE 
PER  LA  TERZA  ITALIA 


Se  i  principi  risuscitassero  le  illusioni,  desse¬ 
ro  vita  e  spirito  ai  popoli,  e  sentimento  di  se 
stessi;  rianimassero  con  qualche  sostanza, 
con  qualche  realtà  gli  errori  e  le  immagina¬ 
zioni  costitutrici  e  fondamentali  delle  nazio¬ 
ni  e  delle  società;  se  ci  restituissero  una  pa¬ 
tria,  se  il  trionfo,  se  i  concorsi  pubblici,  i 
giuochi,  le  feste  patriottiche,  gli  onori  rendu- 
ti  al  merito,  ed  ai  servigi  prestati  alla  patria 
tornassero  in  usanza,  tutte  le  nazioni  certa¬ 
mente  acquisterebbero,  o  piuttosto  risorge¬ 
rebbero  a  vita,  e  diverrebbero  grandi  e  forti 
e  formidabili. 

G.  Leopardi 

Lo  Stato  è  come  la  religione:  vale  se  la  gente 
ci  crede. 


E.  Malatesta 


Con  la  creazione  dello  Stato  nazionale,  la  meta  più  alta  che  i 
patrioti  italiani  del  Risorgimento  si  posero  fu  il  rinnovamento  ci¬ 
vile  e  morale  degli  italiani.  Essi  volevano  trasformare  popolazio¬ 
ni  politicamente  divise  dall’epoca  della  caduta  dell’impero  ro¬ 
mano,  profondamente  diverse  per  storia,  tradizioni,  culture  e 
condizioni  sociali,  in  un  popolo  di  cittadini  liberi,  educandoli  nel¬ 
la  fede  e  nel  culto  della  «religione  della  patria».  Come  tutti  i  mo¬ 
vimenti  nazionali  dell’epoca  romantica,  la  rivoluzione  italiana  cir¬ 
confuse  di  un’aura  sacrale  l’idea  di  nazione,  elevandola  a  supre¬ 
ma  entità  collettiva,  alla  quale  il  cittadino  doveva  dedizione  e  ob¬ 
bedienza  fino  al  sacrificio  della  vita. 

La  «divinità»  della  patria  era  il  principio  sul  quale  si  era  venu¬ 
ta  formando,  dalla  fine  del  Settecento,  la  coscienza  del  nazionali¬ 
smo  moderno.  La  patria,  aveva  scritto  nel  1755  l’abate  Coyer,  è 

una  potenza  antica  quanto  la  società,  fondata  sulla  natura  e  sull’ordi¬ 
ne;  una  potenza  superiore  a  tutte  le  potenze  ch’ella  istituisce  nel  suo 
seno  [...];  una  potenza  che  sottomette  alle  sue  leggi  coloro  che  co¬ 
mandano  nel  suo  nome  come  quelli  che  obbediscono.  È  una  divinità 
che  accetta  doni  solo  per  elargirli,  che  richiede  amore  più  che  rispet¬ 
to,  affetto  più  che  timore,  che  sorride  quando  fa  del  bene,  e  sospira 
quando  scaglia  la  sua  folgore.^ 

Da  questa  idea  della  patria  si  sviluppò,  specialmente  con  la  ri¬ 
voluzione  francese,  la  concezione  dello  Stato  come  educatore  del 
popolo  nel  culto  della  nazione.  Per  i  patrioti  francesi,  discepoli  di 
Rousseau,  non  era  concepibile  uno  Stato  nazionale  senza  religio¬ 
ne,  perché  solo  sulla  fede  religiosa  potevano  fondarsi  l’unità  mo¬ 
rale  dei  cittadini  e  la  dedizione  dell’individuo  al  bene  comune. 


^  Dissertations  pour  ètre  lues:  la  première  sur  le  vieux  mot  de  patrie;  la  se¬ 
conde  sur  la  nature  du  peuple,  La  Haye  1755,  pp.  20-21. 


6 


Il  culto  del  littorio 


Lo  Stato  nazionale,  aveva  scritto  Rousseau,  doveva  riunire  «le 
due  teste  dell’aquila»  -  potere  politico  e  potere  religioso  -  isti¬ 
tuendo  una  propria  «religione  civile»,  per  «ricondurre  tutto  all’u¬ 
nità  politica,  senza  cui  non  ci  sarà  mai  né  un  governo  né  uno  Sta¬ 
to  ben  costituito»^.  Ed  era  perciò  compito  fondamentale  dello  Sta¬ 
to  assurgere  a  supremo  custode  della  morale  e  della  religione,  es¬ 
sere  soprattutto  Stato  educatore  con  la  missione  di  restaurare  l’u¬ 
nità  del  corpo  politico  e  formare  cittadini  virtuosi,  inculcando  nel 
loro  animo,  con  i  dogmi  della  «religione  civile»,  il  senso  del  dove¬ 
re  civico  e  della  obbedienza  verso  lo  Stato.  Lo  Stato  educatore 

deve  far  partecipi  le  anime  del  vigore  nazionale  e  dirigere  le  loro  opi¬ 
nioni  e  i  loro  gusti  fino  a  infondere  in  esse  il  patriottismo  per  incli¬ 
nazione,  per  passione,  per  necessità.  Aprendo  gli  occhi,  un  bambino 
deve  vedere  la  patria  e  fino  alla  morte  non  deve  vedere  altro  che  lei. 
Ogni  vero  repubblicano  succhiò  col  latte  della  madre  l’amore  della 
patria,  cioè  delle  leggi  e  della  libertà.  Il  suo  essere  è  tutto  in  quest’a¬ 
more;  non  vede  che  la  patria;  non  vive  che  per  essa;  appena  resta  so¬ 
lo  è  nessuno;  appena  resta  senza  patria  non  è  più,  e  se  non  è  morto  è 
peggio  che  morto. ^ 

A  tal  fine,  Rousseau  giudicava  utile  rinnovare  l’usanza  dei 
Greci  e  dei  Romani,  istituendo  feste  collettive  per  infondere  nel 
popolo  il  sentimento  dell’unità  morale  e  l’amore  assoluto  della 
patria. 

La  sacralizzazione  della  nazione,  avviata  in  Europa  dalla  ri¬ 
voluzione  francese,  pose  in  una  nuova  prospettiva  i  rapporti  fra 
politica  e  religione,  conferendo  carattere  religioso  alla  politica  e 
una  missione  educatrice  allo  Stato.  Iniziava,  in  tal  modo,  un’e¬ 
poca  nuova  di  rivalità  e  conflitti  fra  «religione  civile»  e  religione 

^  J.-J.  Rousseau,  Scritti  politici,  a  cura  di  M.  Garin,  3  voli.,  Bari  1971,  voi. 
II,  p.  198. 

^  Id.,  Considerazioni  sul  governo  di  Polonia  e  sul  progetto  di  riformarlo  {ìli  0), 
ivi,  voi.  Ili,  p.  191.  Cfr.  G.L.  Mosse,  La  nazionalizzazione  delle  masse,  trad.  it.  di 
L.  De  Felice,  Bologna  1975,  pp.  85-87.  Sulle  origini  della  sacralizzazione  della 
politica  nella  cultura  illuministica  e  nella  rivoluzione  francese,  cfr.  J.L.  Talmon, 
Le  origini  della  democrazia  totalitaria,  trad.  it.  di  M.L.  Izzo  Agnetti,  Bologna 
1967;  M.  Ozouf,  La  festa  rivoluzionaria  (1789-1799),  trad.  it.  di  F.  Cataldi  Villa- 
ri,  Bologna  1982;  Id.,  L’homme  régénéré,  Paris  1989,  pp.  116-182;  L.  Hunt,  La 
rivoluzione  francese,  trad.  it.  di  E.J.  Mannucci,  Bologna  1989,  pp.  27  sgg. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


1 


tradizionale.  Questa  rivalità  comvolse  particolarmente  il  movi¬ 
mento  nazionale  in  Italia,  dove  la  presenza  della  Chiesa  cattolica 
rese  più  ardua  e  contrastata  la  ricerca  di  una  «religione  della  pa¬ 
tria»  su  cui  fondare  l’unità  morale  della  Terza  Italia.  Il  problema 
della  religione  civile  assillò  drammaticamente  il  pensiero  dei  pa¬ 
trioti  italiani  fin  dall’inizio  del  Risorgimento,  e  rimase  uno  dei 
problemi  centrali  dello  Stato  nazionale  anche  dopo  l’unificazio¬ 
ne,  influenzando  sempre,  e  in  qualche  momento  anche  decisiva¬ 
mente,  la  storia  italiana  fino  alla  seconda  guerra  mondiale. 


Religioni  civili  del  Risorgimento 

Le  tracce  della  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Ita¬ 
lia  sono  reperibili  durante  tutto  il  corso  del  Risorgimento.  Sono 
vari  gli  elementi  che,  emersi  da  questa  ricerca,  entrarono  a  far 
parte  del  patrimonio  di  miti  politico- religiosi  della  cultura  italia¬ 
na,  cui  attinsero  nel  corso  del  tempo  anche  i  successivi  tentativi 
di  elaborazione  di  una  religione  nazionale.  Per  esempio,  alcuni 
elementi  si  trovano  nel  settarismo  carbonaro  e  soprattutto  nella 
massoneria,  che  dopo  l’unifcazione  ebbe  parte  rilevante  nella  for¬ 
mazione  di  una  religiosità  laica  fondata  sulla  tradizione  demo¬ 
cratica  risorgimentale  e  caratterizzata  da  un  militante  anticleri¬ 
calismo.  Altri  elementi,  che  provenivano  direttamente  dalla  nuo¬ 
va  religione  della  rivoluzione  francese,  si  trovano  nel  pensiero  de¬ 
gli  utopisti  e  riformatori  giacobini.  Credenti  nel  mito  della  rivo¬ 
luzione  come  rigenerazione  morale'^,  i  giacobini  italiani  conside¬ 
ravano  inscindibile  il  nesso  fra  rivoluzione  politica,  rivoluzione 
sociale  e  trasformazione  religiosa.  Questa  avrebbe  dovuto  at¬ 
tuarsi  dando  vita  a  una  nuova  religione  laica,  con  un  appropria¬ 
to  apparato  di  feste  e  di  riti  atti  ad  educare  i  cittadini  al  senti¬ 
mento  della  libertà  e  dell’eguaglianza,  al  rispetto  delle  leggi,  al¬ 
l’amore  del  bene  comune.  Per  Filippo  Buonarroti  questa  «reli¬ 
gione  pohtica»  non  era  un  instrumentum  regni,  ma  «sostanza  stes¬ 
sa  del  nuovo  stato  da  instaurare»^. 

^  Cfr.  R.  De  Felice,  Il  triennio  giacobino  in  Italia  (1796-1799),  Roma  1990, 
pp.  92-93. 

5  Cfr.  D.  Cantimori,  Utopisti  e  riformatori  italiani,  Firenze  1943,  p.  175. 


Il  culto  del  littorio 


Il  movimento  politico -religioso  dei  giacobini  italiani  non  eb¬ 
be  successo,  ma  il  mito  rivoluzionario  della  politica  come  rige¬ 
nerazione  morale,  affidata  all’azione  pedagogica  dello  Stato  e  al 
culto  di  una  religione  patriottica^,  mise  radici  nella  cultura  poli¬ 
tica;  più  volte  lo  vedremo  riemergere  con  diverse  connotazioni 
ideologiche,  nel  corso  della  storia  italiana,  in  altri  movimenti  ri¬ 
voluzionari,  come,  per  esempio,  nel  misticismo  politico  di  Maz¬ 
zini,  e  nel  fascismo  stesso,  che  riprese  il  mito  della  rigenerazione 
morale,  ma  ne  recise  il  legame  con  l’idea  di  eguaglianza  e  di  li¬ 
bertà,  innestandolo  nel  nuovo  mito  dello  Stato  totalitario. 

La  ricerca  di  una  religione  civile  non  fu  condotta  solo  nel¬ 
l’ambito  della  cultura  laica  o  rivoluzionaria.  Ci  furono  anche  ten¬ 
tativi  da  parte  di  alcuni  intellettuali  e  politici  cattolici.  Nella  vi¬ 
sione  di  un  nuovo  cattolicesimo  convertito  al  progresso  moder¬ 
no  e  all’idea  nazionale,  Gioberti  disegnò  una  religione  civile  che 
aveva  radici  nella  tradizione  cattolica,  come  sintesi  fra  universa¬ 
lismo  religioso  e  patriottismo,  su  cui  avrebbe  dovuto  formarsi  la 
coscienza  nazionale  della  Terza  Italia,  destinata  ad  esercitare  un 
rinnovato  primato  civile  e  morale  nel  mondo  delle  nazionP. 

Ma  i  tentativi  di  conciliare  «religione  della  patria»  e  religione 
cattolica  si  infransero,  dopo  una  breve  stagione  di  speranza,  con¬ 
tro  l’opposizione  intransigente  della  Chiesa  al  movimento  rivo¬ 
luzionario  e  al  nuovo  Stato  nazionale.  Ciò  provocò,  da  una  par¬ 
te,  un  rafforzamento  del  sentimento  di  estraneità  dei  cattolici  ver¬ 
so  il  nuovo  Stato  e,  dall’altra,  la  radicalizzazione,  in  senso  laico, 
della  ricerca  di  una  «religione  della  patria».  Questa  trovò,  nella 
cultura  laica  del  Risorgimento,  la  più  alta  e  affascinante  espres¬ 
sione  con  il  misticismo  politico  di  Giuseppe  Mazzini. 

Per  il  rivoluzionario  genovese,  il  problema  della  «religione 
della  patria»,  era  l’essenza  stessa  della  rivoluzione  nazionale:  ri¬ 
voluzione  religiosa  prima  che  politica  perché  mentre  la  politica 
«afferra  gli  uomini  ove  e  quali  essi  sono:  definisce  le  loro  ten¬ 
denze  e  v’attempera  gli  atti.  Solo  il  pensiero  religioso  è  capace 
di  trasformar  l’une  e  gli  altri»,  in  quanto  esso  «è  la  respirazio¬ 
ne  dell’umanità:  anima,  vita,  coscienza  e  manifestazione  ad  un 


^  Cfr.  Id.,  Studi  di  storia,  Torino  1959,  p.  637. 

^  Cfr.  A.  AnzUotti,  Gioberti,  Firenze  1922,  in  particolare  il  capitolo  IV,  La 
religione  civile. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


9 


tempo»*.  La  «Giovine  Italia»  fu  «una  novella  religione  politica»^, 
che  concepiva  la  vita  politica  come  dedizione  di  tutto  l’essere  al¬ 
la  patria,  come  apostolato  e  azione  rivoluzionaria  consacrata  al¬ 
la  «religione  del  martirio»  per  la  resurrezione  della  «nuova  Ita¬ 
lia».  Lo  Stato  nazionale  doveva  essere  la  creazione  di  una  rivo¬ 
luzione  politica  e  religiosa,  compiuta  dagli  italiani  rigenerati  dalla 
«nuova  fede»  della  patria.  La  Terza  Italia,  unita  in  repubblica, 
nell’ideale  disegno  di  Mazzini,  si  configura  come  una  teocrazia 
democratica,  fondata  su  una  concezione  mistica  e  religiosa  della 
nazione  e  sull’unità  di  fede  del  popolo.  Per  Mazzini,  infatti,  non 
poteva  esserci  vera  unità  politica  senza  unità  morale,  e  non  po¬ 
teva  darsi  unità  morale  senza  fede  comune  e  senza  coscienza  di 
una  missione.  Dio  e  popolo  erano  i  capisaldi  di  questa  teologia 
politica:  il  dio  mazziniano  era  un  «Dio  politico»^^;  il  popolo  da 
lui  idealizzato  era  una  associazione  concepita  come  comunità  mi¬ 
stica  di  credenti,  uniti  nel  culto  della  «religione  della  patria».  Al¬ 
la  Terza  Italia,  Mazzini  assegnava  la  missione  di  preparare  l’av¬ 
vento  di  una  umanità  di  nazioni  libere,  affratellate  in  una  «ar¬ 
monia  universale»,  che  avrebbe  avuto  il  suo  centro  sacro  in  Roma, 
culla  della  civiltà  e  luogo  dove  periodicamente  la  civiltà  si  rin¬ 
novava.  Redenta  dall’assolutismo  papale  e  divenuta  capitale  del¬ 
l’Italia  unita,  Roma  sarebbe  stata  sede  di  un  concilio  delle  na¬ 
zioni,  che  avrebbe  fondato  la  nuova  unità  religiosa  dell’Europa. 


Lo  Stato  senza  anima 

Nel  suo  misticismo  politico,  Mazzini  aveva  sognato 

un’Italia  sorta  per  sagrificio  e  virtù  del  suo  popolo  dal  sepolcro,  pu¬ 
rificata  d’ogni  colpa  da  una  espiazione  d’oltre  a  tre  secoli,  splendida 
d’entusiasmo  e  di  fede,  forte  della  coscienza  nelle  battaglie  combat¬ 
tute  e  di  vittorie  conquistate  col  proprio  sangue,  com’angelo  incoro- 

*  G.  Mazzini,  Fede  e  avvenire  (1835),  in  Id.,  Scritti  politici,  a  cura  di  T. 
Grandi  e  A.  Comba,  Torino  1972,  p.  452. 

L.  Settembrini,  Ricordanze  della  mia  vita,  a  cura  di  M.  Themelly,  Milano 
1961,  p.  96. 

F.  De  Sanctis,  La  scuola  liberale  e  la  scuola  democratica,  a  cura  di  F.  Ca¬ 
talano,  Bari  1953,  p.  421. 


10 


Il  culto  del  littorio 


nato  d’un  doppio  battesimo  di  gloria  nel  passato  e  nell’avvenire,  ap¬ 
portatore  alle  Nazioni  della  buona  novella  d’un’epoca  di  Giustizia  e 
d’Amore:  dell’Italia  di  Dante,  ma  senza  Impero  fuorché  quello  di  Dio, 
senza  legge  fuorché  il  Patto  dettato  dal  proprio  popolo. 

Perciò,  dopo  la  realizzazione  dell’unità  attraverso  la  monar¬ 
chia,  Mazzini  condannò  il  nuovo  Stato  liberale  perché  non  era  la 
creazione  di  un  popolo  rigenerato  dalla  nuova  fede  nella  religio¬ 
ne  della  patria.  «Oggi  noi  rappresentiamo  -  scriveva  con  animo 
deluso  e  sconfitto  -  paghi  o  dolenti  una  menzogna  d’Italia»,  per¬ 
ché  neir«organismo  inerte  d’Italia»,  manca  «l’ahto  fecondatore 
di  Dio,  l’anima  della  Nazione»^h 

Dall’opposizione  del  radicalismo  mazziniano  allo  Stato  libe¬ 
rale,  ebbe  origine  il  mito  del  Risorgimento  come  «rivoluzione  na¬ 
zionale  incompiuta»,  perché  all’unità  politica  mancava  l’unità 
morale  di  una  fede  comune.  Mazzini  fu  sconfitto,  ma  l’eredità  del 
suo  misticismo  politico  continuò  a  mantenersi  viva  fra  i  discepo¬ 
li  repubblicani.  Il  suo  influsso,  inoltre,  durò  a  lungo,  diffonden¬ 
dosi  come  un  lievito  in  ambienti  culturali  e  politici  differenti,  in 
forme  e  in  modi  non  sempre  evidenti  e  neppure  fedeli  al  conte¬ 
nuto  del  messaggio  mazziniano:  ma  in  tal  modo  continuò  ad  ali¬ 
mentare  l’esigenza  di  una  religione  civile.  Il  mito  della  «rivolu¬ 
zione  italiana»  come  resurrezione  spirituale  e  morale,  realizzata 
per  iniziativa  di  popolo  e  consacrata  dal  sangue  del  sacrificio  ri- 
generatore  dei  martiri,  caduti  per  la  «religione  della  patria»,  di¬ 
venne  il  tema  unificante  di  quel  complesso  insieme  di  movimen¬ 
ti,  idee  e  miti,  da  noi  definito  «radicalismo  nazionale»,  che  eser¬ 
citò  una  costante  contestazione  della  Terza  Italia  monarchica  e  li¬ 
berale,  sempre  invocando  la  prova  suprema  di  una  rivoluzione  o 
di  una  guerra  da  cui  far  sorgere  la  «nuova  Italia»,  portatrice  di 
una  missione  di  nuova  civiltà  nel  mondo^^. 

Il  mazzinianesimo  diede  un  notevole  contributo  alla  sacraliz¬ 
zazione  della  politica.  La  sua  religione  laica  ebbe  indiretta  in¬ 
fluenza,  specialmente  attraverso  la  particolare  interpretazione  di 

Id.,  lettera  a  Giuseppe  Ferretti  del  25  agosto  1871,  in  Scritti  editi  ed  ine¬ 
diti  di  Giuseppe  Mazzini,  voi.  XCI  {Epistolario,  voi.  LVIII),  Imola  1941,  p.  162. 

Cfr.  E.  Gentile,  Il  mito  dello  Stato  nuovo  dall’antigiolittismo  al  fascismo, 
Roma-Bari  19992  pò.  3-30. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


11 


Giovanni  Gentile,  suUa  formazione  della  teologia  politica  fasci¬ 
sta.  Ma  è  giusto  ricordare  che  Mazzini  manteneva  salda  l’affer¬ 
mazione  del  principio  della  libertà  del  cittadino  e  della  dignità 
individuale.  La 


religione  della  patria  -  scriveva  -  è  santissima;  ma  dove  il  sentimen¬ 
to  della  dignità  individuale,  e  la  coscienza  dei  diritti  inerenti  alla  na¬ 
tura  d’uomo  non  la  governino  -  dove  il  cittadino  non  si  convinca  eh  e- 
gli  deve  dar  lustro  alla  patria,  non  ritrarlo  da  essa,  -  è  religione,  che, 
può  far  la  patria  potente,  non  felice;  bella  di  gloria  davanti  allo  stra¬ 
niero,  non  libera. 

L’affermazione  di  principio  era  netta  e  inequivocabile,  ma  rie¬ 
sce  difficile  immaginare  in  che  modo,  in  un’ipotetica  realizzazio¬ 
ne  della  teocrazia  mazziniana,  sarebbe  stato  possibile  conciliare 
la  libertà  dell’individuo  con  la  dedizione  alla  patria,  con  il  misti¬ 
cismo  politico  della  comunità  nazionale  e  con  l’unità  di  fede.  E 
un  problema  che  il  pensiero  mazziniano,  nella  indeterminatezza 
del  suo  profetismo,  lasciava  insoluto,  ma  che  riappare  dramma¬ 
ticamente  ogni  volta  che  si  avanza  l’esigenza  di  una  religione  ci¬ 
vile  per  una  società  democratica. 


Come  fare  gli  italiani? 

Certo,  l’Italia  monarchica  era  ben  altra  cosa  dalla  Terza  Italia 
vagheggiata  da  Mazzini.  Nonostante  il  decisivo  apporto  dato  dal 
mazzinianesimo  alla  conquista  dell’unità,  nel  nuovo  Stato  non  vi 
era  traccia  del  suo  misticismo  politico.  Tuttavia,  anche  se  non  era 
animata  dall’afflato  religioso  di  Mazzini,  la  classe  dirigente  del¬ 
l’Italia  unita  non  ignorò  e  non  fu  insensibile  al  problema  della 
«rehgione  della  patria».  L’esigenza  di  una  religione  civile,  anzi, 
assillava  quanti,  di  fronte  ad  una  popolazione  in  larghissima  mag¬ 
gioranza  rimasta  estranea  e  passiva  nel  processo  di  unificazione, 
se  non  addirittura  ostile,  ritenevano  necessario  formare  una  co¬ 
scienza  unitaria  collettiva,  per  rafforzare  la  nuova  Italia  nei  con- 

G.  Mazzini,  D’alcune  cause  che  impedirono  finora  lo  sviluppo  della  libertà 
in  Italia  (1832),  in  Id.,  Scritti  politici,  cit.,  p.  253. 


12 


Il  culto  del  littorio 


fronti  della  Chiesa  ed  affermarla,  con  una  propria  moderna  iden¬ 
tità  nazionale,  di  fronte  alle  grandi  nazioni  europee. 

Per  Francesco  De  Sanctis,  uno  dei  più  appassionati  e  inquieti 
interpreti  di  questa  esigenza,  la  religione,  intesa  come  «forza  di 
uscire  da  sé  e  sentirsi  in  un  tutto»i-*,  era  fondamentale  per  «fare  gli 
italiani»,  per  riformare  il  loro  carattere  liberandolo  dal  vecchio 
«uomo  di  Guicciardini»  che  badava  solo  al  suo  «particolare»: 

La  razza  italiana  -  scriveva  nel  1869  -  non  è  ancora  sanata  da  que¬ 
sta  fiacchezza  morale,  e  non  è  ancora  scomparso  dalla  sua  fronte  quel 
marchio  che  ci  ha  impresso  la  storia  di  doppiezza  e  di  simulazione. 
L’uomo  del  Guicciardini  «vivit,  imo  in  Senatum  venit»,  e  lo  incontri 
ad  ogni  passo.  E  quest’uomo  fatale  c’impedisce  la  via,  se  non  abbia¬ 
mo  la  forza  di  ucciderlo  nella  nostra  coscienza. 

L’Italia  soffriva  per  mancanza  di  civismo,  di  carattere  e  di  sen¬ 
timento  serio  della  vita,  perché  non  aveva  avuto  una  riforma  re¬ 
ligiosa  capace  di  dare  agli  italiani  una  coscienza  morale: 

E  la  conseguenza  è  triste  -  diceva  in  una  lezione  su  Mazzini  nel 
1874  -:  l’Italia  rimane  ancora  qual’era  innanzi.  Fatta  l’unità  politica, 
manca  l’unità  intellettuale  e  morale  fondata  sull’unità  religiosa.  E  se 
seguiteremo  a  trattare  la  religione  come  arma  politica,  senza  ristaura- 
re  quel  sentimento  religioso  che  per  me  è  il  sentimento  del  sacrifizio 
individuale,  il  dovere  uscir  da  sé  e  mettersi  in  comunicazione  con  gli 
altri  pel  bene  di  tutti,  avverrà  che  l’Italia  rimarrà  oscillante  ancora  tra 
il  paganesimo  e  l’ipocrisia.^^ 

Compiuta  l’unificazione  politica,  dunque,  rimaneva  ancora  da 
realizzare  1  unità  morale  e  ideale  delle  masse,  perché  «l’unità  poli¬ 
tica  è  vana  cosa  senza  la  redenzione  intellettuale  e  morale,  vana  co¬ 
sa  è  aver  formato  l’Italia,  come  disse  D’Azeglio,  senza  gli  italiani. 
Questo  programma  non  fu  dato  a  lui,  non  è  dato  alla  generazione 
contemporanea,  rimane  affidato  alla  nuova  generazione»^^.  Anche 

De  Sanctis,  La  scuola  liberale  e  la  scuola  democratica,  cit.,  p  391 

^Ud.,L  uomo  del  Guicciardini  (1869),  in  Id.,  Saggi  critici,  a  cura  di  L.  Rus¬ 
so,  3  voli.,  Bari  1957,  voi.  Ili,  p.  23. 

Id.,  La  scuola  liberale  e  la  scuola  democratica  cit.,  pp.  424-425. 

Ivi,  p.  449. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


13 


per  De  Sanctis,  il  problema  della  religione  civile  era  fondamenta¬ 
le  per  il  consolidamento  morale  dell’unità  politica.  Occorreva  in¬ 
segnare  agli  italiani  «la  sincerità  e  l’energia  delle  convinzioni»^®, 
quali  poteva  dare  solo  una  religione,  ma  egli  pensava  non  ad  una 
religione  dogmatica,  bensì  ad  un  «sentimento  religioso,  che  è  un 
fondamento  importante  dell’educazione»^^,  ed  invocava,  per  que¬ 
sto,  l’ausilio  di  una  scienza  attiva,  ricongiunta  alla  vita: 

La  scienza  dee  organizzarmi  questa  educazione  nazionale;  dee  imi¬ 
tarmi  il  cattolicesimo,  la  cui  potenza  non  è  il  catechismo,  ma  è  l’uo¬ 
mo  preso  dalle  fasce  e  tenuto  stretto  in  pugno  sino  alla  tomba;  dee 
imitarmi  quei  suoi  organismi  di  granito,  su’  quali  ella  picchia  e  ripic¬ 
chia  da  secoli,  e  ancora  invano.^® 

Tuttavia,  a  differenza  di  Mazzini,  De  Sanctis  si  rendeva  reali¬ 
sticamente  conto  che  le  «religioni  nuove,  le  riforme  religiose  non 
si  fondano  su  opinioni  improvvisate  ma  han  tanto  più  forza, 
quanto  più  sono  radicate  nella  tradizione»^ L 

Ma  quale  nuova  religione  adottare  per  «fare  gli  italiani»?  Era 
questo  uno  dei  primi  grossi  ostacoli  che  si  opponevano,  nell’Italia 
unita,  alla  istituzione  di  una  religione  civile.  Infatti  diverse  rispo¬ 
ste  al  problema  sorgono  continuamente,  accalcandosi  e  contra¬ 
standosi  durante  tutto  il  corso  della  travagliata  esistenza  dell’Italia 
liberale.  C’era  chi  proponeva  di  attingere  alla  scienza  positiva  i 
precetti  della  nuova  religione  laica;  chi  auspicava  riforme  laiche 
del  cattolicismo;  chi  rievocava  la  religione  delle  virtù  civiche  della 
romanità,  e  chi  infine  giudicava  qualsiasi  tipo  di  religione,  laica  o 
meno,  affare  della  coscienza  privata,  mentre  alla  coscienza  pub¬ 
blica  del  cittadino  occorreva  un’etica  civile  ispirata  alla  ragione,  al¬ 
la  libertà  e  alla  tolleranza.  La  tendenza  comune  tuttavia  era  volta 
alla  formazione  di  una  «religione  della  patria»  che  fosse  concilia¬ 
bile  con  i  valori  di  libertà  che  erano  a  fondamento  del  nuovo  regi- 

De  Sanctis,  Giuseppe  Farmi  (1871),  in  Id.,  Saggi  critia,  voi.  Ili,  cit.,  p. 
117. 

L.  Russo,  Francesco  De  Sanctis  e  la  cultura  napoletana,  Venezia  1928,  p. 

311. 

F.  De  Sanctis,  La  scienza  e  la  vita  (discorso  del  16  ottobre  1872),  in  Id., 
Saggi  critici,  voi.  Ili,  cit.,  p.  161. 

Id.,  La  scuola  liberale  e  la  scuola  democratica,  cit.,  p.  423. 


14 


Il  culto  del  littorio 


me;  una  religione  civile,  dunque,  che  doveva  creare  la  fede  nazio¬ 
nale  della  collettività,  ma  senza  sacrificare  la  libertà  dell’individuo. 
Al  problema  di  definire  i  contenuti  di  una  religione  civile,  si  ag¬ 
giungeva  il  problema  di  trovare  gli  strumenti  idonei  per  diffon¬ 
derla  fra  le  masse  e  renderla  «credo»  comune  degli  italiani.  Anche 
questo  problema  costituiva  un  altro  ostacolo.  Le  vie  proposte,  in¬ 
fatti,  erano  anch’esse  diverse  e  contrastanti,  continuamente  oscil¬ 
lanti  fra  progetti  differenti,  che  praticamente  si  risolvevano  in  ten¬ 
tativi  e  iniziative  che  si  contrastavano,  spesso  si  arenavano  o  si  di¬ 
sperdevano  senza  dare  risultati  duraturi. 

Il  problema  della  nuova  religione  coincideva  col  problema  del¬ 
l’educazione  nazionale  delle  masse.  L’investimento  principale  del¬ 
l’Italia  liberale  per  la  istituzione  e  la  diffusione  popolare  di  una  «re¬ 
ligione  della  patria»  venne  fatto  nella  scuola  e  nell’esercito,  i  due  pi¬ 
lastri  del  sistema  di  pedagogia  nazionale,  sui  quali  si  fondavano  le 
speranze  per  la  nazionalizzazione  delle  masse  nella  Terza  Italia.  Do¬ 
po  il  1870,  i  governi  liberali  accrescono  il  potere  dello  Stato  sull’e¬ 
ducazione  per  fare  della  scuola  un  mezzo  di  rafforzamento  dell’u¬ 
nità,  garantendo  però  nello  stesso  tempo  la  libertà  di  insegnamen- 
to^^.  La  scuola  doveva  essere,  nei  propositi  dei  liberali  più  raziona¬ 
listi  e  anticlericali,  la  vera  «chiesa  dei  tempi  moderni».  L’insegna¬ 
mento  obbligatorio  della  dottrina  cattolica  nelle  scuole,  previsto 
dalla  legge  Casati  del  1859,  dopo  d  1870  venne  progressivamente  li¬ 
mitato,  reso  facoltativo  o  di  fatto  abolito^L  Nel  1877,  con  l’obbligo 
dell’istruzione  primaria  dai  sei  ai  nove  anni,  furono  introdotte  fra  le 
materie  d’insegnamento  «le  prime  nozioni  dei  doveri  dell’uomo  e 
del  cittadino»^'’.  Compito  dell’istruzione  elementare,  veniva  preci¬ 
sato  da  una  circolare  del  ministro  Coppino,  era  «formare  una  po¬ 
polazione,  per  quanto  sia  possibile,  istruita,  ma  principalmente  one¬ 
sta,  operosa,  utile  alla  famiglia  e  devota  alla  Patria  e  al  Re»^’. 

L.  Borghi,  Educazione  e  autorità  nell’Italia  moderna,  Firenze  1974,  pp. 
13-15.  Per  un  inquadramento  complessivo  di  questi  problemi,  resta  tuttora  in¬ 
superato  F.  Chabod,  Storia  della  politica  estera  italiana  dal  1870  al  1896,  Bari 
1951,  pp.  179  sgg.  Si  veda  anche  G.  Verucci,  L’Italia  laica  prima  e  dopo  l’U¬ 
nità,  Roma-Bari  1981,  pp.  66  sgg. 

Cfr.  T.  Tornasi,  L’idea  laica  nell’Italia  contemporanea,  Firenze  1971,  dd. 

28-29. 

2^'  Cfr.  D.  Bertoni  Jovine,  Storia  dell’educazione  popolare  in  Italia,  Bari  1965 
p.  183. 

Cit.  in  A.  A.  Mola,  Michele  Coppino.  Scritti  e  discorsi.  Alba  1978,  pp.  555-558. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


15 


Venivano  così  abbozzati,  nella  pedagogia  scolastica,  i  tratti  di 
una  religione  civile  attorno  al  patriottismo  monarchico,  da  cui 
emergeva  l’immagine  del  nuovo  credente,  il  «buon  cittadino»  del¬ 
lo  Stato  liberale,  probo,  virtuoso,  onesto,  amante  della  famiglia, 
della  patria  e  della  monarchia.  Anche  l’educazione  fisica  venne 
chiamata  a  dar  la  sua  collaborazione  alla  pedagogia  nazionale  per 
formare  il  «buon  cittadino»,  rendendolo  sano,  forte  e  virilmente 
preparato  a  difendere  la  patria.  De  Sanctis  aveva  introdotto  1  ob¬ 
bligatorietà  dell’educazione  fisica  nelle  scuole  perché,  disse  alla 
Camera  il  13  maggio  1878,  «se  dobbiamo  ricuperare  il  posto  do¬ 
vuto  alla  nostra  nazione,  stata  due  volte  capo  e  maestra  del  mon¬ 
do,  dobbiamo  procurare  che  questi  esercizi,  messi  in  correlazione 
coi  metodi  educativi  deH’intelletto  e  della  volontà,  penetrino  nei 
costumi  e  diventino  parte  integrante  delle  nostre  feste  e  delle  no¬ 
stre  istituzioni  nazionali»^*’.  In  questo  campo,  anche  le  associazio¬ 
ni  ginniche  sorte  col  proposito  di  «sostituire  nell’animo  popolare 
l’idealità  della  Patria  a  quella  della  religione»^^  avrebbero  dovuto 
cooperare  alla  formazione  del  «buon  cittadino»  e  alla  nazionaliz¬ 
zazione  delle  masse.  Queste  società  si  rivolgevano  non  soltanto  al¬ 
la  borghesia,  ma  avevano  anche  l’intento  di  coinvolgere  il  proleta¬ 
riato,  educandolo,  attraverso  la  ginnastica,  ai  valori  e  agli  ideali 
della  patria^^.  La  «Società  ginnastica  fiorentina»,  per  esempio,  sor¬ 
ta  nel  1876,  si  proponeva  appunto  di  «togliere  i  figli  del  povero 
dalle  piazze  e  dalle  strade  e  renderli  capaci  di  mostrarsi  alla  Società 
buoni,  educati  ed  utili  al  proprio  Paese»,  aiutandoli  nello  svilup¬ 
po  fisico  e  morale  «per  infondergli  l’energia,  il  coraggio  e  la  fidu¬ 
cia  in  se  stessi»,  addestrandoli  «in  tutti  gli  esercizi  anzi  tutto  mili¬ 
tari»,  e  «in  tutto  quello  che  abbisogna  alla  vita  dell’uomo  per  di¬ 
venire  buon  soldato  e  vero  cittadino»^^. 

Atti  parlamentari,  Camera  dei  deputati,  Documenti,  Legislatura  XIII,  sessio¬ 
ne  1878,  n.  48a,  p.  2,  cit.  in  G.  Bonetta,  Corpo  e  nazione,  Milano  1990,  pp.  82-83  . 

Discorso  del  senatore  Alvisi,  6  luglio  1888,  cit.  in  M.  Battoli,  Ginnasti¬ 
ca,  pedagogia,  educazione  fisica  e  sport  nella  scuola  italiana  1860-1892,  voi.  II, 
Napoli  1964,  p.  335.  Per  un  inquadramento  generale  del  problema  dell’edu¬ 
cazione  fisica  come  strumento  di  pedagogia  nazionale  nell’Italia  liberale,  si  ve¬ 
dano  gli  studi  di  S.  Giuntini,  Sport,  scuola  e  caserma,  Padova  1988,  Bonetta, 
Corpo  e  nazione,  cit.  e  P.  Ferrara,  L’Italia  in  palestra,  Roma  1992. 

Cfr.  Ferrara,  L’Italia  in  palestra,  cit.,  specialmente  il  cap.  III. 

2^  Programma  della  Società  ginnastica  fiorentina,  1877,  cit.  in  Ferrara,  L’I¬ 
talia  in  palestra,  cit.,  p.  75. 


16 


Il  culto  del  littorio 


Ma  la  sede,  che  alla  classe  dirigente  e  a  gran  parte  dell’opi- 
nione  pubblica,  liberale  e  monarchica,  appariva  come  la  più  adat¬ 
ta  a  realizzare  la  nazionalizzazione  delle  masse,  unendo  l’educa¬ 
zione  fisica  con  la  formazione  morale,  e  con  l’insegnamento  e  la 
pratica  del  culto  della  patria,  era  naturalmente  l’esercito.  In  tut¬ 
ti  gli  Stati  moderni,  per  sua  stessa  natura,  l’esercito  era  diventa¬ 
to  la  massima  istituzione  dedita  a  rappresentare  e  custodire  la 
«religione  della  patria»,  era  il  principale  sacerdote  che  ne  cele¬ 
brava  il  culto  pubblico  e  ne  diffondeva  la  credenza  fra  la  massa 
dei  cittadini  chiamati  al  servizio  militare^^’.  Per  i  giovani  di  leva, 
in  gran  parte  analfabeti  o  privi  di  qualsiasi  nozione  di  civismo, 
1  esercito  doveva  essere  «un  santuario  di  generosi  sentimenti»  do¬ 
ve  apprendere  «l’amor  di  patria,  l’affetto  e  la  devozione  al  Re,  il 
rispetto  alle  leggi  ed  alle  autorità»,  svolgendo  così,  insieme  con 
l’educazione  militare,  la  funzione  civile  di  «diffondere  nelle  mas¬ 
se  il  sentimento  della  nostra  unità  nazionale».  Restituiti  alla  vita 
civile,  i  soldati  sarebbero  diventati  apostoli  delle  «virtù  patrie», 
predicando  fra  le  famiglie  il  culto  della  nazione  e  delle  istituzio¬ 
ni.  In  tal  modo,  l’esercito  avrebbe  dato  il  suo  contributo  a  ce¬ 
mentare  l’unità  nazionale^b 

Questa  attività  di  pedagogia  nazionale  per  creare  una  reli¬ 
gione  civile  di  massa,  non  sembra  tuttavia,  allo  stato  delle  no¬ 
stre  conoscenze,  aver  conseguito  risultati  corrispondenti  alle 
aspettative,  anche  perché  le  stesse  classi  dirigenti  non  mostra¬ 
vano  convincimenti  e  impegno,  costanti  e  coerenti,  per  giunge¬ 
re  a  rendere  effettivamente  ed  efficacemente  popolare  una  reli¬ 
gione  civile  dello  Stato  monarchico.  La  scuola,  pur  celebrando 
il  culto  delle  virtù  patrie  e  le  glorie  del  Risorgimento,  non  riu¬ 


Sulla  funzione  dellesercito,  come  scuola  della  nazione  e  principale 
espressione  della  «religione  della  patria»,  e  sulle  diverse  versioni  e  interpreta¬ 
zioni  dell’idea  della  «nazione  armata»  cfr.  G.  Conti,  Il  mito  della  «nazione  ar¬ 
mata»,  in  «Storia  contemporanea»,  dicembre  1990,  pp.  1149-95.  Un  ruolo  spe¬ 
ciale,  nell’arnbito  di  questa  pedagogia  nazionalmilitare,  veniva  attribuito  alla 
Società  di  Tiro  a  segno,  come  istituzione  popolare  che  affiancava  l’opera  edu¬ 
cativa  dell  esercito.  Cfr.  S.  Giuntini,  Al  servizio  della  patria.  Il  tiro  a  segno  dal¬ 
l’Unità  alla  «Grande  guerra»,  in  «Lancillotto  e  Nausicaa»,  dicembre  1987;  V. 
Ilari,  Storia  del  servizio  militare  in  Italia,  voi.  II,  La  «nazione  armata»  (1871- 
1918),  S.I.,  1990,  pp.  257-274. 

E.  Fanchiotti,  Il  libro  di  lettura  pel  soldato  italiano,  in  «Rivista  Militare» 
1886, 1,  pp.  187-213. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


17 


sci  a  diffondere  fra  le  masse  la  fede  nella  religione  della  nazio¬ 
ne,  della  libertà  e  della  democrazia^^  Le  società  ginniche,  spes¬ 
so  travagliate  da  rivalità,  rimasero  limitate  a  gruppi  non  nume¬ 
rosi  di  frequentatori  e  non  ebbero  un  attivo  sostegno  da  parte 
dello  Stato  per  svolgere  una  funzione  di  pedagogia  nazionale  di 
massa,  e  scarsi  e  inadeguati,  rispetto  ai  fini  dichiarati,  furono  i 
mezzi  impiegati  e  i  risultati  conseguiti  dallo  Stato  stesso  per 
diffondere  l’educazione  fisica  nelle  scuole’^.  E  neppure  nell’e¬ 
sercito  si  riuscì  a  varare  in  modo  ordinato  e  sistematico  un  pia¬ 
no  di  nazionalizzazione  delle  reclute  e  ad  applicarlo  con  suc- 
cesso^"*.  Fallì  persino  l’iniziativa  di  istituire  un  «libro  di  lettura» 
per  il  soldato  «diretto  alla  educazione  del  carattere  nazionale»: 
una  sorta  di  breviario,  contenente  informazioni  militari,  notizie 
di  storia  patria  e  nozioni  di  educazione  civica  e  morale,  che  do¬ 
veva  diventare  per  il  cittadino  la  bibbia  della  «religione  della  pa¬ 
tria».  A  questo  scopo  fu  bandito  un  concorso  dal  ministro  del¬ 
la  Guerra  nel  1885  che  però  andò  a  vuoto  perché  nessuno  dei 
testi  presentati  fu  giudicato  idoneo^^. 


Liturgie  del  cordoglio 

I  tentativi  di  istituire  una  «religione  della  patria»  non  rima¬ 
sero  confinati  alla  scuola  e  all’esercito.  Ci  furono  anche  iniziati¬ 
ve  per  popolarizzare  il  culto  della  patria  attraverso  riti,  feste  e 
simboli.  Lo  Stato  monarchico  ebbe  i  suoi  simboli,  i  suoi  riti,  le 
sue  feste  e  manifestazioni  celebranti  la  nazione  e  le  istituzioni,  il 
culto  degli  eroi  dell’indipendenza  e  l’epopea  del  Risorgimento 


Cfr.  Bertoni  Jovine,  Storia  dell’educazione,  cit.,  p.  184. 

Cfr.  Ferrara,  L’Italia  in  palestra,  cit.,  pp.  188-191. 

Brevi  cenni  sull’educazione  nazionale  nell’esercito  sono  in  A.  Visintin, 
Esercito  e  società  nella  pubblicistica  militare  dell’ultimo  Ottocento,  in  «Rivista 
di  storia  contemporanea»,  n.  1,  1987,  pp.  31-58;  N.  Labanca,  1  programmi  del¬ 
l’educazione  morale  del  soldato.  Per  uno  studio  della  pedagogia  militare  nell’Ita¬ 
lia  liberale,  in  Esercito  e  città  dall’.unità  agli  anni  Trenta,  voi.  I,  Roma  1989,  pp. 
521-536. 

Cfr.  il  testo  del  bando  nel  «Giornale  militare  ufficiale»,  parte  I,  1885. 
Uno  dei  testi  giudicati  fra  i  migliori,  anche  se  non  meritevole  del  premio,  fu 
pubblicato  dall’autore  stesso,  maggiore  di  artiglieria,  F.  Mariani,  Perché  e  co¬ 
me  si  fa  il  soldato.  Libro  pel  soldato  italiano,  Pavia  1889. 


18 


Il  culto  del  littorio 


nella  versione  monarchica^^.  Il  calendario  della  liturgia  civile  era 
però  molto  scarno.  L’unica  festa  nazionale,  fino  al  1922,  fu  la  fe¬ 
sta  dello  Statuto  e  deU’Unità  d’Italia,  istituita  il  3  maggio  1861. 
L’anniversario  si  celebrava  la  prima  domenica  di  giugno,  con  ri¬ 
viste  militari  in  tutte  le  città  sedi  di  guarnigioni,  e  con  l’illumi¬ 
nazione  degli  edifici  pubblici.  A  Roma,  la  ricorrenza  era  festeg¬ 
giata  con  la  parata  militare,  con  i  fuochi  d’artificio  della  tradi¬ 
zionale  «girandola»  e  con  una  solenne  seduta  pubblica  dell’Ac¬ 
cademia  dei  Lincei  per  il  conferimento  dei  premi  reali.  Il  19  lu¬ 
glio  1895  fu  istituita  la  festa  civile  del  20  settembre,  anniversa¬ 
rio  della  presa  di  Roma,  ma  la  sua  celebrazione,  pretesto  sia  per 
manifestazioni  anticlericali  sia  specialmente  da  parte  massonica 
sia  per  manifestazioni  clericali  di  protesta  contro  lo  Stato  usur¬ 
patore,  divenne  occasione  di  scontri  e  polemiche  sull’eredità  ri¬ 
sorgimentale  fra  monarchici  e  repubblicani,  fra  liberali  e  demo- 
craticP^. 

I  propositi  di  creare  una  liturgia  nazionale  di  Stato  si  con¬ 
centrarono  naturalmente  attorno  al  culto  della  monarchia,  rap¬ 
presentata  come  principale  protagonista  del  Risorgimento,  e  so¬ 
prattutto  attorno  alla  figura  di  Vittorio  Emanuele  II,  il  «padre 
della  patria».  Il  grandioso  funerale  in  occasione  della  sua  morte 
nel  1878  e  il  pellegrinaggio  nazionale  al  Pantheon  nel  1884  per 
onorare  la  sua  tomba,  furono  le  manifestazioni  più  significative 
del  culto  monarchico^^.  Cerimonie  analoghe  si  svolsero  in  occa¬ 
sione  dei  funerali  di  Umberto  I  nel  1900,  e  con  il  pellegrinaggio 
alla  sua  tomba  nel  primo  anniversario  della  morte  per  rendere 
omaggio  al  «re  martire»^^.  Questi  riti,  nelle  intenzioni  dei  pro¬ 
motori,  al  di  là  del  significato  commemorativo,  avevano  la  fun¬ 
zione  di  esaltare  la  monarchia  come  artefice  dell’unità,  legitti¬ 
mandone  l’autorità,  e  miravano  a  suscitare  attorno  ad  essa  il  con- 


Alcuni  importanti  aspetti  dell’universo  simbolico  e  dei  riti  della  peda¬ 
gogia  patriottica  nell’Italia  unita,  dal  1870  al  1900,  sono  ricostruiti  con  accu¬ 
ratezza  in  B.  Tobia,  Una  patria  per  gli  italiani,  Roma-Bari  1991,  mentre  rima¬ 
ne  tuttora  utile  M.  Venturoli,  La  patria  di  marmo,  Pisa  1957. 

Per  uno  schizzo  di  storia  della  festa  del  20  settembre,  cfr.  Le  commemo¬ 
razioni  nel  passato,  in  «L’Idea  nazionale»,  20  settembre  1923. 

Cfr.  Tobia,  Una  patria  per  gli  italiani,  cit.,  pp.  100  sgg. 

Cfr.  Il  29  luglio  1901.  Ricordi  ed  atti  ufficiali  del  Comitato  centrale  per  la 
commemorazione  ed  il  pellegrinaggio  nazionale  alla  tomba  di  S.M.  Umberto  I, 
Roma  1902. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


19 


senso  popolare,  contribuendo  in  questo  modo  a  favorire,  con  for¬ 
me  simboliche  di  intensa  suggestione  emotiva,  la  pedagogia  na¬ 
zionale  di  massa.  Come  scrissero  i  promotori  del  pellegrinaggio 
alla  tomba  di  Umberto  I,  con  questo  rito  «voUe  l’Italia  dimostrare 
la  religione  delle  sue  memorie  verso  il  Re  buono  e  generoso  e  vol¬ 
le  ribadire  le  catene  di  amore  che  la  legano  alla  gloriosa  Dinastia 
di  Savoia»*”^,  celebrando  le  istituzioni  «nella  fede  allo  Statuto,  nel 
culto  della  libertà,  nello  zelo  del  bene,  nella  costante  devozione 
aU’Italia»‘^h 

Durante  i  primi  decenni  dell’Unità,  furono  numerose  le  ce¬ 
rimonie  commemorative  del  Risorgimento,  con  l’inaugurazione 
di  monumenti  e  ossari  dedicati  alle  guerre  di  indipendenza,  mol¬ 
ti  dei  quali  venivano  eretti  sui  luoghi  di  battaglia  per  iniziativa 
di  veterani  delle  guerre  del  Risorgimento,  amministrazioni  co¬ 
munali  e  comitati  cittadini.  Fra  il  1861  e  gl’inizi  del  Novecento 
ne  furono  edificati  una  quarantina'^^.  La  funzione  sacerdotale  nel 
culto  delle  memorie  risorgimentali  fu  assolta  principalmente  dal¬ 
le  società  dei  reduci,  i  focolai  più  attivi  di  una  religiosità  pa¬ 
triottica'^^.  La  più  solerte  fu  la  Società  di  Solterino  e  San  Mar¬ 
tino,  sorta  nel  1869,  che,  sotto  la  guida  dell’energico  senatore 
Luigi  Torelli,  si  fece  promotrice  di  alcune  importanti  iniziative 
per  gettare  le  fondamenta  di  un  culto  della  patria  e  per  l’edifi¬ 
cazione  di  monumenti,  come  l’Ossario  a  S.  Martino  della  Bat¬ 
taglia,  inaugurato  nel  1870,  e  la  Torre  dedicata  a  Vittorio  Ema¬ 
nuele  II,  sorta  sullo  stesso  luogo  nel  1893'^'*.  Questi  monumen¬ 
ti  erano  concepiti  come  veri  e  propri  «spazi  sacri»  dove 
celebrare  il  culto  della  nazione,  meta  di  pellegrinaggi  per  tener 
accesa  e  propagandare  la  fede  nella  «religione  della  patria».  La 
Torre,  dichiarava  Torelli,  doveva  diventare  «il  centro  solenne» 


Ivi,  p.  88. 

Ivi,  p.  108. 

'•2  I  monumenti  a  ricordo  delle  battaglie  per  l’Indipendenza  e  l’Unità  d’Ita¬ 
lia,  raccolti  da  V.  Cicala,  Voghera  1908.  Sui  monumenti  patriottici  nell’Italia 
liberale,  cfr.  Italia  moderna.  Immagini  di  un’identità  nazionale.  Dall’ unità  al 
nuovo  secolo,  Milano  1982,  pp.  26-38;  M.  Corgnati,  G.  Mellini,  F.  Poli  (a  cura 
di).  Il  lauro  e  il  bronzo.  La  scultura  celebrativa  in  Italia  1800-1900,  Torino  1990. 

Uno  sguardo  generale  sulla  vicenda  storica  di  queste  associazioni  è  in  G. 
Isola,  Un  luogo  d’incontro  fra  esercito  e  paese.  Le  associazioni  dei  veterani  del 
Risorgimento  (1861-1911),  in  Esercito  e  città  cit.,  pp.  499-519. 

Cfr.  Tobia,  Una  patria  per  gli  italiani,  cit.,  pp.  181  sgg. 


20 


Il  culto  del  littorio 


del  patriottismo''^^  ^  dell’ottobre  di  S.  Martino  della  Bat¬ 

taglia,  «la  festa  patriottica  per  eccellenza»'*'’. 

Anche  se  poteva  suscitare  una  larga  partecipazione  popolare,  è 
lecito  dubitare  sull’efficacia  pedagogica  di  questa  liturgia  per  pro¬ 
pagandare  la  fede  patriottica  fra  le  masse.  L’aspetto  della  celebra¬ 
zione  funebre  finiva  col  dare  un’impronta  di  mestizia  a  questa  li¬ 
turgia  che  si  presentava,  nei  momenti  più  solenni,  come  un  perpe¬ 
tuo  rito  del  rimpianto,  scandito  da  funerali  e  pellegrinaggi  alle  tom¬ 
be,  in  cui  predominava  il  motivo  del  dolore,  della  nostalgia  e  del 
cordoglio  per  la  perdita  del  «padre  della  patria»,  del  «re  buono  e 
generoso»  o  di  altri  padri  fondatori  dello  Stato  nazionale  come  Ca¬ 
vour  e  Garibaldi.  E,  per  questo,  non  era  certo  una  liturgia  adatta  a 
dare  una  rappresentazione  entusiasmante  della  «religione  della 
patria».  Mancava,  a  questi  riti  funebri,  lo  spirito  vitalistico  ed  esal¬ 
tante  del  mito  comunitario  della  rigenerazione  e  della  rinascita  at¬ 
traverso  il  sacrificio  della  vita,  che  era  invece  tipico  del  culto  dei 
martiri,  e  sarà  dominante  nel  culto  dei  caduti  dopo  la  Grande 
guerra,  e  soprattutto  nel  fascismo.  Piuttosto  che  riti  di  fede  nella 
vita  e  nel  futuro  della  patria,  essi  finivano  con  l’apparire  come  stra¬ 
zianti  manifestazioni  di  cordoglio  di  una  collettività  che  si  sentiva 
abbandonata  dai  suoi  santi  protettori  in  un’epoca  sempre  più  in¬ 
certa  e  agitata:  erano  una  manifestazione  di  debolezza  piuttosto 
che  una  dimostrazione  di  forza. 


Antagonismo  e  fragilità  dei  culti  nazionali 

Nonostante  i  tentativi  fatti  per  istituire  e  rendere  popolare  il 
culto  della  patria,  vi  sono  fondati  motivi  per  credere  che,  negli 
anni  dell’Italia  liberale,  la  diffusione  di  una  religione  civile  non 
abbia  fatto  molti  progressi.  Neanche  nel  campo  del  ritualismo  i 
risultati  appaiono  più  consistenti.  I  riti  per  istituire  un  culto  del¬ 
la  patria  non  mancarono,  ma  furono,  il  più  delle  volte,  manife¬ 
stazioni  circoscritte,  occasionali,  discontinue,  prive  di  coordina¬ 
mento,  organizzate,  come  confessavano  gh  stessi  promotori,  fra 

Im.  festa  popolare  di  S.  Martino  ed  i  concorsi  ai  premi  di  storia  patria,  Ro¬ 
ma  1880,  p.  20. 

Ivi,  p.  8. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


21 


mille  difficoltà,  fra  lo  scetticismo  e  l’indifferenza  anche  di  colo¬ 
ro  che  avrebbero  dovuto  sostenerle  e  incoraggiarle*^.  I  promo¬ 
tori  dovevano  lottare  spesso  «contro  l’imbelle  folla  degli  scettici 
e  degli  infingardi»'"'.  La  partecipazione  ai  riti,  anche  quando  mo¬ 
strava  lo  spettacolo  imponente  di  decine  di  migliaia  di  persone, 
non  costituiva  un  valido  sostegno  allo  sviluppo  di  una  vera  litur¬ 
gia  collettiva:  era  sempre  una  folla  d’occasione  e  non  una  massa 
liturgica. 

Ma  c’erano  altri,  e  più  profondi  motivi,  che  impedirono  a  que¬ 
sti  tentativi  rituali  di  istituzionalizzare  una  liturgia  nazionale.  La 
ricerca  della  religione  civile  era  ricerca  di  unità  di  fede  e  di  cre¬ 
denze  nella  divinità  della  nazione.  Ma,  in  realtà,  lo  stesso  mito 
della  nazione,  invece  di  suscitare  sentimenti  di  unità,  era  fonte  di 
divisione  e  di  conflitti,  perché  la  Terza  Italia  aveva  ereditato  dal 
Risorgimento  visioni  contrastanti  e  antagoniste  di  ciò  che  avreb¬ 
be  dovuto  essere  la  religione  civile  degli  italiani.  La  «religione 
della  patria»  professata  dalla  classe  dirigente  liberale  fu  sempre 
contestata  dai  fedeli  di  Mazzini  e  dai  democratici  a  loro  volta  pro¬ 
motori  di  un  culto  della  patria  che  veniva  praticato  in  opposi¬ 
zione  alla  liturgia  monarchica.  Con  l’avvento  della  «religione  so¬ 
cialista»,  un  nuovo  e  più  agguerrito  avversario  contese  con  suc¬ 
cesso  alla  religione  nazionale  la  conquista  delle  masse.  Ma  forse 
i  motivi  principali  della  mancata  istituzione  di  una  liturgia  na¬ 
zionale,  da  parte  della  classe  dirigente  liberale,  furono  altri:  l’as¬ 
senza  del  supporto  organizzativo  e  dell’entusiasmo  di  un  movi¬ 
mento  collettivo,  la  mancanza  di  sensibilità  democratica  per  l’a¬ 
zione  di  massa,  la  scarsa  disponibilità  culturale  a  concepire  e  ad 
attuare  un  processo  di  mobilitazione  delle  masse  attraverso  l’uso 
sistematico  di  riti  e  simboli.  La  concezione  razionalista  e  libera¬ 
le  della  politica,  la  fondamentale  diffidenza  per  la  massa,  vista  co¬ 
me  pericoloso  materiale  esplosivo  carico  di  energia  eversiva,  non 
incoraggiavano  i  dirigenti  della  Terza  Itaha  ad  un  impegno  con¬ 
vinto  e  costante  nella  costruzione  di  un  culto  politico  di  massa: 
in  questo  senso,  Crispi,  forse  il  più  attivo  promotore  di  una  li- 

Cfr.  Il  monumento  al  re  Vittorio  Emanuele  in  San  Martino  e  le  tabelle 
commemorative.  Relazione  ai  soci  della  società  di  Solferino  e  San  Martino  del 
presidente  Luigi  Torelli,  Torino  1887,  p.  17. 

Il  29  luglio  1901  cit.,  p.  5. 


22 


Il  culto  del  littorio 


turgia  nazionale  fra  gli  statisti  della  Terza  Italia,  fu  un’eccezione. 
La  visione  di  piazze  colme  di  foUa,  in  realtà,  evocava  immediata¬ 
mente,  nella  classe  dirigente,  paurose  immagini  di  rivolta  e  an¬ 
gosciosi  problemi  di  ordine  pubblico,  che  non  favorivano  certo 
l’istituzione  di  periodici  riti  di  massa  per  celebrare  il  culto  della 
patria  e  per  contribuire  ad  incrementare,  se  non  proprio  ad  in¬ 
ventare,  una  «nuova  politica»  per  nazionalizzare  le  masse'^^. 

L’esito  della  ricerca  di  una  «religione  della  patria»,  da  porre  a 
fondamento  dello  Stato  nazionale,  può  essere  emblematicamente 
rappresentato  dalla  vicenda  del  monumento  a  Vittorio  Emanuele 
II,  il  più  ambizioso  e  grandioso  progetto  architettonico  concepito 
dall’Italia  liberale  per  consacrare  nel  marmo  e  nel  bronzo  il  culto 
monarchico  della  «religione  della  patria».  L’idea  fu  avanzata  subi¬ 
to  dopo  la  morte  del  re,  nel  1878,  il  progetto  scelto  nel  1885,  ma  la 
realizzazione  richiese  oltre  mezzo  secolo,  procedendo  a  rilento  fra 
continue  polemiche  sul  modo  di  interpretare,  simbolizzare  e  ma¬ 
terializzare  nel  monumento  la  «religione  della  patria»,  che  anche 
in  questa  esperienza  appare  solcata  dalle  lacerazioni  fra  le  contra¬ 
stanti  tradizioni  della  rivoluzione  risorgimentale,  solo  in  parte  e 
marginalmente  sanate  dal  trascorrere  del  tempo: 

Il  Monumento  al  Padre  della  Patria  in  Roma  è  destinato  a  ripetere 
il  caso  delle  grandi  cattedrali  [...]  i  lavori  si  prolungavano  di  secolo  in 
secolo  [...]  E  pressoché  tutte  incompiute  sono  arrivate  queste  grandi 
costruzioni  fino  ai  giorni  nostri,  e  noi  pure,  da  eredi  fedeli,  vi  lavoria¬ 
mo,  sebbene,  ahimè,  l’antica  fede  sia  tanto  affievolita  negli  animi  nostri 
[...]  Così  il  Monumento  di  Roma  ha  già  esercitato  a  quest’ora  due  ge¬ 
nerazioni  d’artisti,  e  nessuno  può  dire  quante  altre  dovranno  faticarvi 
intorno  neH’awenire  [...]  la  fabbrica  tuttavia  continua  col  ritmo  di  una 
funzione  statale,  che  sembra  avere  per  misura,  non  il  tempo,  ma  l’eter¬ 
nità  [...]  Ma  noi  non  vedremo  quel  che  sarà  alla  fine  il  Monumento,  e 
per  i  tardi  nepoti  che  lo  vedranno,  il  tempo  avrà  esercitato  l’opera  sua 
che  fa  apparire  venerabile  e  bella  ogni  rovina. 


SiJ  concetto  di  «nuova  politica»  cfr.  Mosse,  La  nazionalizzazione  delle 
masse,  cit.,  pp.  7-26.  Sulla  paura  della  folla,  cfr.  Chabod,  Storia  della  politica 
estera  italiana  dal  1870  al  1896,  cit.,  pp.  352  sgg.;  Tobia,  Una  patria  per  gli  ita¬ 
liani,  cit.,  pp.  114-129.  Sulla  mancata  istituzione  di  una  liturgia  politica  dell’I¬ 
talia  liberale,  cfr.  anche  le  osservazioni  di  S.  Lanaro,  L’Italia  nuova,  Torino 
1988,  pp.  143-155. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


23 


Così  scriveva  con  rassegnata  ironia  «L’Illustrazione  italiana» 
il  4  novembre  192po.  In  quello  stesso  giorno,  anniversario  della 
vittoria  italiana  nella  Grande  guerra,  il  monumento  ancora  in¬ 
compiuto  veniva  consacrato  al  culto  della  nazione  con  la  solen¬ 
ne  cerimonia  per  la  tumulazione  del  Milite  Ignoto  sotto  1  Altare 
della  Patria. 


La  religione  dei  colti 

Agli  inizi  del  nuovo  secolo,  mentre  la  borghesia  liberale,  pur 
non  smettendo  la  pratica  delle  celebrazioni  patriottiche,  che  si 
svolsero  con  grande  fasto  in  occasione  del  Cinquantenario  del¬ 
l’Unità,  si  converte  ad  una  pratica  di  governo  che  non  persegue 
ideali  religiosi  di  rigenerazione  morale,  la  ricerca  di  una  religio¬ 
ne  civile  rimane  un  problema  fortemente  sentito  da  intellettuali 
e  politici  che  coltivavano  un  alto  ideale  di  nazione,  e  si  propo¬ 
nevano,  con  spirito  giovanile  e  aggressivo,  di  formare  la  coscien¬ 
za  dell’Italia  moderna. 

L’elaborazione  di  una  nuova  religione  laica  era  considerata  dal¬ 
l’avanguardia  modernistica  del  primo  Novecento  una  condizione 
necessaria  per  la  rigenerazione  culturale  e  morale  degli  italiani  b  II 
problema  religioso,  per  esempio,  era  al  centro  delle  tormentate  me¬ 
ditazioni  di  quel  seminario  laico  di  cultori  dello  spirito,  che  fu  «La 
Voce»  di  Giuseppe  Prezzolini,  lui  stesso  teorico  di  una  «religione 
dell’irreligione»  ovvero,  come  precisava  il  pedagogista  Giuseppe 
Lombardo  Radice,  di  una  «nuova  reHgione»^^:  una  religione  del¬ 
l’umanismo  integrale,  fondata  sull’idealismo  di  Croce  e  di  Gentile, 
che  doveva  soppiantare,  nelle  coscienze  e  nelle  istituzioni,  la  decli- 


Sulle  vicende  del  monumento,  cfr.  Il  Vittoriano.  Materiali  per  una  storia, 
2  voli.,  Roma  1986.  ,  n  i  r, 

51  Cfr.  W.L.  Adamson,  Fascism  and  Culture:  Avant-Garde  and  Secular  Re- 
ligion  in  thè  Italian  Case,  in  «Journal  of  Contemporary  History»,  n.  3,  1989, 
pp.  41 1-435  e  Id.,  Modernism  and  Fascism.  The  Politics  of  Culture  in  Italy,  1903- 
1922,  in  «The  American  Historical  Review»,  aprile  1990,  pp.  359-390,  dove  è 
esaminato  in  una  nuova  prospettiva  il  problema  della  religione  secolare  nella 
cultura  italiana  prima  del  fascismo. 

52  Lettera  di  Lombardo  Radice  a  Prezzolini,  Catania,  27  maggio  1913,  in  I. 
Picco,  Militanti  dell’ideale.  Giuseppe  Lombardo  Radice  e  Giuseppe  Prezzolini. 
Lettere  1908-1938,  Locamo  1991,  p.  146. 


24 


Il  culto  del  littorio 


nante  religione  cattolica,  e  divenire  la  nuova  fede  dell’italiano  mo¬ 
derno.  Il  problema  della  religione  civile  superava  così  l’orizzonte 
della  questione  nazionale  per  divenire  un  momento  della  più  gene¬ 
rale  crisi  spirituale  dell’«uomo  moderno»,  sospeso  fra  il  declino 
delle  religioni  tradizionali  e  l’angoscioso  senso  del  vuoto,  che  que¬ 
ste  lasciavano,  nell’attesa  del  sorgere  di  una  nuova  fede.  «Quel  che 
ci  preoccupa,  quello  che  ci  studiamo  di  riparare,  è  il  presente  stato 
di  crisi,  in  cui  tramontano  i  miti  e  le  trascendenze  di  un  tempo,  né 
ancora  sembrano  sorgere  altre  siffattamente  presenti.  Noi  sentia¬ 
mo  vivamente  l’esigenza  sociale  e  l’esigenza  etica  (rispetto  a  noi 
stessi,  all’educato,  di  non  ingannarlo)  per  la  quale  non  possiamo 
servirci  del  vecchio  mito,  e  soffriamo  che  ancora  un  altro  non  ci 
sia»^^.  La  ricerca  di  una  nuova  religione  secolare  trovava  in  questi 
intellettuali  gli  adepti  più  appassionati,  sensibili  ai  tormenti  del- 
r«anima  moderna»  nel  suo  anelito  «ad  una  nuova  concezione  uni¬ 
taria  che  abbia  il  fascino  della  fede  religiosa»^'^.  La  maggior  parte  di 
loro  però  aspirava  a  una  religione  intellettuale,  culturalmente  ari¬ 
stocratica,  e  ignorava,  o  comunque  non  prendeva  in  considerazio¬ 
ne,  nella  sua  visione  di  riforma  intellettuale  e  morale  degli  italiani, 
la  creazione  di  una  liturgia  nazionale,  con  riti  e  simboli.  Preferen¬ 
do  la  costruzione  di  biblioteche  all’erezione  di  monumenti,  i  cer¬ 
catori  vociani  di  una  nuova  fede  avrebbero  certamente  condiviso 
l’affermazione  crociana,  che  una  «nuova  religione  civile  non  pote¬ 
va  formarsi  se  non  con  un  nuovo  moto  di  pensiero,  segno  e  stru¬ 
mento  insieme  di  un  elevamento  degli  animi»^^.  E,  tuttavia,  fu  nel 
circolo  di  questi  cultori  dello  spirito  e  cercatori  di  nuove  fedi  che  si 
formarono  alcuni  dei  futuri  credenti  della  religione  fascista,  come 
lo  stesso  futuro  capo  di  questa  religione. 

Mussolini,  in  quel  periodo,  si  professava  ateo  militante  e  pra¬ 
ticava  uno  sguaiato  anticlericalismo,  ma  frequentava  con  un  cer¬ 
to  interesse  i  problemi  della  religione,  studiava  i  fenomeni  ereti¬ 
cali  della  riforma,  meditava  sulla  «religione  dell’irreligione»  di 
Guyau,  si  esaltava  con  Nietzsche  nella  profezia  di  una  trasmuta¬ 
zione  di  valori  per  l’avvento  di  «uomini  nuovi»  e  non  esitava  a 

G.  Prezzolimi,  Il  problema  dell’educazione  religiosa,  in  «La  Voce»,  28  lu¬ 
glio  1914. 

L’Anonimo,  Impazienze  moderne,  in  «La  Voce»,  13  giugno  1914. 

’’  B.  Croce,  Storia  del  Regno  di  Napoli,  Bari  1966,  p.  143. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


25 


definire  «religiosa»  la  sua  concezione  palingenetica  del  sociali¬ 
smo  rivoluzionario.  Per  Mussolini  il  socialismo  non  era  solo  una 
concezione  scientifica,  ma  doveva  essere  una  cultura  integrale, 
per  formare  la  coscienza  dell’uomo  nuovo  attraverso  la  forza  del¬ 
la  «fede»:  «Noi  vogliamo  crederlo,  noi  dobbiamo  crederlo,  l’u¬ 
manità  ha  bisogno  di  un  credo.  È  la  fede  che  muove  le  montagne 
perché  dà  l’illusione  che  le  montagne  si  muovano.  L’illusione  è, 
forse,  l’unica  realtà  della  vita»^^.  Il  futuro  duce  non  attribuiva, 
allora,  molta  importanza  al  rituale,  considerandolo  un  aspetto  se¬ 
condario  della  religione,  ma  usava  spesso  metafore  della  tradi¬ 
zione  cristiana  per  definire  la  sua  concezione  del  partito  rivolu¬ 
zionario,  come  ecclesia  di  credenti  e  di  militantP^. 


Una  luce  dall’Oriente 

La  ricerca  di  una  religione  secolare  per  realizzare  la  nazionaliz¬ 
zazione  delle  masse,  coinvolgendole  attivamente  nel  culto  della 
patria,  e  per  poter  fronteggiare  così  la  mobihtazione  politica  dei 
socialisti  e  dei  cattolici,  all’inizio  del  Novecento  riprendeva  vigore 
nel  movimento  nazionalista,  in  un  progetto  che  però  abbandona¬ 
va  definitivamente  tutto  quel  che  di  liberale  e  di  umanitario  era 
nella  «religione  della  patria»  della  tradizione  risorgimentale,  per 
avanzare  decisamente  e  lucidamente  la  proposta  di  una  religione 
politica  che  assolutizzava  il  culto  della  patria  come  divinità  viven¬ 
te.  La  luce  per  la  nuova  fede  veniva  ai  nazionalisti  dall’estremo 
Oriente.  Enrico  Corradini,  fondatore  del  movimento,  guardava 
con  ammirazione  la  «religione  degli  eroi  e  della  natura»,  come  esi¬ 
steva  in  Giappone.  Con  il  culto  degli  eroi,  dell’imperatore  e  della 
natura,  il  popolo  giapponese  compiva  riti  di  autoadorazione,  che 
integravano  l’individuo  nella  collettività  e  consolidavano  una  co¬ 
scienza  nazionale,  capace  di  sfidare  e  vincere  in  guerra  il  grande 
impero  russo.  «Il  Giappone  è  il  Dio  del  Giappone.  La  forza  che 
questo  popolo  attinge  alla  religione  è  forza  attinta  nelle  sue  stesse 
viscere,  gli  eroi  sono  popolo  del  passato,  la  natura  è  la  patria:  v’è 

Mussolini,  Da  Guicciardini  a...  Sarei,  in  «Avanti!»,  18  luglio  1912. 

Sull’ideologia  di  Mussolini  in  questi  anni,  cfr.  E.  Gentile,  Le  origini  del¬ 
l’ideologia  fascista,  Roma-Bari  1975,  pp.  3-38. 


26 


Il  culto  del  littorio 


un’autoadorazione»^^.  Corradini  proponeva  di  istituire  una  reli¬ 
gione  della  nazione  a  forte  tinta  paganeggiante,  imitando  la  tradi¬ 
zione  dei  culti  nazionali  della  rivoluzione  francese; 

Magnifica  è  la  religione  degli  eroi  e  della  natura.  La  rivoluzione 
francese  rimise  in  onore  due  grandi  cose:  il  valore  militare  e  il  culto 
della  patria  e  della  natura.  Bisogna  su  questi  punti  riprendere  le  tradi¬ 
zioni  rivoluzionarie  [...]  Noi  pensiamo  ad  una  religione  che  ci  renda  il 
sentimento  della  natura  qual  è  nella  salutazione  di  Mitra,  congiunto  al 
culto  degli  eroi,  cioè  di  quella  parte  d’umanità  che  è  passata  su  questa 
terra  per  creare  in  alto  il  regno  dell’eterno  umano  ideale.^^ 

In  questa  religione,  aveva  un  ruolo  fondamentale  il  culto  degli 
eroi,  non  come  generica  rimembranza  e  rimpianto,  ma  come  atti¬ 
va  celebrazione  della  divinità  della  nazione  ed  eccitamento  alla  vi¬ 
ta:  «Mercé  gli  eroi  la  nazione  diventa  patria,  l’azione  diventa  reli¬ 
gione.  Gli  eroi  sono  l’anima  vivente  della  patria»;  essi  vivono 

nel  profondo  del  cuore  del  popolo  e  nell’alto  pensiero  dei  poeti  [...] 
Ogni  grande  popolo  ha  sopra  la  sua  terra  il  suo  cielo,  la  casa  dei  suoi 
eroi,  e  più  grande  è  quel  popolo  che  ha  più  grandi  e  numerosi  eroi 
[...]  gli  eroi  sono  coloro  i  quali  ferocissimamente  lottando  col  desti¬ 
no  portarono  per  tutti  più  avanti  i  termini  del  potere  umano.  E  per 
tutti  superarono  il  tempo  e  la  morte.^*^ 

La  nuova  religione  doveva  essere  il  fattore  di  fusione  dell’in¬ 
dividuo  con  la  nazione,  come  entità  collettiva  che,  di  generazio¬ 
ne  in  generazione,  si  eterna  nel  divenire  del  tempo,  traendo  la 
sua  vitalità  dallo  spirito  degli  eroi  e  dal  sangue  di  coloro  che  si 
immolano  per  essa  nelle  guerre  che  scandiscono  il  ritmo  dell’a¬ 
scesa  verso  la  grandezza; 

La  guerra  è  la  più  gigantesca  manifestazione  di  vita  che  possono 
offrire  gli  uomini  nel  mondo.  La  guerra  può,  anzi,  deve  portare  un 
culto:  il  culto  degli  eroi,  il  culto  delle  tradizioni.  Una  nazione  non  può 


E.  Corradini,  Una  nazione,  in  «Il  Regno»,  19  giugno  1904. 

Id.,  Scritti  e  discorsi  1901-1904,  a  cura  di  L.  Strappini,  Torino  1980,  pp. 
140-141. 

La  nazione  gli  eroi,  in  «Il  Tricolore»,  1°  giugno  1909. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


27 


avere  aspirazioni  di  grandezza  se  non  venera  il  passato  e  se  non  esal¬ 
ta  la  propria  forza.^^ 


La  consacrazione  del  sangue 

Pv.r  assumere  autentica  sacralità,  dunque,  la  nazione  italiana 
doveva  passare  attraverso  la  prova  del  sacrificio  ed  essere  santi¬ 
ficata  dal  sangue  dei  suoi  figli.  Il  simbolo  del  sangue  salvifico  pu¬ 
rificatore  e  santificante,  insieme  con  il  mito  della  violenza  rige¬ 
neratrice,  entra  nella  retorica  di  un  nazionalismo  che  soffre  del 
complesso  di  inferiorità  per  una  tradizione  nazionale  senza  gran¬ 
di  guerre  e  grandi  vittorie,  ma  è  anche  presente  nella  tradizione 
del  mito  rivoluzionario,  che  non  concepisce  rivoluzione  senza 
violenza  purificatrice.  Il  rapporto  fra  la  violenza  e  il  sacro^^  è  pre¬ 
sente  nel  processo  di  sacralizzazione  della  politica  sotto  forma  di 
guerra  e  di  rivoluzione.  L’una  e  l’altra  sono  eventi  catastrofici  at¬ 
traverso  i  quali  avviene  una  rigenerazione  dell’uomo  e  si  forma, 
attraverso  l’esperienza  della  lotta  e  del  sacrificio,  un  «uomo  nuo¬ 
vo».  Il  mito  della  «rivoluzione  italiana»,  alla  vigilia  del  conflitto 
europeo,  era  già  pervenuto  a  fondere  guerra  e  rivoluzione  nell’i¬ 
dea  del  «grande  evento»  palingenetico,  che  doveva  creare  final¬ 
mente  la  «nuova  Italia»,  facendo  compiere  un  altro  passo,  nel¬ 
l’ambito  del  mito  nazionale,  alla  sacralizzazione  della  politica. 

Nella  «generazione  del  1914»  era  molto  viva  l’aspirazione  a 
dare  un  fondamento  di  religiosità  laica  alla  politica,  per  realizza¬ 
re  una  «rivoluzione  dello  spirito».  Stato  d’animo,  questo,  larga¬ 
mente  diffuso  in  Europa  alla  vigilia  della  guerra.  La  stessa  «di¬ 
sperazione  religiosa  contemporanea»,  in  effetti,  prendeva  «al¬ 
l’occhio  del  profano  l’aspetto  d’una  rinascita  religiosa»,  col  fe¬ 
nomeno  tipico  delle  epoche  di  transizione,  di  «increduli  che  cer¬ 
cano  con  ogni  sforzo  di  crearsi  una  religione»*^^.  Molti  giovani, 
inquieti  per  mancanza  di  fede  e  tormentati  dalla  sete  di  miti,  e 

La  nostra  azione,  in  «Il  Tricolore»,  16  giugno  1909. 

Su  questo  rapporto,  cfr.  R.  Girard,  La  violenza  e  il  sacro,  trad.  it.  di  O. 
Fatica  e  E.  Czerkl,  Milano  1980. 

V.  Fazio-Allmayer,  Disperazione  religiosa  contemporanea  e  le  basi  della 
morale,  in  «La  Voce»,  13  agosto  1914,  pp.  2-3. 


28 


Il  culto  del  littorio 


dal  desiderio  di  azione  e  dedizione  per  una  causa,  aspettavano  da 
una  guerra  o  da  una  rivoluzione  il  sorgere  di  nuove  idealità,  di 
un  nuovo  spirito  religioso  capace  di  rigenerare,  anche  con  la  vio¬ 
lenza,  una  società  ritenuta  materialistica  e  decadente: 

Il  contenuto  spirituale  dei  popoli  europei  è,  o  almeno  era,  senza 
dubbio  assai  scarso.  Nessuna  delle  grandi  forze  morali  dell’umanità  par 
che  si  levi  a  presidio  della  causa  delle  armi,  ed  elevi  il  tono  della  lotta. 
L’antica  religione,  che  tante  forze  ideali  ha  suscitato  nella  sua  storia  mil¬ 
lenaria,  è  scomparsa  dagli  animi,  senza  che  una  nuova,  o  almeno  uno 
spirito  nuovo  nell’antica,  abbia  ancora  potuto  sostituirla  o  vivificarla.^ 

Alla  vigilia  della  guerra  era  dominante,  nei  movimenti  più  le¬ 
gati  al  mito  della  guerra  rigeneratrice,  la  percezione  della  crisi 
epocale  di  una  società  prossima  ormai  al  momento  risolutivo,  al¬ 
la  vigilia  di  uno  di  quegli  eventi  catastrofici  che  precedono  e  pre¬ 
parano  le  grandi  trasmutazioni  di  valori,  e  il  sorgere  di  nuove  for¬ 
me  di  spiritualità,  di  religione,  di  civiltà. 

Molti  giovani  parteciparono  alla  Grande  guerra  spinti  dal  desi¬ 
derio,  come  scrisse  Carlo  Rosselli,  di  «immolarsi  anima  e  corpo  ad 
una  causa  -  quale  che  fosse  -  purché  capace  di  trascendere  i  me¬ 
schini  motivi  della  vita  d’ogni  giorno»^^.  La  guerra  suscitò  effettiva¬ 
mente  quello  «stato  d’effervescenza  collettivo»,  preludio  al  sorgere 
di  nuove  forme  di  religiosità^’^’.  La  guerra  stessa  fu  percepita  come 
una  ierofania  tragica:  «ognuno  agisce  come  se  tutti  assieme  si  fosse 
ispirati  di  terrore  sacro.  Si  sente  ch’è  vicino  Dio  sul  campo  di  batta¬ 
glia»,  scriveva  Scipio  Slataper  nel  suo  diario  il  23  novembre  1915^^. 


^  G.  De  Ruggiero,  Il  pensiero  italiano  e  la  guerra,  in  «Revue  de  Méthaphi- 
sique  et  de  Morale»,  settembre  1916,  riportato  in  Id.,  Scritti  politici  1912-1926, 
a  cura  di  R.  De  Felice,  pp.  141-142. 

C.  Rosselli,  Socialismo  liberale,  Torino  1979,  p.  47.  Cfr.  R.  Wohl,  1914.  Sto¬ 
ria  di  una  generazione,  trad.  it.  di  A.  Marconi  Pedrazzi,  Milano  1983;  D.  Settem¬ 
brini,  Storia  dell’idea  antiborghese  in  Italia,  1 860- 1 989,  Roma-Bari  1991,  cap.  IV. 

^  Cfr.  E.  Durkheim,  Les  formes  élémentaires  de  la  vie  religieuse,  Paris  1985, 
pp.  312-313. 

Cit.  in  G.  Prezzolini,  Tutta  la  guerra,  Milano  1968,  p.  271.  Sul  sentimento 
di  sacralità  ispirato  dall’esperienza  della  guerra,  si  veda  anche  la  testimonian¬ 
za  di  P.  Teilhard  de  Chardin,  Lm  vita  cosmica.  Scritti  del  tempo  di  querra  (1916- 
1919),  trad.  it.  di  A.  Dozon  Daverio,  Milano  1982,  pp.  229-250.  Sul  rapporto 
tra  la  guerra  e  il  sacro  cfr.  G.  Bouthoul,  Le  guerre,  trad.  it.  di  S.  Montanelli, 
Milano  1961,  pp.  347  sgg. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


29 


La  tragedia  della  guerra,  l’esperienza  della  morte  di  massa  vis¬ 
suta  per  la  prima  volta  da  milioni  di  uomini  nelle  trincee,  favori¬ 
rono  il  risveglio  del  sentimento  religioso  tradizionale  e  contri¬ 
buirono  anche  alla  formazione  di  nuove  correnti  di  religiosità  lai¬ 
ca,  che  scaturirono  direttamente  dalla  guerra  e  rivestirono  di  rin¬ 
novata  sacralità  i  miti  della  nazione,  dando  impulso  alla  ripresa 
e  alla  diffusione  di  forme  di  «religione  civile»,  attraverso  la  pro¬ 
paganda  patriottica  e  la  celebrazione  del  culto  dei  martiri  e  de¬ 
gli  eroi  che  per  la  patria  si  erano  immolati^’^.  «Una  rinascita  di 
pensiero  e  di  fede  religiosa  è  in  queste  fasi  della  vita  assai  pro¬ 
babile,  ed  infatti  nell’ora  presente  non  mancano  i  segni  di  una 
forte  rinascita  dello  spirito  cattolico  e  dei  valori  religiosi»,  scri¬ 
veva  nel  1922  Agostino  Lanzillo^’^L  Nello  stesso  periodo.  Mari¬ 
netti  annotava  nei  suoi  diari:  «L’umanità  ha  bisogno  oggi  d’una 
nuova  religione  che  sintetizzi  e  organizzi  tutte  le  superstizioni, 
tutte  le  piccole  religioni  intime  tutti  i  culti  segreti»"^®.  Sergio  Pa- 
nunzio  esprimeva  un  sentimento  simile:  «C’è  il  bisogno  dispera¬ 
to  di  una  religione,  c’è  il  sentimento  diffuso  della  religiosità  [...] 
ma  la  religione  non  c’è»^L 

Il  mito  dell’esperienza  della  guerra  diede  un’altra  spinta  de¬ 
cisiva  alla  sacralizzazione  della  politica,  apportando  nuovo  mate¬ 
riale  per  la  costruzione  di  una  religione  nazionale,  con  i  miti,  i  ri¬ 
ti  e  i  simboli  nati  nelle  trincee.  La  simbologia  cristiana  della  mor¬ 
te  e  della  resurrezione,  la  dedizione  alla  nazione,  la  mistica  del 
sangue  e  del  sacrificio,  il  culto  degli  eroi  e  dei  martiri,  la  «co¬ 
munione»  del  cameratismo  divennero  gli  ingredienti  per  forma¬ 
re  una  nuova  «religione  della  patria»^^.  Attraverso  questi  miti,  ri¬ 
sorse  o  si  rinvigorì  fra  la  massa  dei  combattenti  il  mito  della  ri¬ 
voluzione  come  rigenerazione  morale,  e  l’idea  di  una  nuova  po- 

^  Fra  i  primi  promotori  di  una  liturgia  patriottica  legata  alla  guerra  ebbe 
particolare  importanza  il  Comitato  d’azione  tra  mutilati  invalidi  e  feriti  di  guer¬ 
ra,  che  soprattutto  dopo  Caporetto  divenne  attivo  organizzatore  di  riti  e  ma¬ 
nifestazioni  celebranti  il  culto  dei  caduti  e  i  miti  della  nazione  in  guerra,  cfr.  R. 
Fasani,  Il  Comitato  d’azione  fra  mutilati,  invalidi  e  feriti  di  guerra,  Milano  1938. 

A.  Lanzillo,  Le  rivoluzioni  del  dopoguerra.  Città  di  Castello  1922,  p.  XVTII. 

70  F.T.  Marinetti,  Taccuini  1913-1921,  a  cura  di  A.  Bertoni,  Bologna  1987, 
p.  488. 

71  S.  Panunzio,  La  gravità  della  crisi  attuale,  in  «Polemica»,  agosto  1922. 

77  Cfr.  G.L.  Mosse,  Le  guerre  mondiali  dalla  tragedia  al  mito  dei  caduti,  trad. 

it.  di  G.  Ferrara,  Roma-Bari  1990,  pp.  59  sgg. 


30 


Il  culto  del  littorio 


litica  come  missione  salvifica  e  esperienza  integrale,  che  doveva 
rinnovare  tutte  le  forme  dell’esistenza.  La  guerra  riprendeva  e 
continuava  la  rivoluzione  di  Mazzini.  La  politica  non  doveva  tor¬ 
nare  a  manovrare  nella  banalità  dell’ordine  tradizionale,  ma  per¬ 
petuare  l’impeto  eroico  della  guerra  e  il  senso  mistico  della  co¬ 
munità  nazionale,  per  realizzare  la  «rivoluzione  italiana». 

Il  maggior  contributo  alla  costruzione  di  una  religione  na¬ 
zionale,  in  questo  periodo,  fu  dato  da  Gabriele  D’Annunzio, 
con  la  retorica  e  con  l’azione.  Il  poeta,  che  da  anni  aveva  as¬ 
sunto  il  ruolo  di  profeta,  bardo  e  sacerdote  di  una  rinnovata  «re¬ 
ligione  della  patria»,  fu  inesauribile  artefice  di  metafore  religio¬ 
se,  attingendo  liberamente  alla  tradizione  cristiana,  alla  mitolo¬ 
gia  classica,  ai  culti  delle  trincee,  per  elaborare  una  raffinata 
retorica  politico- religiosa  che  impregnò  il  linguaggio  e  la  mito¬ 
logia  del  nazionalismo  rivoluzionario  prodotto  dalla  guerra.  La 
sua  partecipazione  alla  campagna  interventista  contribuì  a  tra¬ 
sformare  le  manifestazioni  di  piazza  in  nuovi  riti  della  nazione, 
e  a  definire  nuovi  «spazi  sacri»,  come  la  piazza  del  Campido¬ 
glio,  dove  il  poeta  vestiva  i  panni  dell’officiante  per  celebrare  i 
riti  della  patria  e  rinnovare  il  culto  degli  eroi  «nella  perenne  no¬ 
vità  del  mito»^^.  D’Annunzio  recuperò  i  miti  delle  religioni  ci¬ 
vili  del  Risorgimento  e  la  «coscienza  della  romanità»’^'*,  fonden¬ 
doli  sincreticamente  in  una  nuova  teologia  politica  celebrante  il 
dogma  della  patria,  inventando,  con  la  dovizia  della  sua  imma¬ 
ginazione  artistica,  nuovi  simboli  e  rituali  per  il  suo  culto.  Arte 
e  politica  si  fusero,  specialmente  durante  l’avventura  di  Fiume, 
per  realizzare  un  «ordine  lirico»,  un  nuovo  «regno  dello  spiri¬ 
to»,  celebrando  come  esaltazione  di  nuova  vita  il  culto  dei  ca- 


G.  D’Annunzio,  Orazione  per  la  sagra  dei  Mille.  V  maggio  MDCCCLX. 
V  maggio  MCMXV,  riportata  in  Id.,  Per  la  più  grande  Italia,  Roma  1943,  p.  19. 
Su  questo  aspetto  della  politica  dannunziana,  rimane  tuttora  fondamentale,  nel¬ 
le  linee  essenziali,  il  saggio  di  G.L.  Mosse,  The  Poet  and  thè  Exercise  of  Politi¬ 
cai  Power.  Gabriele  D’Annunzio,  in  «Yearbook  of  Comparative  and  General 
Literature»,  n.  22,  1973,  riportato  in  Id.,  L’uomo  e  le  masse  nelle  ideologie  na¬ 
zionaliste,  trad.  it.  di  P.  Negri,  Roma-Bari  1982,  pp.  97-115.  Sui  riti  dannun¬ 
ziani  nella  capitale,  nel  quadro  dell’agitazione  interventista,  si  veda  in  partico¬ 
lare  A.  Staderini,  L’interventismo  romano  1914-1915,  in  «Storia  contempora¬ 
nea»,  aprile  1991,  pp.  257-304. 

G.  D’Annunzio,  Parole  dette  in  una  cena  di  compagni,  all’alba  del  XXV 
maggio  MCMXV,  riportato  in  Id.,  Per  la  più  grande  Italia,  cit.,  p.  108. 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la  Terza  Italia 


31 


duti  in  guerra,  martiri  che  avevano  fecondato  col  loro  sangue  la 
resurrezione  della  patria^^. 

Il  culto  dei  caduti,  già  presente  nelle  tradizioni  rituali  dei  di¬ 
versi  nazionalismi,  fu  la  prima,  universale  manifestazione  liturgica 
della  sacralizzazione  della  politica  nel  XX  secolo,  e  diede  nuovo 
impulso  alla  santificazione  della  nazione.  I  cimiteri  di  guerra,  e  so¬ 
prattutto  la  diffusione  dei  monumenti  alla  memoria  dei  caduti  del¬ 
la  Grande  guerra,  restano  come  la  testimonianza  visibile  del  livel¬ 
lo  di  universalità  raggiunto  dal  culto  della  comunità  nazionale^^. 
In  Italia,  la  diffusione  del  culto  dei  caduti,  fosse  questo  manifesta¬ 
zione  di  idealità  sincera  e  di  devozione  spontanea  di  gente  che  ave¬ 
va  vissuto  e  conosciuto  la  tragedia  della  guerra  o  fosse  artificioso 
espediente  di  mistificazione  nazionalistica  per  mascherare  gli  or¬ 
rori  della  guerra  stessa,  diede  per  la  prima  volta  una  dimensione 
veramente  nazionale  all’attività  rituale  e  simbolica  dedicata  alla 
«religione  della  patria».  Gran  parte  di  questa  attività  si  concretizzò 
nell’edificazione  di  monumenti  dedicati  alla  memoria  dei  caduti. 
In  quegli  anni  questi  monumenti  sorsero  numerosi,  e  disordinata- 
mente,  in  ogni  parte  d’Italia,  per  iniziativa  di  comuni,  di  associa¬ 
zioni  patriottiche  e  combattentistiche,  di  gruppi  di  cittadini.  L’i¬ 
naugurazione  del  monumento,  nuovo  «spazio  sacro»  della  comu¬ 
nità,  fu  ovunque  occasione  per  celebrare  riti  patriottici,  con  la  ve¬ 
nerazione  dei  simboli  della  nazione  e  della  guerra,  che  coinvolge¬ 
vano,  in  modo  più  o  meno  ampio,  la  popolazione^^.  Il  momento 


”  Sugli  aspetti  mitico-liturgici  dell’esperienza  fiumana,  cfr.  N.  Valeri,  Da 
Giolitti  a  Mussolini,  MUano  1967,  pp.  32-72;  R.  De  Felice,  introduzione  a  G. 
D’Annunzio,  La  penultima  ventura.  Saitti  e  discorsi  fiumani,  a  cura  di  K.  De 
Felice,  Milano  1974,  pp.  VII-LXXVIII;  Gentile,  Le  origini  dell’ideologia  fasasta, 
cit.,  pp.  166-186;  M.A.  Ledeen,  D’Annunzio  a  Fiume,  trad.  it.  di  L.  De  Felice, 
Roma-Bari  1975.  j  ^  ■ 

76  Cfr.  Mosse,  Le  guerre  mondiali  cit.,  pp.  109-118;  Monuments  de  memoi- 

re.  Les  monuments  aux  morts  de  la  premiere  guerre  mondiale,  Paris  1991;  A. 
Becker  Les  monuments  aux  morts.  Mémoire  de  la  Grande  Guerre,  Paris,  s.d.; 
A  Borg,  WarMemorials,  London  1991,  pp.  69  sgg.;  C.  Mcintyre,  Monuments 
ofWar  London  1990;  R.  Shipley,  To  Mark  Our  Place.  A  History  of  Canadian 
War  Memorials,  Toronto  1987,  pp.  49  sgg.;  W.  Lloyd  Warner,  The  Living  and 
thè  Dead,  New  Haven  1959,  pp.  248  sgg.  j-  • 

77  II  tema  dei  monumenti  di  guerra  in  Italia  non  è  stato  ancora  studiato  in 
modo  sistematico.  Per  una  prima  informazione,  cfr.  C.  Canal,  La  retorica  della 
morte.  I  monumenti  ai  caduti  della  Grande  Guerra,  in  «Rivista  di  stona  con¬ 
temporanea»,  n.  4, 1982,  pp.  659-669;  R.  Monteleone,  P.  Sarasini,  l  monumenti 


32 


Il  culto  del  littorio 


culminante  di  questo  nuovo  culto  della  patria  furono  le  cerimonie 
per  la  scelta  della  salma  del  Milite  Ignoto,  il  trasporto  nella  capi¬ 
tale  e  la  tumulazione  nella  tomba  sotto  l’Altare  della  patria  il  4  no¬ 
vembre  1921.  La  salma,  in  un  vagone  speciale  seguito  da  dicias¬ 
sette  carri  recanti  corone  e  bandiere,  giunse  a  Roma  da  Udine,  pas¬ 
sando  da  Treviso,  Venezia,  Padova,  Ferrara,  Bologna,  Firenze,  ac¬ 
colta  ovunque  da  una  grande  folla  commossa,  mentre  ali  di  gente 
d’ogni  ceto,  lungo  il  percorso,  rendevano  omaggio  in  ginocchio  al 
passaggio  del  feretro.  Le  cerimonie  nella  capitale  furono  proba¬ 
bilmente  il  rito  patriottico  più  solenne  mai  celebrato  dalla  Terza 
Italia^^.  Fu  scritto,  forse  non  a  torto,  che  questa  era  la  prima  cele¬ 
brazione  patriottica  veramente  sentita  da  tutto  il  popolo^^.  «L’a¬ 
poteosi  del  Soldato  ignoto  è  il  ritorno  alla  religione  della  patria», 
affermò  «L  Illustrazione  italiana»^®.  Il  10  novembre  rese  omaggio 
alla  tomba  del  Milite  Ignoto  un  grande  corteo  di  fascisti,  per  cele¬ 
brare  la  conclusione  del  loro  congresso  che  aveva  sancito  la  tra¬ 
sformazione  del  movimento  di  massa  in  partito.  I  fascisti  si  consi¬ 
deravano  i  principali  artefici  del  ritorno  della  nazione  aUa  «reli¬ 
gione  della  patria». 

Nonostante  le  polemiche  sul  valore  artistico  di  molti  monu¬ 
menti,  giudicato  generalmente  molto  modesto,  e  le  polemiche  sul 
loro  significato  simbolico  fra  chi  voleva  esaltare  la  virilità  dell’e¬ 
roismo  e  chi  voleva  memorare  la  tragedia  della  guerra  e  la  pietà 
del  sacrificio,  essi  ebbero  parte  notevole  nel  preparare  la  base  per 
l’istituzione  ufficiale  di  una  liturgia  nazionale  attorno  al  mito  del¬ 
la  Grande  guerra  e  alla  «resurrezione»  della  patria. 

Un  nuovo  altare  era  stato  innalzato  per  celebrare  il  culto  del¬ 
la  nazione.  Il  fascismo  se  ne  appropriò  per  collocarvi,  in  nome 
della  patria,  gli  idoli  della  sua  religione. 


italiani  ai  caduti  della  grande  guerra,  in  D.  Leoni,  C.  Zadra  (a  cura  di)  La  Gran¬ 
de  guerra,  Bologna  1986,  pp.  631-670;  C.  Cresti,  Architettura  e  fascismo  Fi¬ 
renze  1986,  pp.  41-72. 

Cfr.  O.  Cavara,  Il  Milite  Ignoto,  Milano  1923. 

«Nessuna  festa  patriottica,  dallo  Statuto  al  20  Settembre,  è  mai  divenu¬ 
ta  popolare  in  Italia.  Bisognava  aspettare  al  trasporto  del  Milite  Ignoto  per  ve- 
dere  veramente  un  rito  patriottico  divenuto  sentimento  religioso  di  popolo». 
G.  Prezzolini,  Vecchia  e  nuova  democrazia:  Rifarsi  da  capo,  in  «Il  Mondo»  14 
novembre  1922. 

Nobiluomo  Vidal,  Il  Soldato  Ignoto,  in  «L’Illustrazione  italiana»,  6  no¬ 
vembre  1921. 


Fig.  1.  Il  passaggio  della  salma  del  Milite  Ignoto  («L  Illustrazione  ita¬ 
liana»,  6  novembre  1921). 


I 


LA  «SANTA  MILIZIA» 


) 


Il  Milite  fascista  deve  servire  l’Italia  in  purità 
con  lo  spirito  pervaso  da  un  profondo  mistici¬ 
smo,  sorretto  da  una  fede  incrollabile,  domi¬ 
nato  da  una  volontà  inflessibile,  spre2zante 
della  opportunità  e  della  prudenza,  come  del¬ 
la  viltà,  deciso  al  sacrificio  come  al  fine  della 
sua  fede,  convinto  del  peso  di  un  terribile  apo¬ 
stolato  per  salvare  la  grande  madre  comune  e 
donarle  forza  e  purità.  [...]  Comandante  o  gre¬ 
gario  deve  ubbidire  in  umiltà  e  comandare  in 
forza.  L’ubbidienza  per  questa  milizia  volon¬ 
taria  deve  essere  cieca,  assoluta,  rispettosa  fino 
al  culmine  delle  gerarchie,  al  Capo  Supremo 
ed  alla  Direzione  del  Partito.  Il  Milite  fascista 
ha  una  sua  morale.  La  morale  comune,  quella 
dal  volto  famigliare,  dal  volto  politico,  dal  vol¬ 
to  sociale,  prismatica,  sfaccettata  a  larghe  ma¬ 
glie,  non  ser\^e  al  Milite  fascista.  L’onore  è  per 
lui,  come  per  i  cavalieri  antichi,  una  legge  che 
tende,  senza  mai  raggiungerla,  al  culmine  del¬ 
la  perfezione  senza  limiti  anche  se  cada  nel¬ 
l’errore  dell’eccesso,  prepotente,  severa,  di 
giustizia  assoluta,  anche  al  di  fuori,  sempre  al 
di  sopra  della  legge  scritta  e  formale.  L’onore 
assoluto  è  legge  di  disciplina  per  la  milizia  e 
viene  tutelato  oltre  che  dagli  organi  politici  dai 
capi  delle  gerarchie.  La  milizia  fascista  repelle 
gh  impuri,  gli  indegni,  i  traditori. 

Regolamento  della  milizia  fascista 
(3  ottobre  1922) 


Quando  sorse  il  movimento  fascista,  vi  era  un  atteggiamento 
favorevole  ad  accogliere  e  sostenere  una  religione  nazionale,  spe¬ 
cialmente  fra  i  reduci  che  avevano  sacralizzato  l’esperienza  della 
guerra,  fra  gli  intellettuali  in  cerca  di  fede,  fra  i  giovani  assetati 
di  miti  e  smaniosi  di  dedizione  e  di  azione,  fra  la  borghesia  pa¬ 
triottica,  che  si  considerava  naturale  custode  dei  valori  della  tra¬ 
dizione  risorgimentale.  Gli  elementi  originari  per  la  formazione 
della  religione  fascista  affiorano  già  agli  inizi  del  movimento, 
quando  era  composto  solo  da  un  piccolo  gruppo  di  reduci  e  di 
giovanissimi,  accomunati  dal  richiamo  ai  miti  dell’interventismo, 
della  guerra  e  della  «rivoluzione  italiana»*. 


Le  origini  del  culto  fascista 

Per  chiarire  il  carattere  di  religione  del  fascism.o,  quale  emer¬ 
ge  già  nella  sua  prima  fase  di  formazione,  riteniamo  utile  riferir¬ 
ci,  condividendone  la  validità,  al  modello  di  nuova  religione  lai¬ 
ca  proposto  da  Albert  Mathiez  per  definire  il  carattere  religioso 
dei  culti  della  rivoluzione  francese.  Ogni  religione,  secondo  la  de¬ 
finizione  di  Emile  Durkheim^,  è  un  fenomeno  sociale  che  ha  ori¬ 
gine  da  uno  stato  d’entusiasmo  collettivo  e  si  basa  su  un  sistema 
di  credenze  obbligatorie  e  di  pratiche  esteriori,  anch’esse  obbli¬ 
gatorie,  relative  al  loro  culto,  tali  da  conferire  carattere  sacro  ai 
simboli  che  rappresentano  l’oggetto  delle  credenze.  A  queste  ca¬ 
ratteristiche,  Mathiez  ne  ha  aggiunto  altre: 


‘  Per  una  più  analitica  trattazione  del  tema  di  questo  capitolo,  rinviamo  a 
E.  Gentile,  Storia  del  partito  fascista.  1919-1922.  Movimento  e  milizia,  Roma- 
Bari  1989,  capitolo  VII. 

^  A.  Mathiez  si  riferiva  a  E.  Durkheim,  De  la  définition  des  phénomènes  re- 
ligieux,  in  «Année  sociologique»,  tomo  II,  Paris  1899;  cfr.  Id.,  Les  formes  élé- 
mentaires  de  la  vie  religieuse,  Paris  1985. 


38 


Il  culto  del  littorio 


Il  fenomeno  religioso  s’accompagna  sempre,  nel  periodo  di  for¬ 
mazione,  con  uno  stato  di  sovraeccitazione  e  una  viva  brama  di  feli¬ 
cità.  Quasi  immediatamente,  inoltre,  le  credenze  religiose  si  concre¬ 
tizzano  in  oggetti  materiali,  in  simboli,  che  sono  segni  di  raccolta  per 
i  credenti  e  come  talismani,  in  cui  essi  pongono  le  loro  speranze  più 
intime;  e,  in  quanto  tali,  perciò,  essi  non  tollerano  che  siano  disprez¬ 
zati  e  ignorati.  Più  spesso  ancora,  i  credenti,  e  soprattutto  i  neofiti, 
sono  animati  da  una  rabbia  distruttiva  contro  i  simboli  degli  altri  cul¬ 
ti.  E  molto  spesso  infine,  quando  possono,  essi  colpiscono  di  inter¬ 
detto  tutti  quelli  che  non  condividono  la  loro  fede,  che  non  adorano 
i  loro  simboli  e,  per  questo  solo  delitto,  li  colpiscono  con  punizioni 
particolari,  li  bandiscono  dalla  comunità  di  cui  fanno  parte.^ 

L’origine  della  religione  fascista  si  inquadra  correttamente  nel 
modello  interpretativo  dello  storico  francese.  Il  fascismo  ebbe 
origine  da  quello  «stato  di  effervescenza  collettiva»  prodotto  dal¬ 
la  guerra,  che  già  alla  fine  della  guerra  aveva  dato  vita  a  vari  mo¬ 
vimenti,  di  durata  più  o  meno  effimera  come  il  combattentismo, 
l’arditismo,  il  futurismo  politico,  il  fiumanesimo,  che  scesero  in 
campo  per  affermare  i  diritti  della  vittoria  e  proseguire  la  «rivo¬ 
luzione  italiana»,  combattendo  contro  i  «nemici  interni»  e  la  vec¬ 
chia  classe  dirigente,  per  realizzare  l’unità  morale  e  spirituale  del¬ 
la  nuova  Italia.  Come  accade  nello  stadio  iniziale  dei  nuovi  mo¬ 
vimenti  religiosi,  il  legame  che  unì  i  primi  fascisti  fu  una  comu¬ 
ne  esperienza  di  fede  -  l’interventismo  e  la  guerra  -  vissuta  in  uno 
stato  d’animo  di  esaltazione  e  di  vitalismo  che  i  fascisti  traduce¬ 
vano  in  un  senso  di  missione  rigeneratrice  della  nazione,  per  la 
difesa  e  l’affermazione  delle  loro  idealità  patriottiche,  assolutiz- 
zate  e  sacralizzate.  Il  fascismo,  scriverà  Bottai  nel  1932,  «non  era. 


^  A.  Mathiez,  Les  origines  des  cultes  révolutionnaires  1739-1792  (1904), 
Genève  1977,  pp.  11-12.  E  Mathiez  proseguiva;  «Ora,  se  io  dimostro  che  i  ri¬ 
voluzionari,  che  i  ‘patrioti’,  come  amavano  appellarsi,  malgrado  le  loro  diver¬ 
genze,  avevano  un  fondo  di  credenze  comuni;  che  simbolizzavano  le  loro  cre¬ 
denze  in  segni  di  adesione,  verso  i  quali  professavano  una  vera  devozione,  che 
celebravano  cerimonie  comuni,  dove  amavano  ritrovarsi  per  manifestare  in  co¬ 
mune  una  fede  comune;  che  volevano  imporre  le  loro  credenze  e  i  loro  simboli 
a  tutti  gli  altri  Francesi;  che  erano  animati  da  un  furore  fanatico  contro  tutto 
ciò  che  rappresentava  le  credenze,  i  simboli,  le  istituzioni  che  volevano  di¬ 
struggere  e  sostituire,  se  dimostro  tutto  ciò,  non  avrei  forse  il  diritto  di  trarre 
la  conclusione,  che  è  esistita  una  religione  rivoluzionaria,  analoga,  nella  sua  es¬ 
senza,  a  tutte  le  altre  religioni?». 


I.  La  «santa  milizia» 


39 


per  me  e  per  i  miei  compagni  d’arme,  che  un  modo  di  seguitare 
la  guerra,  di  tradurne  i  valori  in  una  religione  civile»"^.  L’adesio¬ 
ne  ai  Fasci  era  vissuta  come  un  atto  di  consacrazione  della  pro¬ 
pria  vita  alla  patria:  «In  un  momento  di  agitazioni  sublimi  con¬ 
sacrai  la  mia  gioventù  e  il  mio  avvenire  al  bene,  alla  grandezza 
della  patria  -  scriveva  un  giovane  agli  inizi  del  1920  al  segretario 
dei  Fasci  per  chiedere  l’iscrizione  -.  La  gioventù  dell’Italia  nuo¬ 
va  raccoglie  il  brando  della  giustizia  e  dell’eguaglianza  so¬ 
ciale  (vera  eguaglianza,  non  quella  predicata  dai  pussisti)  [...]  Col 
sangue  dei  ribelli  socialisti  saprà  spegnere  gli  incendi  che  minac¬ 
ciano  di  accendere  nei  nostri  giardini  ridenti  e  fioriti»^. 

Attraverso  l’esperienza  politica  dei  suoi  militanti,  provenien¬ 
ti  dai  più  vari  movimenti,  ma  accomunati  dal  culto  della  nazione 
e  dal  mito  della  guerra,  confluirono  nella  formazione  della  mito¬ 
logia  fascista,  e  vi  si  insediarono  stabilmente,  i  miti  principali  del¬ 
la  cultura  politica  italiana  emersi  durante  la  lunga  ricerca  di  una 
religione  civile  per  la  «nuova  Italia»,  dagli  albori  del  Risorgi¬ 
mento  fino  alla  Grande  guerra.  In  tal  modo,  il  fascismo  si  pre¬ 
sentò  come  l’erede  e  il  continuatore  del  radicalismo  nazionale,  il 
protagonista  della  lotta  per  l’interventismo,  l’interprete  dei  com¬ 
battenti,  il  difensore  della  vittoria  e  l’avanguardia  della  «nuova 
Italia»  nata  dalle  trincee.  «Rivoluzione  italiana»,  per  il  fascismo 
significava  non  sovvertimento  sociale  e  abbattimento  dei  pilastri 
fondamentali  della  società  borghese,  che  esso  dichiarava  di  voler 
proteggere  e  consolidare  contro  il  socialcomunismo,  ma  signifi¬ 
cava  riconsacrare  il  culto  della  nazione  e  rigenerare  il  popolo  per 
trasformarlo  in  una  comunità  unita  e  forte,  capace  di  affrontare 
la  sfida  del  mondo  moderno,  conquistare  un  nuovo  primato,  svol¬ 
gere  una  missione  di  civiltà  per  rinnovare  nei  tempi  moderni  lo 
spirito  e  la  grandezza  della  romanità: 

Noi  lavoriamo  alacremente  -  scriveva  Mussolini  alla  fine  del  1920 
-  per  tradurre  nei  fatti  quella  che  fu  l’aspirazione  di  Giuseppe  Maz¬ 
zini:  dare  agli  italiani  il  «concetto  religioso  della  nazione»  [...]  Getta¬ 
re  le  basi  della  grandezza  italiana  nel  mondo,  partendo  dal  concetto 

■*  G.  Bottai,  L'incontro  di  due  generazioni,  in  «Critica  fascista»,  15  dicem¬ 
bre  1932. 

’  ACS,  MRF,  b.  38,  lettera  di  S.W.  Ray  al  segretario  dei  Fasci  di  combat¬ 
timento,  Salerno,  17  febbraio  1920. 


40 


Il  culto  del  littorio 


religioso  dell’italianità  [...]  deve  diventare  l’impulso  e  la  direttiva  es¬ 
senziale  della  nostra  vita.^ 

Da  questo  nucleo  originario  si  sviluppò  la  religione  fascista 
che,  nei  caratteri  fondamentali,  codificò  questi  miti  unificandoli 
sincreticamente  in  un  insieme  coerente  di  credenze,  in  una  reli¬ 
gione  laica  incentrata  sulla  sacralità  della  nazione.  Inizialmente  il 
fascismo  non  si  differenziò  sostanzialmente  dalle  precedenti  ma¬ 
nifestazioni  della  religione  nazionale,  ma,  sviluppandosi  come 
movimento  di  massa,  elaborò  di  questa  una  nuova  versione,  in 
cui  divennero  determinanti  i  miti  che  sorsero  daU’esperienza  del 
fascismo  stesso  come  milizia  armata.  Proprio  per  la  sua  natura  di 
partito-milizia,  il  fascismo  costituiva  una  novità  nella  ricerca  del¬ 
la  religione  nazionale:  per  la  prima  volta  questa  religione  diviene 
il  credo  di  un  movimento  di  massa,  deciso  ad  imporre  il  culto  del¬ 
la  sua  religione  a  tutti  gli  italiani,  a  non  tollerare  l’esistenza  di  cul¬ 
ti  antagonisti,  a  trattare  gli  avversari,  che  non  erano  disposti  a 
convertirsi,  come  reprobi  e  dannati,  che  dovevano  esser  perse¬ 
guitati,  puniti  e  messi  al  bando  dalla  comunità  della  nazione. 

Fin  dalle  prime  manifestazioni  il  fascismo  affiancò  alla  sacra¬ 
lizzazione  dell’idea  di  nazione  un  largo  uso  di  riti  e  simboli.  Que¬ 
st’uso  non  era  certo  ignorato  dagli  altri  movimenti  politici,  dai  re- 
pubblicani  ai  socialisti,  dai  nazionalisti  ai  popolari,  ma  nessuno  di 
essi  aveva  dato  alla  liturgia  politica  uno  sviluppo  metodico,  una  di¬ 
mensione  di  massa,  ed  anche  una  presenza  ed  una  estensione  ter¬ 
ritoriale  così  ampia  come  fece  il  fascismo.  A  differenza  degli  altri 
partiti,  inoltre,  i  fascisti  assegnarono  al  simbolismo  politico  una 
funzione  predominante  nell’azione  e  nell’organizzazione,  attri¬ 
buendogli,  nel  linguaggio  e  nei  gesti,  espressione  e  significato 
esplicitamente  religiosi.  Anche  nell’elaborazione  della  sua  liturgia, 
come  per  la  mitologia,  il  fascismo  si  comportò  come  una  religione 
sincretica,  assimilando  i  materiali  che  riteneva  utili  per  sviluppare 
il  proprio  corredo  di  riti  e  simboli,  incorporando  disinvoltamente 
tradizioni  rituali  di  altri  movimenti  e  integrandole  con  i  propri  ri¬ 
ti.  I  fascisti  non  si  preoccupavano  della  originalità  dei  riti  e  dei  sim¬ 
boli,  ma  guardavano  all’efficacia  di  questi  per  l’azione,  per  rap¬ 


^  Mussolini,  «Il  Popolo  d’Italia»  nel  1921,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  8  dicem¬ 
bre  1920. 


1.  La  «santa  milizia> 


41 


presentare  i  loro  miti  e  rafforzare  il  senso  di  identità  del  movi¬ 
mento,  come  validi  strumenti  di  lotta  contro  i  «nemici  della  na¬ 
zione»,  e  anche  come  forme  di  propaganda  per  impressionare  gli 
spettatori  e  conquistare  proseliti.  Gran  parte  dei  riti  e  dei  simboli, 
negli  anni  dello  squadrismo,  sorse  sia  per  invenzione  che  per  imi¬ 
tazione,  ma  in  modo  piuttosto  spontaneo,  nel  senso  che  la  loro 
adozione  e  diffusione  non  era  predisposta,  ordinata  e  diretta  dal 
centro  del  movimento,  ma  nasceva  da  iniziative  di  singoli  e  di 
gruppi,  trasferendosi  poi  per  imitazione  agli  altri  gruppi  diven¬ 
tando  così  patrimonio  comune  del  composito  ed  eterogeneo  ag¬ 
gregato  fascista.  Fra  il  1921  e  il  1922  sono  già  diffusi  i  riti  fonda- 
mentali  che  contraddistinguono  il  particolare  stile  di  vita  del  par¬ 
tito-milizia:  il  saluto  romano,  il  giuramento  delle  squadre,  la  vene¬ 
razione  dei  simboli  della  nazione  e  della  guerra,  la  benedizione  dei 
gagliardetti,  il  culto  della  patria  e  dei  caduti,  la  glorificazione  dei 
«martiri  fascisti»,  le  cerimonie  di  massa. 


I  crociati  della  nazione 

Dal  principio,  i  fascisti  vissero  e  rappresentarono  la  loro  azio¬ 
ne  attraverso  metafore  religiose.  La  religione  fascista  si  delinea  at¬ 
traverso  una  retorica  sacralizzante  e  una  liturgia  che  ripeteva  nel 
linguaggio  e  nei  modi  il  rituale  cristiano,  mutuandolo  anche  attra¬ 
verso  la  utilizzazione  dannunziana,  con  una  spiccata  propensione 
dei  fascisti  a  trasfigurare  subito  in  termini  epico- religiosi  le  vicen¬ 
de  della  loro  politica,  sentendosi  emuli  ed  eredi  dell’eroismo  dei 
primi  patrioti  del  Risorgimento:  «Il  fascismo  -  scriveva  nel  suo  dia¬ 
rio  CamiUo  Pellizzi  nel  1921  -  è  un’aperta  Carboneria  del  sacrifi¬ 
cio»^.  I  fascisti  si  considerarono  i  profeti,  gli  apostoli  e  i  militi  del¬ 
la  nuova  «religione  della  patria»  sorta  dair«immenso  rogo  della 
guerra»*,  consacrata  dal  sangue  degli  eroi  e  dei  martiri  immolatisi 
per  portare  a  compimento  la  «rivoluzione  italiana»: 

Siamo  dei  superatori  -  affermava  nel  1921  l’organo  dei  Fasci  di 
combattimento  -  [...]  i  depositari  d’una  generazione  che  da  tanto  tem- 


^  Archivio  Pellizzi,  Diario,  quaderno  XXI,  1921. 

”  G.  De  Michelis,  Le  nostre  idee,  in  «Il  Fascio»,  14  maggio  1921. 


42 


Il  culto  del  littorio 


po  ha  varcato  la  sua  realtà  storica  e  marcia  ineluttabilmente  aU’aweni- 
re  [...]  Siamo  perfezione  della  perfezione  [...]  La  santa  eucarestia  della 
guerra  ci  aveva  plasmati  sullo  stesso  metallo  di  generose  immolazioni.^ 

Il  sangue  dei  caduti  aveva  rinnovato  la  sacralità  della  nazione, 
e  di  questa  sacralità  i  fascisti  si  elessero  a  difensori  contro  i  «nemi¬ 
ci  interni»,  prima  di  tutto  socialisti  e  comunisti,  i  dissacratori  del¬ 
la  nazione  che  pervertivano  le  masse  predicando  il  disprezzo  ma¬ 
terialistico  dei  valori  dello  spirito,  e  poi  anche  contro  i  cattolici 
neutralisti  e  i  militanti  del  Partito  popolare,  fino  ad  includere  fra  i 
«nemici  della  nazione»  i  repubblicani,  che  pure  erano  da  oltre 
mezzo  secolo  ferventi  cultori  della  «religione  della  patria».  Ma  i  fa¬ 
scisti  erano  anche  in  guerra  contro  i  governanti  e  la  borghesia  li¬ 
berale  perché  avevano  assistito  impotenti  e  pavidi  allo  scempio  dei 
simboli  della  patria  e  alla  denigrazione  della  guerra  e  della  vittoria. 

Nei  primi  tempi,  quando  erano  una  sparuta  minoranza  di 
fronte  alle  grandi  organizzazioni  socialiste,  i  fascisti  si  paragona¬ 
rono  ai  «missionari  del  cristianesimo,  dispersi  in  inesplorate  re¬ 
gioni  fra  selvagge  tribù  idolatre»^®,  armati  di  coraggio  per  diffon¬ 
dere,  con  fanatica  determinazione,  la  verità  di  cui  si  ritenevano 
depositari,  pronti  per  essa  a  sfidare  la  morte:  «La  verità  è  una  so¬ 
la.  Chi  crede  di  possederla  deve  difenderla  con  la  vita»”.  E  i  fa¬ 
scisti  attuarono  l’opera  di  propaganda  della  fede  con  la  pratica 
della  violenza,  mitizzata  e  sublimata  come  manifestazione  di  vi¬ 
rilità  e  di  coraggio,  strumento  necessario  per  liberare  la  nazione 
dai  suoi  dissacratori.  L’offensiva  armata  dello  squadrismo  contro 
il  proletariato,  per  i  fascisti,  era  una  santa  crociata  dei  veri  cre¬ 
denti  per  annientare  i  profanatori  della  patria,  redimere  il  prole¬ 
tariato  dalla  idolatria  dei  falsi  dèi  dell’internazionalismo,  ricon¬ 
sacrare  i  simboli  e  i  luoghi  santi  della  nazione,  riportando  la  pa¬ 
tria  sugli  altari  della  devozione  civile.  I  fascisti  si  atteggiavano  an- 

^  G.  Leonardi,  Siamo  i  superatoti,  in  «Il  Fascio»,  2  aprile  1921. 

R.  Forti,  G.  Ghedini,  L’avvento  del  fascismo.  Cronache  ferraresi,  Ferrara 
1923,  p.  90. 

“  I.  Balbo,  Diario  1922,  Milano  1932,  p.  19.  Mancano  analisi  rilevanti  a  li¬ 
vello  locale  della  genesi  e  dello  sviluppo  del  simbolismo  squadrista.  L’unica  ec¬ 
cezione  degna  di  nota  è  lo  studio,  per  alcuni  aspetti  esemplare,  anche  se  non 
sempre  persuasivo  in  talune  valutazioni  storiografiche,  di  M.  Fincardi,  I  riti  del¬ 
la  conquista,  in  «Contributi»,  nn.  21-22,  1987,  pp.  1-127. 


1.  La  «santa  milma> 


43 


che  a  difensori  della  religione  tradizionale  di  fronte  ai  suoi  nega¬ 
tori,  oltre  ad  ergersi  a  paladini  dei  diritti  della  proprietà  e  della 
libertà  del  lavoro  violati  dalle  organizzazioni  del  proletariato. 

Le  spedizioni  squadriste,  al  di  là  degli  obiettivi  di  aggressione  e 
distruzione,  ebbero  sempre  anche  carattere  simbolico.  Le  prime  ge¬ 
sta  erano  spedizioni  di  sfida  compiute  da  piccoli  gruppi  di  fascisti 
nelle  zone  dominate  dagli  avversari,  per  dar  prova  di  audacia  e  di 
coraggio  a  testimonianza  della  loro  fede  e  volontà  di  sacrificio.  L’of¬ 
fensiva  squadrista  proseguì  quindi  come  guerra  dei  simboli  per  im¬ 
porre  agh  avversari  la  venerazione  della  bandiera  e  la  celebrazione 
del  culto  della  patria.  Si  formò  così  l’immagine  del  fascismo  audace 
difensore  e  restauratore  della  «religione  della  patria».  In  seguito, 
cresciuti  di  numero,  di  organizzazione  e  di  forza,  gli  squadristi  pun¬ 
tarono  con  le  spedizioni  di  conquista  alla  distruzione  delle  sedi  degli 
avversari  e  alla  «liberazione»  dei  comuni  e  delle  città  da  questi  am¬ 
ministrati,  che  passavano  però  subito  sotto  dominio  fascista. 

Il  manganello  e  il  fuoco  furono  i  simboli  terroristici  della  vio¬ 
lenza  purificatrice  dello  squadrismo.  Il  manganello  era  come  un 
talismano  cui  veniva  dedicato  anche  una  sorta  di  goliardico  cul¬ 
to.  Gli  squadristi  cantavano  un  inno  al  «San  Manganello»  esal¬ 
tandolo  come  amuleto  protettore  delle  squadre,  giustiziere  dei 
nemici  e  liberatore  del  sacro  suolo  della  patria: 

O  tu  santo  Manganello  /  tu  patrono  saggio  e  austero,  /  più  che 
bomba  e  che  coltello  /  coi  nemici  sei  severo; 

Di  nodosa  quercia  figlio  /  ver  miracolo  opri  ognor,  /  se  nell’ora 
del  periglio  /  batti  i  vili  e  gl’impostor. 

Manganello,  Manganello,  /  che  rischiari  ogni  cervello,  /  sempre 
tu,  sarai  sol  quello  /  che  d  fascista  adorerà.  [...] 

Tu  dal  Brennero  al  Snello,  /  dal  Quarnaro  al  Ticino,  /  taumatur¬ 
go  Manganello  /  più  di  Dante  sei  divino,  [...] 

Dove  è  nato  Garibaldi,  /  dove  è  morto  Corridoni,  /  disertori  né 
ribaldi  /  non  saranno  mai  padroni; 

Cinquecentomila  morti  /  ben  c’impongono  il  dovere,  /  di  non  tol¬ 
lerare  i  torti  /  che  alla  Patria  fa  un  stranier. 

Manganello,  Manganello  /  che  rischiari  ogni  cervello,  /  ogni  eroe 
dal  suo  avello  /  l’opra  tua  benedirà.” 


A.  Gravelli,  I  canti  della  rivoluzione,  Roma  1928,  pjp.  84-86. 


44 


Il  culto  del  littorio 


Il  fuoco  era  il  simbolo  della  for2a  distruttrice  e  purificatrice 
della  violenza  squadrista.  Ogni  spedizione  si  concludeva  con  il 
rogo  pubblico  dei  simboli  e  dei  luoghi  di  culto  dei  nemici:  mo¬ 
bili,  giornali,  ritratti  di  Marx  e  di  Lenin  venivano  accatastati  e  ar¬ 
si  nelle  piazze.  Balbo  ha  descritto  nel  suo  diario  la  «colonna  di 
fuoco»  che  accompagnò  una  spedizione  squadrista  «distruggen¬ 
do  e  incendiando  tutte  le  case  rosse,  sedi  di  organizzazioni  so¬ 
cialiste  e  comuniste.  È  stata  una  notte  terribile.  Il  nostro  passag¬ 
gio  era  segnato  da  alte  colonne  di  fuoco  e  fumo»^^. 

Compiuta  la  distruzione  e  la  purificazione,  seguiva  la  ricon¬ 
sacrazione  della  popolazione  e  del  luogo  al  culto  della  patria  con 
una  cerimonia  di  esposizione  e  venerazione  della  bandiera  na¬ 
zionale,  un  pellegrinaggio  al  monumento  o  un  rito  fascista  di  con¬ 
segna  del  gagliardetto,  il  vessillo  delle  squadre.  Dopo  la  conqui¬ 
sta  di  una  nuova  zona,  la  cerimonia  di  benedizione  del  gagliar¬ 
detto  fu  spesso  presentata  come  rito  simbolico  della  redenzione 
della  popolazione  ricondotta  alla  fede  nazionale.  Con  questo  ri¬ 
to,  scrisse  nel  1921  l’organo  del  movimento,  il  popolo  «ritrova  la 
sua  coscienza,  si  rimette  sulla  via  segnata  dalla  sua  storia,  e  dai 
fati  di  un  passato  eterno»^"^.  Chi  non  si  univa  alla  celebrazione 
del  culto  della  patria,  mostrava  disprezzo  o  indifferenza  per  i  suoi 
simboli  o  non  salutava  i  nuovi  vessilli  della  «santa  milizia»  era 
punito  con  ogni  sorta  di  angherie  umilianti  e  di  violenze.  Dove 
dominavano  i  fascisti,  i  nemici  che  non  si  piegavano  erano  col¬ 
piti  da  interdetto  e  messi  al  bando  dalla  città. 


I  riti  della  comunione  squadrista 

Il  «senso  rehgioso»  del  fascismo  si  sviluppò  soprattutto  al¬ 
l’interno  dell’organizzazione  squadrista.  Per  i  fascisti,  la  squadra 
non  era  soltanto  un’organizzazione  armata,  ma  un  gruppo  lega¬ 
to  dalla  fede  comune,  da  vincoli  di  cameratismo,  da  un  senso  di 
comunione.  L’esaltazione  di  questa  comunione  era  il  motivo  do¬ 
minante  di  tutti  i  primi  riti  della  liturgia  fascista.  La  partecipa- 


Balbo,  Diario  1922,  cit.,  p.  109. 
«Il  Fascio»,  16  aprile  1921. 


1.  La  «santa  milizia> 


45 


zione  ad  una  spedizione  delle  squadre,  per  un  nuovo  aderente, 
era  un  rito  di  iniziazione  in  cui  egli  doveva  dar  prova  di  pos¬ 
sedere  le  qualità  dello  squadrista.  L’adesione  era  sancita  da  un 
giuramento  che  rappresentava  un  atto  di  dedizione  totale  e  la 
consacrazione  della  fedeltà  ai  vincoli  comunitari.  Il  rito  del  giu¬ 
ramento,  già  in  uso  nella  Fiume  dannunziana,  fu  uno  dei  pri¬ 
mi  atti  della  liturgia  fascista,  celebrato  con  una  cerimonia  so¬ 
lenne  e  marziale.  Il  rito  si  svolgeva  alla  presenza  delle  squadre, 
schierate  in  quadrato  con  i  loro  gagliardetti,  e  del  pubblico,  in 
piazze  addobbate  con  bandiere  e  simboli  del  fascismo.  In  al¬ 
cune  occasioni,  alla  cerimonia  era  presente  anche  Mussolini,  ma 
non  ancora  inserito,  come  oggetto  di  culto  personale,  nel  ri¬ 
tuale  fascista.  La  formula  del  giuramento,  che  non  era  ancora 
unica  per  tutti  gli  squadristi,  veniva  letta  dal  comandante  del¬ 
le  squadre  o  da  un  ufficiale,  ed  era  una  dichiarazione  di  dedi¬ 
zione  alla  patria: 

Giuro  sulla  mia  fede  di  italiano  di  eseguire  quanto  mi  verrà  dai 
miei  compagni  ordinato,  anche  se  questi  ordini  per  il  bene  d’Italia  do¬ 
vessero  espormi  alle  più  gravi  responsabilità  ed  ai  più  gravi  sacrifici; 
giuro  di  mantenere  il  più  assoluto  segreto  sugli  ordini  che  mi  verran¬ 
no  impartiti  e  su  qualsiasi  disposizione  che  venisse  a  mia  conoscenza; 
giuro  di  essere  in  ogni  tempo  ed  in  ogni  luogo  pronto  a  difendere  la 
nostra  santa  causa  che  è  la  causa  d’Italia.*^ 

La  formula  ufficiale  adottata  dalla  milizia  fascista  alla  vigilia 
della  marcia  su  Roma  era  più  concisa:  «Nel  nome  di  Dio  e  del¬ 
l’Italia,  nel  nome  di  tutti  i  caduti  per  la  grandezza  d’Italia,  giuro 
di  consacrarmi  tutto  e  per  sempre  al  bene  d’Italia»^^.  Spesso  al¬ 
la  cerimonia  del  giuramento  si  accompagnavano  il  rito  della  be¬ 
nedizione  e  la  consegna  dei  gagliardetti.  Questo  vessillo  fu  sem¬ 
pre  oggetto  di  speciale  venerazione,  anche  negli  anni  del  regime, 
perché  era  il  principale  simbolo  della  fede  e  dei  vincoli  della  co¬ 
munione  squadrista,  dell’unità  morale  dei  suoi  vivi  e  dei  suoi  mor¬ 
ti.  «Un  vessillo  è  sempre  simbolo  di  fede  e  soprattutto  di  sacro 

La  magnifica  affermazione  della  Lomellina  fascista  a  Mortara,  in  «Il  Po¬ 
polo  d’Italia»,  io  maggio  1921. 

Regolamento  di  disciplina  per  la  milizia  fascista,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  3 
ottobre  1922. 


46 


Il  culto  del  littorio 


dovere  -  scriveva  Aldo  Pinzi  ai  fascisti  di  Rovigo  dopo  essere  en¬ 
trato  a  far  parte  del  governo  Mussolini  Quando  io  lo  consa¬ 
crai  col  mio  indomato  ardore  presentivo  religiosamente  che  la 
missione  di  riconoscenza  italiana  che  si  compendiava  in  quel  sim¬ 
bolo  sarebbe  stata  da  voi  tutti  asceticamente  seguita»^"^.  La  be¬ 
nedizione  del  gagliardetto  era  generalmente  officiata  da  un  sa¬ 
cerdote,  ma  erano  frequenti  i  casi  in  cui  il  rito  si  svolgeva  senza 
la  presenza  di  un  religioso,  e  l’officiante  era  il  capo  squadrista. 
Molto  spesso  il  rito  del  giuramento  e  la  benedizione  delle  inse¬ 
gne  avvenivano  durante  le  cerimonie  funebri  in  onore  dei  «mar¬ 
tiri  fascisti». 

La  morte  era  un’immagine  dominante  già  nello  stadio  di  for¬ 
mazione  dell’universo  simbolico  del  fascismo.  Ciò  però  non  era 
sintomo  di  una  predilezione  per  una  visione  decadente  e  nichili¬ 
stica  della  vita,  né  esprimeva  una  compiaciuta  voluttà  di  pessi¬ 
mismo  votato  alla  dissoluzione.  Al  contrario,  l’evocazione  conti¬ 
nua  della  morte  era  intesa  come  atto  di  sfida  di  un  «ottimismo 
tragico  e  attivo»^*,  che  in  questo  modo  voleva  affermare  la  pro¬ 
pria  fede  nella  vita  e  nell’immortalità.  L’atteggiamento  verso  la 
morte  era,  per  il  fascismo,  la  più  valida  testimonianza  della  sua 
religiosità,  come  affermava  un  opuscolo  su  Fascismo  e  religione, 
edito  dalla  casa  editrice  del  PNF  nel  1923: 

Religione  è  senso  del  mistero  manifestato  in  determinate  forme.  È 
religione  l’opera  umana  a  cui  è  imposta  una  concezione  morale.  I  dog¬ 
mi  che  possono  ridursi  anche  ad  una  sola  verità  fondamentale,  e  i  ri¬ 
ti  che  possono  essere  un  solo  grande  rito,  sono  l’espressione  essen¬ 
ziale  della  religione. 

Ora  un  popolo,  o  meglio  una  milizia  che  affronta  la  morte  per  un 
comandamento,  che  accetta  la  vita  nel  suo  purissimo  concetto  di  mis¬ 
sione  e  l’offre  in  sacrificio,  ha  veramente  quel  senso  del  mistero  che 
è  il  motivo  fondamentale  della  religione  ed  afferma  verità  che  non  di¬ 
scendono  da  umani  ragionamenti,  ma  sono  dogmi  di  una  fede. 

Così  sono  riti  di  religione  i  silenzi  raccolti  di  «camicie  nere»  in¬ 
torno  a  fratelli  che  hanno  abbandonato  il  combattimento  terreno,  e 
sono  riti  di  una  religione  le  pubbliche  preghiere  che  i  fascisti  com¬ 
piono  unitamente  ai  sacerdoti  di  una  chiesa,  quando  circostanze  di 


ACS,  Ufficio  Cifra,  telegrammi  in  partenza,  10  novembre  1922. 
C.  Pellizzi,  Problemi  e  realtà  del  fascismo,  Firenze  1924,  p.  165. 


I.  La  «santa  milizia» 


Al 


particolare  significato  suppongono  la  celebrazione  pubblica  del  sa¬ 
crificio  e  della  invocazione  a  Dio.^^ 

Il  culto  dei  caduti  ebbe  subito  un  posto  centrale  nella  liturgia 
fascista  e  fu  probabilmente  il  più  espressivo  del  suo  senso  di  re¬ 
ligiosità  secolare  e  della  sua  concezione  eroica  della  vita.  «Biso¬ 
gna  accostarsi  al  martirio  con  devozione  raccolta  e  pensosa,  co¬ 
me  il  credente  che  si  genuflette  dinanzi  all’altare  di  un  dio  -  ave¬ 
va  scritto  Mussolini  nel  1917  Commemorare  significa  entrare 
in  quella  comunione  degli  spiriti  che  lega  i  morti  ai  vivi,  le  gene¬ 
razioni  che  furono  e  quelle  che  saranno,  il  dolore  aspro  di  ieri  al 
dovere  ancora  più  aspro  di  domani»^”.  La  «confessione  di  fede» 
con  il  sacrificio  della  vita  era  il  valore  supremo  della  religione  fa¬ 
scista.  Intorno  al  culto  dei  caduti  si  sviluppò,  ancora  col  ricorso 
a  metafore  della  tradizione  cristiana,  la  simbologia  del  sangue  ri- 
generatore  e  fecondatore  dei  martiri.  Ne  troviamo  un  esempio 
eloquente  nell’orazione  per  tre  caduti  fascisti,  tenuta  nel  1921  da 
Carlo  Scorza,  capo  degli  squadristi  lucchesi: 

Sorta  dal  sangue,  o  trinità  di  luce,  tu  sei:  dal  tuo,  dal  nostro  san¬ 
gue.  Si  vuotino  le  vene  del  loro  più  gagliardo  flutto  a  formare  il  nuo¬ 
vo  fonte  battesimale:  pieno  il  calice  del  dono  vermiglio,  sia  innalzato 
dai  nostri  cuori,  o  fratelli,  fino  agli  altissimi  cieli  a  compiere  il  riscat¬ 
to  dal  passato  aH’awenire.^^ 

I  funerali  dei  fascisti  uccisi  erano  certamente  i  riti  emotiva¬ 
mente  più  intensi  e  coinvolgenti,  sia  per  i  partecipanti  che  per  la 
folla  degli  spettatori.  Il  corteo,  formato  da  tutte  le  organizzazioni 
fasciste  con  i  loro  vessilli  e  bandiere,  marciava  lentamente  al  rullo 
dei  tamburi  o  al  suono  di  marce  funebri,  mentre  i  negozi  lungo  il 
percorso  erano  fatti  chiudere  per  lutto.  Se  il  rito  si  svolgeva  di  se¬ 
ra,  l’atmosfera  era  resa  ancora  più  suggestiva  dalla  luce  delle  fiac¬ 
cole.  Il  momento  culminante  della  cerimonia  era  il  rito  dell’appel¬ 
lo:  uno  dei  capi  delle  squadre  gridava  il  nome  del  caduto,  e  la  fol¬ 
la  inginocchiata  rispondeva:  «Presente!».  Assurti  nell’universo 
simbolico  fascista  come  eroi  e  santi,  i  caduti  vegliavano  carismati- 

P.  Zama,  Fascismo  e  religione,  Milano  1923,  pp.  12-13. 

Mussolini,  Battisti!,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  12  luglio  1917. 

«L’Intrepido»,  10  luglio  1921. 


48 


Il  culto  del  littorio 


camente  sulla  comunione  dei  fascisti,  continuando  a  vivere  nella 
loro  memoria.  Il  rito  dell’appello  esprimeva  il  vincolo  sacro  fra  i 
morti  e  i  vivi,  congiunti  nella  vitalità  della  fede:  «La  vita  germoglia 
perenne  dalla  morte;  la  memoria  dell’individuo  è  trasmessa  per 
sempre  nell’anima  immortale  della  Nazione»^^.  Per  i  fascisti,  il  ri¬ 
to  dell’appello  divenne  il  rito  fascista  per  eccellenza,  la  testimo¬ 
nianza  più  alta  della  loro  religiosità,  e  fu  officiato,  negli  anni  del  re¬ 
gime,  per  tutti  i  morti  che  si  erano  distinti  nella  storia  della  rivolu¬ 
zione  e  nella  vita  nazionale.  La  sua  importanza,  nella  liturgia  fasci¬ 
sta,  è  provata  dal  fatto  che  al  rito  fu  dedicata  una  apposita  voqq  Ap¬ 
pello  fascista  nel  Dizionario  dipolitica  edito  dal  PNF  nel  1940,  e  vo¬ 
luto  da  Mussolini  come  una  sorta  di  «summa  theologica»  della 
dottrina  fascista^^:  «Il  rito  dell’appello  si  inserisce  in  quel  ricono¬ 
scimento  delle  forze  spirituali  oltre  la  vita  fisica  che  nelle  religioni 
si  manifesta  col  culto  dei  santi  e  presso  i  popoli,  nelle  diverse  fasi 
della  civiltà  in  forme  diverse,  col  culto  degli  eroi». 

Anche  quando  celebrava  riti  di  morte,  il  fascismo  voleva  da¬ 
re  ad  essi  il  carattere  di  una  affermazione  di  vitalità  e  di  fede  nel 
futuro.  Nel  culto  dei  caduti  non  troviamo  dominante  la  nota  del¬ 
la  mestizia  e  del  rimpianto.  Attraverso  la  forma  austera  e  mar¬ 
ziale  della  cerimonia,  il  dolore  veniva  contenuto  nelle  forme  di 
un  atto  di  devozione  alla  patria,  lenito  dalla  fede  nell’immorta¬ 
lità  del  caduto  risorto  nella  comunione  della  religione  fascista.  Il 
sangue  del  martire  era  la  linfa  rigeneratrice  che  ridava  vita  alla 
nazione  e  alimentava  la  sua  rinascita.  Trasfigurando  i  riti  di  mor¬ 
te  in  riti  di  vita,  il  fascismo  volle  dare  maggior  risalto  al  senso  mi¬ 
stico  della  comunione,  che  rimase  alla  base  della  concezione  fa¬ 
scista  del  partito,  e  venne  da  questo  poi  proiettato  sulla  conce¬ 
zione  della  nazione  organizzata  nello  Stato  totalitario. 


22  F.  Menano,  Rimini  in  un  tripudio  di  sole,  commemora  Luigi  Platania,  in 
«Il  Popolo  d’Italia»,  4  giugno  1922. 

2^  Dizionario  dipolitica,  voi.  I,  Roma  1940:  «Questo  rito  ha  come  signiticato 
simbolico  quello  di  attestare  la  continuità  spirituale  oltre  la  loro  vita  fisica  di  co¬ 
loro  che  hanno  contribuito  con  la  loro  opera  alla  ricostruzione  della  vita  italiana 
promossa  dal  Fascismo.  La  ‘presenza’  di  coloro  che  si  sono  sacrificati  nella  lotta, 
o  che  vi  hanno  dato  contributo  di  azione,  permane  nella  realtà  conquistata  dalla 
Rivoluzione.  Gli  scomparsi  non  sono  assenti  poiché  vivono  nel  documento  del¬ 
le  loro  forze  migliori.  La  risposta  ‘Presente!  ’  gridata  ad  una  voce  dai  camerati  af¬ 
ferma,  oltre  che  il  riconoscimento  di  tale  apporto  duraturo  alla  realtà  storica  del¬ 
la  nazione,  la  vitalità  in  tutti  gli  spiriti  dei  motivi  ideali  che  hanno  mosso  all’azio¬ 
ne  e  al  sacrificio  il  camerata  scomparso»  (pp.  146-147). 


Fig.  2.  Giansardi,  cartolina  di  propaganda  (1923). 


50 


Il  culto  del  littorio 


La  sagra  della  rinascita 

Le  manifestazioni  di  massa  del  fascismo  avevano  diversi  signi¬ 
ficati  e  funzioni  simboliche.  Oltre  che  esibizione  di  forza  per  ter¬ 
rorizzare  i  nemici  e  per  entusiasmare  e  rafforzare  il  senso  di  iden¬ 
tità  e  di  potenza  dei  fascisti  stessi,  le  cerimonie  fasciste  erano  spet¬ 
tacolari  dimostrazioni  di  propaganda,  miranti  ad  affascinare,  con 
la  suggestione  della  coreografia,  gli  spettatori  per  suscitare  fra  que¬ 
sti  la  fede  dei  nuovi  proseliti.  «Le  religioni  -  osservava  Bottai  - 
spesso  conquidono  le  anime  e  gli  spiriti  con  la  solennità  dei  loro 
cerimoniali  più  che  con  la  predicazione  dei  loro  sacerdoti  ed  è  at¬ 
traverso  quei  cerimoniali  che  l’afflato  mistico  trova  spesso  la  via 
dei  cuori»^"^.  Ma  il  fine  simbolico  che  accomunava  tutte  le  manife¬ 
stazioni,  dalle  parate  ai  funerali,  era  la  visualizzazione  del  fascismo 
come  comunità  di  credenti  e  movimento  di  rinascita  della  nazio¬ 
ne:  «i  cortei  fascisti  -  scriveva  ‘Il  Popolo  d’Italia’  nel  1922  -  sono 
come  il  rito  di  una  ‘primavera  sacra’,  l’ascesa  di  una  volontà,  di  un 
canto,  di  una  unità  spirituale»^^.  La  festa  scelta  per  simbolizzare 
questa  rinascita  della  nazione  fu  il  21  aprile.  Natale  di  Roma,  in  so¬ 
stituzione  del  Primo  maggio.  Il  mito  della  romanità,  anche  se  si  svi¬ 
luppò  soprattutto  nella  seconda  metà  degli  anni  Trenta,  è  presen¬ 
te  nel  fascismo  fin  dalle  origini,  ed  occupa  già  un  posto  centrale  nel 
suo  cosmo  mitologico:  «Roma  che  è  l’Italia,  Roma  che  è  il  mondo, 
Roma  che  è  tutta  la  storia  e  tutta  la  civiltà  del  mondo:  Roma  che  è 
Forza,  che  è  luce,  che  è  Giovinezza,  che  è  Bellezza  !»^^.  In  questo 
senso,  il  richiamo  a  Roma  voleva  essere  un  atto  di  fede  nella  pe¬ 
renne  vitalità  e  destino  di  grandezza  della  stirpe  italiana.  Tutti  i  ri¬ 
ti  fascisti,  nella  fase  di  lotta  dello  squadrismo,  erano  simboli  della 
«nuova  nascita»  della  nazione,  ricongiunta  alla  tradizione  di  Roma 
e  ricondotta  dall’«amore  per  la  Fede  comune»  ad  una  spirituale 
unità  che  trascendeva  partiti,  classi,  sesso,  generazioni  e  segnava 
l’inizio  della  palingenesi  della  nazione,  l’avvento  del  «regno  dello 
spirito»^^.  E  come  tali  li  ritroveremo  durante  gli  anni  del  regime, 

G  Bottai,  Disciplina,  in  «Critica  fascista»,  15  luglio  1923. 

25  Menano,  Rùnini  in  un  tripudio  di  sole  cit. 

26  «Il  Popolo  d’Italia»,  22  aprile  1921. 

2’  L.  Freddi,  Le  Sagre  della  Rinascita,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  26  settembre 
1922. 


l.  La  «santa  milizia> 


51 


inseriti  in  un  diverso  contesto  politico  e  istituzionale,  in  funzione 
della  legittimazione  e  consacrazione  della  nuova  comunione  della 
nazione  nel  culto  del  littorio. 

L’autorappresentazione  del  fascismo  come  religione  non  ri¬ 
mase  soltanto  nell’ambito  del  simbolismo,  del  rituale  e  della  mi¬ 
tologia,  ma  svolse  una  funzione  utile  anche  nell’istituzionalizza¬ 
zione  del  movimento  e  nell’attuazione  delle  sue  ambizioni  totali¬ 
tarie.  Fu  il  motivo  principale  su  cui  il  fascismo  formò  il  suo  «spi¬ 
rito  di  corpo»  e  il  senso  di  identità,  trasformandosi  da  movimento 
situazionale,  come  era  all’inizio,  in  un  partito  di  tipo  nuovo,  con 
quei  caratteri  propri  di  milizia  della  nazione,  conservando  l’or¬ 
ganizzazione,  la  cultura  e  lo  stile  di  vita  tipici  dello  squadrismo, 
insieme  con  il  complesso  di  miti,  riti  e  simboli  che  dall’esperien¬ 
za  squadrista  erano  scaturiti,  e  che  rimasero  pressoché  inalterati 
fino  alla  caduta  del  regime. 

Il  movimento  fascista  era  riuscito  a  monopolizzare  il  patriot¬ 
tismo,  presentandosi  con  successo  alla  borghesia  e  ai  ceti  medi 
come  il  salvatore  dell’Italia  dalla  «bestia  trionfante»,  del  bolsce¬ 
vismo.  Nel  1922,  lo  scenario  di  molte  città  italiane  era  comple¬ 
tamente  mutato.  Ai  grandi  cortei  di  bandiere  rosse  o  di  bandie¬ 
re  bianche  si  erano  ora  sostituiti,  alla  fine  di  una  vittoriosa  «guer¬ 
ra  dei  simboli»  per  la  conquista  del  monopolio  della  piazza,  i  cor¬ 
tei  del  tricolore  e  dei  vessilli  neri  del  fascismo.  Cortei,  adunate  di 
migliaia  di  persone,  riti  di  benedizione  dei  gagliardetti  e  di  giu¬ 
ramento  delle  squadre,  celebrazione  solenne  dei  funerali  e  ceri¬ 
monie  in  memoria  dei  «martiri»  fascisti  divennero  uno  spettaco¬ 
lo  quasi  quotidiano.  Alla  vigilia  della  «marcia  su  Roma»,  il  fasci¬ 
smo  pretendeva  di  aver  iniziato,  con  la  sua  opera,  la  rigenerazio¬ 
ne  morale  degli  italiani  per  trasformarli  in  un  popolo  compatto, 
disciplinato  e  solidale  nelle  sue  categorie,  senza  lacerazioni  di 
parte,  senza  antagonismi  di  classe  e  rivalità  di  sesso  e  di  genera- 
zionP^: 

Per  la  prima  volta  quell’entità  umana  che  usai  definire  «popolo» 
appare  neUa  sua  pienezza  totale,  nella  sua  significazione  romana.  Po¬ 
polo:  cioè  figli  della  stessa  terra  unanimamente  vibranti  d’amore  per 
la  Patria  comune.  Popolo:  tutti  figli  della  Gran  Madre,  a  qualunque 


2«  Ibid. 


52 


Il  culto  del  littorio 


classe  appartengano,  qualunque  sia  la  loro  origine,  qualunque  sia  il 
compito  che  essi  assolvono  nella  vita.  Popolo:  tutti  gli  uomini  che 
compongono  la  società  che  lavora,  che  produce,  tutti  gli  uomini  che 
alla  vita  danno  il  quotidiano  contributo  della  loro  volontà,  del  loro 
sacrificio,  del  loro  ingegno. 

Il  comandamento  del  verbo  fascista  ha  finalmente  riunito  in  una 
sola  passione  questo  meraviglioso  popolo  italiano  e  gli  ha  insegnato 
a  marciare,  in  ranghi  serrati,  per  battaglioni,  per  legioni.  C’è  l’uomo 
dei  campi,  abbronzato,  rude  e  gagliardo,  che  nella  collettività  frater¬ 
na  ha  ritrovato  la  sua  individualità  e  cammina  altero,  pervaso  da  una 
fierezza  nuova.  C’è  l’uomo  delle  officine,  franco,  forte,  schietto  cui  la 
nuova  fede  ha  rasserenato  lo  spirito  e  ridonato  una  coscienza  nuova. 
E,  fianco  a  fianco,  vicini  non  soltanto  materialmente,  tutti  gli  altri  uo¬ 
mini  che  ai  primi  un  tempo  erano  additati  come  nemici:  quelli  che 
non  col  braccio  lavorano  ma  con  l’ingegno,  con  l’intelletto;  tutti,  dal¬ 
l’impiegato  modesto  al  professionista  laborioso,  all’intellettuale  pen¬ 
soso.  Affratellati  ed  uniti,  come  in  un  tempo  non  lontano  nella  trin¬ 
cea  bellica;  guidati  da  una  disciplina  spontaneamente  riconosciuta  ed 
osservata;  inquadrati  da  una  gerarchia  salda  e  fraterna. 

E  cogli  uomini  le  donne,  queste  stupende  donne  italiane  modeste 
laboriose  e  sagge,  e  i  giovanetti  che  apprendono  presto  le  leggi  ferree 
della  disciplina  e  il  senso  del  dovere  e  del  sacrificio  e  l’amore  per  la 
terra  dei  padri  benedetta  e  santificata  dal  sacrificio  dei  martiri.  E  tut¬ 
te  le  età;  i  giovani  che  orgogliosamente  ostentano  i  segni  della  guer¬ 
ra,  gli  anziani  che  fondono  la  loro  compostezza  austera  col  traboc¬ 
cante  entusiasmo  dei  figli,  i  vecchi  che  rivivono  le  loro  ore  più  belle 
secondando  col  passo  ancora  saldo  i  ritmi  gioiosi  delle  canzoni  gio¬ 
vanili. 

È  l’Italia,  insomma,  tutto  il  popolo  d’Italia  che  si  ritrova  unito,  per 
la  prima  volta,  forse,  sotto  i  colori  della  bandiera  della  Patria,  in  una 
unità  spirituale  che  lo  rende  finalmente  degno  della  sua  vittoria  e  del¬ 
le  mete  più  superbe! 

Il  testo  appena  citato,  al  di  là  dell’enfasi  retorica,  è  partico¬ 
larmente  significativo  perché  delinea,  nei  caratteri  essenziali,  quel 
mito  deir«armonico  collettivo»,  come  lo  definirà  Mussolini  nel 
194P^,  che  sarà  modello  ideale  per  il  progetto  di  trasformazione 
del  carattere  degli  italiani,  cui  si  dedicherà,  con  fanatica  deter¬ 
minazione,  la  politica  dello  Stato  totalitario. 


N.  D’Aroma,  Mussolini  segreto,  Bologna  1958,  p.  239. 


T 


53 


'  I.  La  «santa  milizia» 

« 

Una  religione  politica  al  potere 

Con  la  vittoria  del  fascismo,  il  culto  della  patria  veniva  re- 

•  staurato  e  nessuno  osava  più  ostentare  pubblicamente  il  proprio 
dissenso.  Il  mutamento  di  clima  politico,  apportato  dal  fascismo, 
era  percepibile  anche  nella  retorica  dei  monumenti  di  guerra: 

In  taluni  luoghi  -  scriveva  «L’Illustrazione  italiana»  alla  fine  del 
1922  -  la  revisione  si  produce  sotto  l’influenza  degli  avvenimenti  nuo¬ 
vi.  Certe  parole  come  «Italia,  Vittoria,  Gloria,  Gratitudine,  Ricono¬ 
scenza»  sostituiscono  «sacrificio,  olocausto,  caduti,  guerra»  senza  ag¬ 
gettivi.  Meno  colore  di  cimitero  e  più  spirito  di  Pantheon,  oggi.’® 

Sulla  religione  nazionale  vegliava  ora  una  milizia  armata.  Piaz¬ 
ze  e  monumenti  diventarono  stabilmente  «spazi  sacri»  dove  una 
massa  liturgica  celebrava  periodicamente  i  riti  della  patria  ac¬ 
compagnandoli  con  atti  di  riconoscenza  e  di  devozione  verso  il 
«salvatore  dell’Italia».  Molti  alimentarono,  per  convinzione  e  in¬ 
teresse,  la  restaurazione  del  culto  patriottico,  che  ora  veniva  im¬ 
posto  anche  alle  masse  proletarie  che  l’avevano  ignorato  o  re¬ 
spinto; 

Guardate,  la  grande  stampa,  come  sfrutta  il  motivo  patriottico,  e 
ogni  occasione,  da  Dante  al  Milite  Ignoto,  è  buona;  come  la  religio¬ 
ne  della  Patria  diventi  intollerante.  Vent’anni  fa  crepuscolare,  oggi  è 
la  forza  principale.  Non  si  tratta  di  semplice  trucco.  E,  per  le  demo¬ 
crazie  industriali,  garanzia  del  futuro:  significa  aver,  forse,  trovato  un 
centro  di  gravità  per  le  masse,  una  disciplina  ideale  da  proporre  al 
popolo  che,  sembra  non  vi  repugna.’* 

La  borghesia  patriottica  plaudì  al  governo  fascista  per  aver  fi¬ 
nalmente  istituito  la  religione  civile  della  nazione,  con  una  rivolu¬ 
zione  incruenta  che  aveva  riportato  disciplina  e  unità  nel  paese. 

Eppure,  quel  che  molti  pensavano  fosse  la  religione  civile  per 
un’Italia  unita  di  cittadini  liberi,  annunciata  dai  profeti  del  Ri- 

j  sorgimento,  mostrava  già  nei  primi  tempi  del  fascismo  al  potere 

à  O.  Cavara,  I  monumenti  per  i  caduti  di  guerra,  in  «L’Illustrazione  italia- 

•  na»,  31  dicembre  1922. 

F.  Burzio,  Politica  demiurgica,  Bari  1923,  p.  111. 


1 


54 


Il  culto  del  littorio 


di  essere  in  realtà  una  nuova  religione  che,  mescolando  ambi¬ 
guamente  i  simboli  della  patria  con  i  simboli  di  un  partito,  rive¬ 
lava  la  vocazione  totalitaria  di  una  esordiente  religione  politica, 
che  si  apprestava  a  servirsi  degli  altari  della  patria  per  celebrare, 
in  un  nuovo  Stato  integrahsta,  il  culto  del  littorio. 


LA  PATRIA  IN  CAMICIA  NERA 


Un  partito  può  ambire  il  dominio  della  vita 
pubblica,  ma  non  deve  oltrepassare  i  confini 
della  coscienza  privata  nella  quale  ciascuno  è 
libero  di  cercare  il  suo  rifugio.  Senonché  il  fa¬ 
scismo  non  ha  mirato  tanto  a  governare  TI- 
talia,  quanto  a  monopolizzare  il  controllo  del¬ 
le  coscienze  italiane.  Non  gli  basta  il  posses¬ 
so  del  potere:  vuole  il  possesso  della  coscien¬ 
za  privata  di  tutti  i  cittadini,  vuole  la  «con¬ 
versione»  degli  italiani. 

Conversione  a  che  cosa?  Si  è  osservato  spes¬ 
so  che  il  fascismo  non  aveva  abbastanza  idee 
per  costruirsi  un  programma,  ed  è  occorsa  la 
fusione  col  nazionalismo  per  dargli  una  dot¬ 
trina  politica.  Eppure  il  fascismo  ha  le  prete¬ 
se  di  una  religione  [...]  il  fascismo  ha  tuttavia 
le  supreme  ambizioni  e  le  inumane  intransi¬ 
genze  di  una  crociata  religiosa.  Non  promet¬ 
te  la  felicità  a  chi  non  si  converte,  non  con¬ 
cede  scampo  a  chi  non  si  lasci  battezzare. 

Il  buon  Pastore,  con  la  nodosa  mazza  che  ha 
signoreggiato  le  nostre  domeniche,  sospinge 
rudemente  gli  italiani  ad  entrare  nel  tempio  e 
minaccia  perdizione  a  chiunque  si  ostina  a  re¬ 
starne  fuori. 


«Il  Mondo» 
(1"  aprile  1923) 


Dalla  borghesia  patriottica  e  dai  fautori  di  una  restaurazione 
del  regime  liberale,  il  fascismo  era  osannato  come  il  salvatore  del¬ 
la  patria,  risorta  dalla  guerra  ma  trascinata  dai  suoi  «nemici  in¬ 
terni»  sull’orlo  di  un  baratro,  e  come  il  restauratore  del  culto  del¬ 
la  nazione  nei  suoi  miti,  nei  suoi  riti  e  nei  suoi  simboli.  Ma  la  re¬ 
staurazione  fascista  aveva  un  ritmo  e  uno  stile  che  ben  poco  cor¬ 
rispondevano  all’idea  di  un  ripristino  del  culto  della  patria  nelle 
forme  nostalgicamente  ottocentesche,  vagheggiate  dai  fautori  di 
una  restaurazione  dell’Italia  monarchica  al  di  sopra  dei  partiti, 
dopo  l’agnosticismo  democratico  degli  anni  giolittiani  e  il  caos 
dissacrante  del  «biennio  rosso».  Tuttavia,  pochi,  fra  i  credenti 
nella  «religione  della  patria»,  si  resero  conto  della  diversità,  e 
quando  questa  divenne  palese,  nella  propensione  fascista  a  di¬ 
struggere  la  libertà,  pochi  di  essi  protestarono  e  reagirono  in  di¬ 
fesa  dell’indissolubile  legame  fra  libertà  e  nazione,  che  aveva  ispi¬ 
rato  la  ricerca  della  religione  civile  durante  il  Risorgimento  e  nel¬ 
l’Italia  liberale.  La  seduzione  del  nazionalismo  fu  più  forte  della 
fede  nella  libertà,  e  fece  accettare  il  fascismo  come  paladino  e  re¬ 
stauratore  della  «patria  risorta».  In  realtà,  la  patria  risorta  dalla 
guerra,  che  il  fascismo  voUe  ricollocare  sugli  altari,  era,  per  i  fa¬ 
scisti,  una  patria  in  camicia  nera,  che  solo  chi  era  in  camicia  ne¬ 
ra  poteva  amare  e  venerare.  Ciò  divenne  evidente  molto  presto 
nel  modo  con  cui  il  governo  fascista  procedette  ad  instaurare  una 
liturgia  della  patria,  che  fu  solo  la  base  per  istituzionalizzare  il 
culto  del  littorio. 

Per  illustrare  l’elaborazione  della  liturgia  fascista  ci  serviremo 
di  alcuni  esempi,  tratti  principalmente  dal  primo  decennio  del 
regime:  esempi  che  sono,  a  nostro  parere,  particolarmente  rile¬ 
vanti  per  comprendere  il  significato  e  la  funzione  attribuita  dal 
fascismo  ai  riti  di  massa  nell’ambito  della  politica  totalitaria.  Sia 
pure  schematicamente,  nella  istituzionalizzazione  della  liturgia 
f^ascista  si  possono  distinguere  due  fasi:  la  prima,  fra  il  1923  e  il 


Fig.  3.  Cartolina  fascista,  1923. 


II.  La  patria  in  camicia  nera 


59 


1926,  in  cui  il  fascismo  è  impegnato  a  conquistare,  con  il  mono¬ 
polio  del  potere,  il  pieno  controllo  dell’universo  simbolico  dello 
Stato;  la  seconda,  fra  il  1926  e  il  1932,  in  cui  la  liturgia  fascista  si 
consolida,  incorporando  anche  il  culto  della  patria.  Nel  decen¬ 
nio  successivo,  il  culto  del  littorio,  anche  se  si  amplia  con  nuovi 
riti,  conserva  e  sviluppa  i  caratteri  acquisiti  nel  periodo  prece¬ 
dente,  andando  incontro  ad  un  processo  di  cristallizzazione  e  di 
meccanica  ripetitività.  Dedicheremo  maggiore  attenzione  al  pri¬ 
mo  decennio,  perché  è  il  periodo  più  importante  per  seguire  le 
forme  di  istituzionalizzazione  del  culto  del  littorio.  In  questo  pro¬ 
cesso,  il  fascismo  segue  due  procedimenti,  diversi  anche  se  si¬ 
multanei,  che  corrispondono  al  tipo  di  azione  che  esso  conduce 
nell’arena  politica  per  conquistare  e  consolidare  il  monopolio  del 
potere.  Vi  è  un  procedimento  diretto  a  riconsacrare  i  simboli  e 
riti  dell’unità  nazionale  e  della  «patria  risorta»  (culto  della  ban¬ 
diera,  festa  dello  Statuto,  glorificazione  della  Grande  guerra); 
mentre  l’altro  è  diretto  ad  introdurre,  nella  simbologia  e  nella  li¬ 
turgia  dello  Stato,  i  simboli  e  i  riti  della  religione  fascista,  attra¬ 
verso  una  graduale  simbiosi  che  finì  col  fascistizzare  la  «religio¬ 
ne  della  patria». 


Il  culto  della  bandiera 

Nel  quadro  delle  iniziative  miranti  a  instaurare  ufficialmente 
una  liturgia  di  Stato,  il  governo  fascista  diede  subito  un  forte  im¬ 
pulso  al  rinnovamento  del  simbolismo  statale  e  patriottico,  ri¬ 
mettendo  in  auge  anche  l’uso  delle  uniformi  per  i  membri  del  go- 
vernoh  II  «nuovo  Stato  ama  il  decoro  e  vuole  restaurare  la  di¬ 
gnità  delle  forme  [...]  Mussolini  mira  a  qualcosa  di  più  concreto 
che  alla  riforma  sartoriale:  vuole  una  restaurazione  dei  simboli» 
scriveva  «L’Illustrazione  italiana»^.  «La  passione  Fascista  -  scris¬ 
se  enfaticamente  un  giornalista  fascista  poche  settimane  dopo  la 
‘marcia  su  Roma’  -  ha  donato  a  tutti  i  simboli  riconsacrati  un’a¬ 
nima  fervida,  umana  e  divina,  vibrante  del  palpito  concorde  in 

’  Cfr.  ACS  PCM,  Atti,  1923,  fase.  78  bis.  Regolamento  sulle  uniformi  del 
Presidente  del  consiglio,  dei  ministri  e  sottosegretari,  28  dicembre  1923. 

^  «L’Illustrazione  italiana»,  17  dicembre  1922. 


60 


Il  culto  del  littorio 


cinquanta  milioni  di  petti  italiani»^.  L’affermazione,  per  quanto 
retorica,  non  era  del  tutto  infondata. 

Il  governo  Mussolini  volle  ridare  innanzi  tutto  solennità  ai  fe¬ 
steggiamenti  degli  anniversari  nazionali,  prescrivendo  ai  comuni 
l’obbligo  di  stanziare  nei  propri  bilanci  le  spese  occorrenti  per 
celebrare  le  feste  laiche  «con  le  necessarie  manifestazioni  este¬ 
riori».  Fu  inoltre  resa  obbligatoria,  per  uffici  governativi  e  co¬ 
muni,  l’esposizione  della  bandiera  nazionale'^.  Fino  al  1922  non 
vi  erano  disposizioni  circa  l’uso  della  bandiera.  Le  amministra¬ 
zioni  rette  da  partiti  antimonarchici  sovente  usavano  esporre 
bandiere  di  partito  o  rifiutavano  di  esporre  il  tricolore  nelle  ri¬ 
correnze  nazionali.  Il  fascismo  rimediò  alla  lacuna:  con  un  de¬ 
creto  del  24  settembre  1923,  fu  resa  obbligatoria  l’esposizione  del 
tricolore  per  uffici  pubblici  di  province  e  comuni,  in  occasione 
di  feste  o  di  lutto,  e  la  sua  precedenza  su  qualsiasi  altro  vessillo 
nelle  funzioni  pubbliche.  Seppure  informalmente,  tale  obbligo  fu 
preteso  anche  per  le  associazionP. 

Il  culto  della  bandiera  non  rimase  confinato  negli  uffici  pub¬ 
blici,  nelle  cerimonie  militari,  nelle  celebrazioni  di  piazza.  Il  31 
gennaio  1923  il  ministero  della  Pubblica  istruzione  disponeva 
l’obbligo  del  rito  del  saluto  al  tricolore  nelle  scuole.  Ogni  scuola 
doveva  avere  una  bandiera,  custodita  dal  capo  dell’istituto  e  affi¬ 
data,  durante  le  cerimonie,  ad  un  alfiere  scelto  fra  gli  scolari  mi¬ 
gliori'^.  Ogni  sabato,  al  termine  delle  lezioni,  e  alla  vigilia  delle  va¬ 
canze,  gli  scolari  dovevano  rendere  omaggio  al  vessillo  con  il  salu¬ 
to  romano,  accompagnando  il  rito  col  canto  corale  di  inni  patriot¬ 
tici.  Come  padrini  per  la  cerimonia  di  consegna,  erano  prescelti  i 
mutilati  e  gli  invalidi  di  guerra,  «figli  prediletti  della  stirpe»^,  per 


^  G.R.  Manclel,  Mitologia  fascista,  in  «L’Assalto»,  25  novembre  1922. 

Cfr.  Camera  dei  deputati,  Legislatura  XXVII,  La  legislazione  fascista  1922- 
1928  (I-VII),  voi.  I,  Roma  s.d.,  pp.  22-23. 

’  Cfr.  il  telegramma  di  Mussolini  al  prefetto  di  Forlì,  del  18  giugno  1923, 
in  cui  deplorava  la  mancata  esposizione  del  tricolore,  in  occasione  della  festa 
dello  Statuto,  da  parte  di  un’associazione  che  adduceva  motivi  di  «apoliticità», 
giudicati  inaccettabili  dal  momento  che,  affermava  Mussolini,  la  ricorrenza  del¬ 
lo  Statuto  doveva  esser  considerata  «festa  dell’esercito  e  della  Nazione».  MAE, 
Ministero  Cultura  popolare,  b.  312. 

^  Cfr.  D.  Lupi  (a  cura  di).  La  riforma  Gentile  e  la  nuova  anima  della  scuo¬ 
la,  Milano-Roma  1924,  pp.  285-317. 

^  D.  Lupi,  Il  comandamento  della  patria,  Milano  1925,  p.  71. 


IL  La  patria  in  camicia  nera 


61 


Stabilire  così  un  simbolico  vincolo  fra  i  testimoni  dell’eroismo  di 
guerra  e  le  nuove  generazioni.  In  occasione  della  cerimonia  di  con¬ 
segna  delle  bandiere  alle  scuole  romane,  il  17  maggio  1923,  alla 
presenza  dei  sovrani,  Dario  Lupi,  deputato  fascista  toscano  e  sot¬ 
tosegretario  alia  Pubblica  istruzione,  ideatore  del  rito,  spiegò  agli 
scolari  che  la  bandiera  doveva  essere  da  loro  accolta  come  una 
«nova  eucaristia»:  con  essa,  disse  aulicamente,  «ricevete  entro  di 
voi,  per  farla  vostra,  incancellabilmente,  la  idea  immensa  e  bene¬ 
detta  della  Patria»  che  «penetra  nel  vostro  cuore,  e  si  confonde  con 
il  vostro  spirito,  e  si  fa  grazia  della  vostra  grazia,  in  voi  essa  si  im¬ 
medesima  e  si  riplasma»^.  Per  conferire  al  rito  del  saluto  «austera 
solennità».  Lupi  dispose  che  il  suo  significato  venisse  «illustrato 
con  amore  e  praticato  con  religione  vera»  anche  «facendone  più 
rara  la  ricorrenza»,  ma  in  nessun  caso  meno  di  una  volta  al  mese  e 
in  «forme  severe  e  suggestive»*^. 

Il  rito  del  saluto  alla  bandiera  fu  solo  una  delle  varie  iniziati¬ 
ve  prese  da  Lupi.  Egli  ripristinò  anche  l’obbligo  di  esporre  nel¬ 
le  classi  i  ritratti  di  Cristo  e  del  Re;  incoraggiò  la  partecipazione 
delle  scolaresche  alle  gare  di  canto  corale  degli  inni  nazionali;  in¬ 
citò  le  scuole  ad  effettuare  pellegrinaggi  alla  tomba  del  Milite 
Ignoto.  Sua  fu  anche  l’iniziativa  di  onorare  la  memoria  dei  caduti 
«nel  simbolo  vivente  di  una  pianta»,  idea  «antichissima  nella  pra¬ 
tica...  tornata  in  onore  dopo  la  strage  della  Grande  guerra,  ri¬ 
chiamata  dal  desiderio  ansioso  dei  superstiti  di  manifestare  ai 
morti,  nei  modi  più  eloquenti,  la  loro  riconoscenza»^®.  Ogni  città, 
paese  e  borgo,  dispose  il  30  novembre  1922,  doveva  creare  un 
Viale  o  un  Parco  della  rimembranza,  piantando  un  albero  per 
ogni  soldato  caduto  nella  Grande  guerra.  Questo  rito  doveva  es¬ 
sere  compiuto  dalle  scolaresche^  b  Monumenti  viventi  inseriti 
nell’ambiente  della  vita  urbana,  le  «selve  votive»  simboleggiava¬ 
no  la  spirituale  comunione  fra  i  vivi  e  i  morti  per  la  patria:  era- 

®  Ivi,  pp.  68-69. 

^  Lupi  (a  cura  di).  La  riforma  Gentile  cit.,  pp.  292-293. 

Ivi,  p.  207. 

"  Ivi,  pp.  207-271;  G.F.  Marini,  La  rimembranza,  in  «Il  Popolo  d’Italia», 
29  dicembre  1922,  cfr.  anche  D.  Lupi,  Parchi  e  viali  della  rimembranza,  Firen¬ 
ze  1923.  Sul  simbolismo  dell’albero  e  la  diffusione  dei  «boschi  degli  eroi»  do¬ 
po  la  prima  guerra  mondiale,  cfr.  G.L.  Mosse,  L’uomo  e  le  masse  nelle  ideolo¬ 
gie  nazionaliste,  trad.  it.  di  P.  Negri,  Roma-Bari  1982,  pp.  253-276. 


.62 


Il  culto  del  littorio 


no  «luoghi  sacri»  al  culto  della  nazione,  dove  i  fanciulli  si  sareb¬ 
bero  educati  nella  «santa  emulazione»  degli  eroi.  Queste  inizia¬ 
tive  ebbero  un  discreto  successo:  fino  al  febbraio  1924,  i  comu¬ 
ni  in  cui  era  stata  inaugurata  la  bandiera  nelle  scuole  erano  6.579 
su  8.893;  ed  erano  stati  creati  2.217  parchi  e  viali  su  8.703  co- 
muni^2.  Per  rendere  più  attiva  e  appassionante  la  partecipazione 
delle  scuole  al  culto  della  patria,  il  governo  istituì  anche  una  guar¬ 
dia  d'onore,  formata  da  scolari,  cui  venne  affidata  la  custodia  dei 
monumenti  e  delle  «selve  votive» 

Lupi  meritò  certamente  dai  credenti  nella  «religione  della  pa¬ 
tria»  l’appellativo  di  «iniziatore  dei  riti  novelli  -  delle  insegne  e  del¬ 
le  memorie  -  nelle  scuole  -  dove  nasce  e  s’infutura  -  la  vittoriosa 
Italia»^"*.  Queste  iniziative,  prese  nel  quadro  della  riforma  Genti¬ 
le,  erano  parte  di  un  disegno  preciso  di  politicizzazione  della  scuo¬ 
la,  attraverso  l’introduzione,  in  una  forma  sconosciuta  nel  passa¬ 
to,  di  riti  e  simboli  per  educare  i  ragazzi  nel  culto  della  patria,  esal¬ 
tando  soprattutto,  attraverso  la  Grande  guerra,  il  fascismo.  Una 
circolare  del  13  febbraio  1923  dispose  infatti  che  gli  alberi  votivi 
dovevano  essere  dedicati  anche  ai  «martiri  fascisti»  perché  «la  fe¬ 
de  stessa  che  condusse  al  sacrificio  i  martiri  del  Fascismo  è  la  fede 
stessa  che  circonfuse  di  gloria  l’olocausto  santo  dei  caduti  in  guer- 
ra»^^.  L’istituzione  della  guardia  d’onore  fu  solo  il  primo  passo  ver¬ 
so  la  militarizzazione  dell’educazione  scolastica,  avviata  all’inse¬ 
gna  del  culto  della  patria  e  dei  caduti,  che  trasformerà  la  scuola,  at¬ 
traverso  successive  riforme,  in  uno  dei  luoghi  privilegiati  per  l’in¬ 
segnamento  dei  dogmi  e  la  pratica  dei  riti  del  culto  del  littorio 


Ivi,  pp.  317  e  271. 

1^  Cfr.  R.D.  9  dicembre  1923,  n.  2747;  Lupi  (a  cura  di).  La  riforma  Genti¬ 
le  cit.,  pp.  411-426. 

1^  «L’Idea  nazionale»,  2  giugno  1923;  Un  libro  di  propaganda  nazionale,  ivi, 
12  dicembre  1923. 

Lupi  (a  cura  di).  La  riforma  Gentile  cit.,  pp.  230-231. 

1^  Sull’uso  del  simbolismo  e  sulla  pratica  liturgica  patriottico-fascista  nella 
scuola  manca  uno  studio  specifico,  ma  utili  elementi  si  trovano  in  T.M.  Maz¬ 
zatosta,  Il  regime  fascista  tra  educazione  e  propaganda  1935-1943,  Bologna  1978; 
A.  Fava,  Chiesa  e  propaganda  nella  stampa  locale:  riti  e  modelli  «religiosi»  del¬ 
la  propaganda  fascista  in  Umbria,  in  A.  Monticone  (a  cura  di).  Cattolici  e  fasci¬ 
sti  in  Umbria  (1922-1945),  Bologna  1978,  pp.  247-295;  M.  Isnenghi,  L’Educa¬ 
zione  dell’italiano,  Bologna  1979;  A.  Fava,  La  guerra  a  scuola.  Propaganda,  me¬ 
moria,  rito  (1915-1940),  in  D.  Leoni,  D.  Zadra  (a  cura  di).  La  grande  guerra, 
Bologna  1986,  pp.  685-713. 


IL  La  patria  in  camicia  nera 


63 


Il  culto  del  tricolore  diventò  un  rito  quasi  quotidiano.  Durante  il 
1923  si  assistè,  specialmente  nella  capitale,  a  numerose  «sagre  della 
bandiera»,  promosse  dalle  forze  armate,  dalle  associazioni  combat¬ 
tentistiche,  dai  fascisti.  Piazza  Venezia  e  l’Altare  della  patria  diven¬ 
nero  il  «centro  sacro»,  dove  si  celebravano  frequenti  riti  di  benedi¬ 
zione  e  consegna  delle  bandiere.  Gli  oppositori  del  fascismo  giudi¬ 
cavano  l’eccesso  di  riti  una  retorica  festaiola:  «Non  è  retorica»,  rea¬ 
giva  un  giornale  fascista  romano,  perché  non  «esiste  grandezza  di 
nazioni,  senza  manifestazioni  rituali  della  religione  della  Patria. 
Ogni  popolo,  che  fu  grande  nella  Storia,  fu  anche  ricco  di  simboli  e 
di  esterne  liturgie».  E  aggiungeva  che  chi  non  condivideva  il  culto 
della  bandiera  doveva  esser  messo  al  bando  dalla  comunità  nazio¬ 
nale,  perché  chi  «disprezza  d  simbolo  tnon]  sente  il  ‘rispetto  uma¬ 
no’  per  tutto  ciò  che  forma  H  patrimonio  spirituale  della  Nazione. 
Anche  d  disprezzo  del  simbolo  è  indice  di  vigliaccheria,  tanto  è  ve¬ 
ro  che  nei  giorni  dell’ignominia,  le  decorazioni  si  nascondevano  e  le 
insegne  si  riponevano  con  ogni  cura».  La  sagra  delle  bandiere  se¬ 
gnava  «una  data  storica;  un  giorno  luminoso  di  un’era  nuova»^^. 

Era  chiaro,  da  questo  come  da  altri  commenti  della  stampa 
fascista  e  filofascista,  che  la  venerazione  della  bandiera  rappre¬ 
sentava  qualcosa  di  più  che  un  omaggio  reso  al  simbolo  della  pa¬ 
tria:  era  l’inizio  di  un  radicale  mutamento  di  clima  politico,  in  cui 
non  sarebbe  stato  più  consentito  avere  atteggiamenti  indifferen¬ 
ti,  o  peggio  ostili,  verso  la  sacralità  della  patria.  Il  fascismo  mira¬ 
va  ad  affermare  la  sua  diversità  privilegiata  rispetto  a  tutti  gli  al¬ 
tri  partiti,  anche  attraverso  l’istituzione  di  un  culto  della  patria, 
che  doveva  legittimare  e  consacrare  il  «regime  fascista»,  secondo 
l’espressione  corrente  già  aU’indomani  della  marcia  su  Roma,  co¬ 
me  unica  espressione  della  volontà  della  «nuova  Italia»  sorta  dal¬ 
la  guerra,  e  unico  interprete  della  volontà  della  nazione. 


Peste  deir  unità  nazionale 

Subito  dopo  l’andata  al  potere,  il  fascismo  rinnovò  e  arricchì 
il  calendario  delle  feste  laiche  dello  Stato,  fissandone  le  modalità 


Sagra  nazionale,  in  «Il  Giornale  di  Roma»,  25  giugno  1923.  Cfr.  anche 
G.  Bottai,  Sagra  italica,  ivi,  22  e  24  aprile  1923. 


64 


Il  culto  del  littorio 


di  celebrazione*^.  Alle  feste  dello  Statuto,  del  20  settembre  e  del 
4  novembre  (che  era  stata  istituita  il  23  ottobre  1922)  furono  ag¬ 
giunte,  fra  le  feste  civili,  il  24  maggio,  anniversario  dell’entrata  in 
guerra,  e  il  21  aprile.  Natale  di  Roma,  per  celebrare  la  giornata 
del  lavoro  in  sostituzione  della  festa  del  Primo  maggio.  Tuttavia, 
nella  istituzionalizzazione  del  culto  del  littorio,  queste  feste  eb¬ 
bero  funzioni  differenti,  o  non  l’ebbero  affatto,  come  accadde 
per  le  due  feste  tradizionali  dell’Italia  unita,  l’anniversario  dello 
Statuto  e  il  20  settembre. 

Rito  di  carattere  prettamente  monarchico  e  militare,  la  festa 
dello  Statuto,  negli  ultimi  anni,  era  stata  ignorata  da  molte  am¬ 
ministrazioni,  e  trascurata  anche  nella  capitale.  Per  l’anniversa¬ 
rio  del  1923,  fu  ripristinata  la  rivista  militare,  che  i  governi  del 
dopoguerra,  secondo  quanto  scriveva  il  quotidiano  dei  naziona¬ 
listi,  non  avevano  osato  consentire,  confinando  le  manifestazioni 
militari  all’interno  delle  caserme,  col  minimo  di  spettatori*^.  Il  3 
giugno,  la  ricorrenza  fu  festeggiata  a  Roma  e  nelle  altre  città  con 
rinnovato  fasto;  imbandieramento  degli  edifici  pubblici,  cortei, 
discorsi  e  riviste  militari  nelle  città  sedi  di  guarnigione,  alla  pre¬ 
senza  delle  autorità  civili  e  religiose.  Va  però  notato  lo  scarso  ri¬ 
lievo  che  la  pubblicistica  fascista  diede  a  queste  cerimonie:  la  cro¬ 
naca  dell’anniversario  fu  riportata,  senza  commenti,  da  «Il  Po¬ 
polo  d’Italia»  in  due  mezze  colonne  della  terza  pagina^'*.  Musso¬ 
lini,  che  in  quei  giorni  era  in  visita  nel  Veneto,  parlando  a  Vene¬ 
zia  il  3,  dopo  aver  assistito  ad  una  «superba  parata»,  in  due  di¬ 
scorsi  non  fece  alcun  accenno  alla  ricorrenza. 

In  realtà,  il  fascismo  non  mostrò  mai  interesse  per  la  festa  dello 
Statuto  nell’ambito  della  istituzionalizzazione  del  culto  del  littorio. 
Negli  anni  del  regime,  la  festa  venne  doverosamente  celebrata,  con¬ 
servando  il  suo  carattere  monarchico  e  militare,  ma  i  simboli  fasci¬ 
sti  rimasero  fuori  dalla  coreografia  della  parata  nella  capitale:  l’u¬ 
nico  inno  suonato  dalle  bande  rimase  la  Marcia  reale,  che  in  tutte 
le  altre  manifestazioni  ufficiali  era  invece  abbinata  all’inno  fascista. 
L’elemento  fascista  entrò  a  far  parte  della  rivista  militare  solo  con 

Cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1924,  fase.  2.4.1  n.  996. 

Finalmente!,  in  «L’Idea  nazionale»,  2  giugno  1923. 

L’Italia  celebra  nella  festa  dello  Statuto  la  sua  fede  e  la  sua  disciplina,  in 
«II  Popolo  d’Italia»,  5  giugno  1923. 


IL  La  patria  in  camicia  nera 


65 


una  rappresentanza  della  Milizia  e  delle  organizzazioni  giovanili  fa¬ 
sciste^*.  La  stampa  del  regime  relegò  in  genere  la  cronaca  della  fe¬ 
sta  nelle  pagine  interne,  fra  cerimonie  e  manifestazioni  varie,  men¬ 
tre  ai  riti  del  culto  del  littorio,  nella  capitale  e  nelle  province,  erano 
dedicate  l’intera  prima  pagina  e,  a  volte,  varie  pagine  interne^^.  Fe¬ 
sta  del  «vecchio  regime»,  l’anniversario  dello  Statuto  non  si  pre¬ 
stava  ad  essere  incorporato  nella  liturgia  fascista,  come  accadde  in¬ 
vece  per  gli  anniversari  della  Grande  guerra.  Tuttavia,  se  la  ceri¬ 
monia  rimase  quasi  integralmente  monarchica  nella  capitale,  nelle 
altre  città  subì  una  progressiva  contaminazione  da  parte  fascista, 
con  la  larga  partecipazione  delle  organizzazioni  del  partito  e  della 
MVSN,  assumendo,  nella  interpretazione  ufficiale,  il  significato 
simbolico  di  rito  di  concordia  fra  monarchia  e  regime,  fra  esercito 
e  milizia-^^.  La  festa  monarchica  nelle  province  finì  per  confonder- 


Cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1926,  fase.  4.1  n.  2074;  ivi,  1927,  fase.  2.4.1 
n.  2033. 

In  oeeasione  della  festa  dello  Statuto  nel  1931,  il  quotidiano  di  Musso¬ 
lini  dedieava  due  eolonne  in  quinta  pagina  alla  parata  romana,  e  un  eenno  som¬ 
mario  alle  manifestazioni  nelle  provinee:  «La  Festa  dello  Statuto  è  stata  eele- 
brata  ieri  in  tutta  Italia.  Ovunque  ai  pubbliei  edifiei  ed  alle  ease  private  è  sta¬ 
to  esposto  il  trieolore  nazionale.  Nelle  sedi  di  guarnigione  si  sono  svolte  riviste 
delle  truppe  e  della  milizia  e  cerimonie  di  carattere  militare,  alle  quali  hanno 
presenziato  le  autorità  e  le  gerarchie,  oltre  folle  di  popolo.  Altre  cerimonie  pa¬ 
triottiche  e  fasciste  hanno  caratterizzato  in  alcune  città  la  solennità  della  gior¬ 
nata.  La  sera  sono  state  accese  ricche  luminarie  sulle  facciate  degli  uffici  e  sui 
principali  monumenti.  Sempre  e  dovunque  ha  regnato  il  massimo  entusiasmo» 
(«Il  Popolo  d’Italia»,  9  giugno  1931). 

Citiamo,  come  esempio  di  una  cerimonia  tipica  durante  il  regime,  la  re¬ 
lazione  del  prefetto  di  Ascoh  Piceno  per  la  celebrazione  dell’anniversario  del 
1931:  «Questa  mattina  ad  ore  nove  ebbe  luogo  la  rivista  militare  nella  forma 
più  solenne  e  più  austera.  Attorno  alla  bandiera  del  reggimento  fanteria  deco¬ 
rato  di  medaglia  d’oro  e  a  fianco  valoroso  reggimento  era  presente  tutto  il  fa¬ 
scismo  nelle  sue  organizzazioni  e  nelle  sue  rappresentanze.  Spettacolo  vera¬ 
mente  imponente  di  forza  e  di  patriottismo  fascista.  Prefetto  ha  presenziato  in¬ 
dossando  uniforme  della  sua  carica  seguito  da  tutte  le  autorità  in  abito  di  ce¬ 
rimonia.  La  città  sfarzosamente  imbandierata  specie  nella  via  e  nella  piazza  del¬ 
la  rivista.  Al  passaggio  del  reggimento  e  delle  organizzazioni  del  partito  dalle 
finestre  venivano  lanciati  fiori.  Una  enorme  folla  di  cittadini  aveva  gremito  il 
corso  e  la  piazza  recando  nella  manifestazione  il  suo  spirito  patriottico  ed  il  suo 
alto  entusiasmo.  Nessun  incidente.»  (ACS,  MI,  DGPS,  1930-1931,  cat.  C4,  b. 
373,  telegramma  del  7  giugno  1931).  Durante  la  cerimonia,  si  svolgevano  a  vol¬ 
te  atti  simbolici,  come  la  consegna  di  un  pugnale  o  di  un  vessillo,  per  inneg¬ 
giare  «alla  fusione  di  spiriti  tra  Esercito  et  Milizia»  (ivi,  telegramma  del  pre¬ 
fetto  di  Alessandria,  7  giugno  1931). 


66 


Il  culto  del  littorio 


I 


si  con  le  altre  cerimonie  del  regime,  pur  restando  l’esercito  il  prin¬ 
cipale  protagonista  della  manifestazione,  al  punto  che  in  alcune  re¬ 
lazioni  sullo  svolgimento  della  festa  i  prefetti  parlavano  solo  di  «ma¬ 
nifestazioni  devozione  regime  e  Duce»^*^,  di  «prova  magnifico  svi¬ 
luppo  idea  fascista  et  attaccamento  al  Governo  Nazionale  et  al 
Duce»^^,  ignorando  qualsiasi  riferimento  al  re  e  alla  monarchia. 

Quanto  alla  festa  del  20  settembre,  la  celebrazione  nel  1923 
mostrò  chiaramente  che  il  fascismo  intendeva  cancellare  dalla 
manifestazione  qualsiasi  traccia  della  tradizione  democratica  e 
anticlericale,  trasformandola  in  una  occasione  per  esaltare  un 
ideale  collegamento  fra  la  conquista  del  1870  e  la  «marcia  su  Ro¬ 
ma».  Alle  cerimonie  organizzate  nella  capitale  per  festeggiare  la 
data  «storicamente  fondamentale  nella  storia  della  patria  e  nella 
sua  unificazione»,  il  governo  volle  dare  il  carattere  «di  afferma¬ 
zione  unitaria  al  di  sopra  delle  sette  e  dei  partiti»,  come  manife¬ 
stazione  di  una  «compiuta  solidarietà  degli  italiani»,  che  aveva¬ 
no  saputo  superare  «nell’unica  fedeltà  alla  Patria,  anche  quella 
intransigenza  che  la  devozione  religiosa  continuava  a  tener  viva 
nello  spirito  dei  credenti»^''’.  Negli  anni  successivi,  la  festa  fu  ri¬ 
cordata  sempre  in  tono  minore,  finché  nel  1930,  dopo  una  serie 
di  puntigliose  polemiche  fra  Mussolini  e  il  Vaticano,  fu  sacrifica¬ 
ta  sull’altare  della  conciliazione,  e  venne  abolita^^. 


La  fascistizzazione  del  culto  della  patria 

Un  ruolo  centrale  nell’istituzione  del  culto  della  patria,  in  fun¬ 
zione  della  legittimazione  del  potere  fascista,  ebbe  soprattutto  la 
glorificazione  della  Grande  guerra,  con  i  riti  per  gli  anniversari  del¬ 
l’intervento  e  della  vittoria.  Giunto  al  potere,  il  fascismo  si  impegnò 
molto  per  sviluppare  il  mito  della  guerra,  trasfigurandola  in  una 

2''  Ivi,  telegramma  del  prefetto  di  Lucca,  8  giugno  1931. 

Ivi,  telegramma  del  prefetto  di  Messina,  7  giugno  1931. 

Al  di  sopra  delle  sette  e  dei  partiti,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  21  settembre 
1923.  Per  una  dettagliata  cronaca  delle  manifestazioni  cfr.  «L’Idea  nazionale», 
21  settembre  1923. 

27  Cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1928-1930,  fase.  3.3.3.  n.  4137;  ivi,  fase.  14.4 
n.  6735,  MAE,  Affari  politici,  1919-30,  S.  Sede,  b.  9,  fase.  «Abrogazione  della 
festività  del  20  settembre». 


II.  La  patria  in  camicia  nera 


67 


epopea  di  eroismo  e  di  martirio  consacrata  alla  divinità  della  patria. 
L’Italia  aveva  pagato  alla  storia  il  tributo  di  un  copioso  sacrificio  di 
sangue,  in  una  guerra  mondiale  che  aveva  legittimato  le  sue  aspira¬ 
zioni  di  grande  potenza.  E,  come  avevano  invocato  i  nazionalisti,  il 
Pantheon  della  sua  «storia  sacra»  si  arricchì  di  caduti,  di  eroi  e  di 
martirP^.  Il  3  novembre  fu  pubblicato  un  decreto  che  elevava  «a  di¬ 
gnità  di  monumenti  nazionali  le  località  dei  nostri  campi  di  batta¬ 
glia  che  più  sono  legati  alla  storia  per  immortali  fasti  di  eroismo  e 
di  sacrificio  [...]  capisaldi  sacri  all’epica  lotta»,  capaci  di  «riassu¬ 
mere  e  simboleggiare  in  sé  la  visione  genuina  della  guerra,  di  com¬ 
pendiarne  le  fattezze  eroiche,  di  incarnarne  il  tormento,  il  sacrificio 
e  l’apoteosi»^^.  Nella  sua  prima  riunione,  inoltre,  il  governo  Mus¬ 
solini,  su  proposta  del  presidente,  deliberò  di  celebrare  con  gran¬ 
de  solennità  il  4  novembre,  secondo  modalità  che  furono  conser¬ 
vate  per  i  successivi  anniversari,  senza  sostanziali  cambiamenti.  La 
mattina  del  4,  dopo  una  funzione  religiosa  nella  chiesa  di  S.  Maria 
degli  Angeli,  con  la  partecipazione  del  re  accompagnato  da  tutti  i 
grandi  ufficiali  dello  Stato,  i  membri  del  governo  e  il  presidente  si 
recarono  in  piazza  Venezia,  dove  furono  accolti  da  una  grande  fol¬ 
la.  Mussolini  e  i  membri  del  governo  salirono  fino  all’Altare  della 
patria  e  qui  resero  omaggio  al  Milite  Ignoto  sostando  per  un  minu¬ 
to  in  ginocchio.  Il  gesto  fu  giudicato  teatrale  da  qualche  osservato¬ 
re  straniero,  ma  l’importanza  del  suo  significato  simbolico,  come 
espressione  del  misticismo  politico  fascista,  non  fu  trascurata^®. 


28  pgj.  quadro  sommario  dei  provvedimenti,  cfr.  Camera  dei  deputati, 
Legislatura  XXVII,  La  legislazione  fascista  1922-1928,  cit.,  pp.  574-588. 

2^  Dalla  relazione  che  accompagna  lo  schema  del  decreto  legge,  cit.  in  G.A. 
Chiurco,  Storia  della  rivoluzione  fascista,  voi.  V,  parte  II,  Firenze  1929,  p.  266. 

Cfr.  F.  Charles-Roux,  Souvenirs  diplomatiques.  Une  grande  ambassade  à 
Rome  (1919-1925),  Parigi  1961,  pp.  192-193.  In  un  rapporto  del  2  novembre 
1922  al  suo  governo  Charles-Roux,  incaricato  d’affari  dell’ambasciata  francese 
a  Roma,  aveva  osservato  a  proposito  di  Mussolini  e  del  fascismo:  «Le  levier 
dont  il  s’est  servi  pour  préparer  et  faire  son  insurrection  est  le  patriotisme;  une 
sorte  de  sentiment  religieux  de  la  patrie,  qu’il  affirmera  encore  dans  une  ma- 
nifestation  annoncée  pour  le  4  novembre,  anniversaire  de  l’armistice.  Il  y  fera 
encore  appel  dans  la  suite  pour  entretenir  dans  l’opinion  publique  en  général 
les  sympathies  nombreuses  qu’il  a  éveillées  et  que  son  succès  a  fortifiées. 

Son  patriotisme  est  de  nature  exaltée,  je  dirai  méme  immodérée  dans  la 
masse  fasciste.  Le  sens  de  responsabilités  ne  le  tempère  que  chez  M.  Mussoli¬ 
ni  lui-méme  et  dans  les  éléments  non  fascistes  qui  sont  venus  à  lui  et  coopè- 
rent  maintenant  avec  lui»  (Archives  Ministère  des  Affaires  Étrangères,  Paris, 
Europe  1918-1940,  Italie,  voi.  62). 


68 


Il  culto  del  littorio 


Sei  mesi  più  tardi,  Tanniversario  dell’entrata  in  guerra  fu  ce¬ 
lebrato  con  eguale  solennità  nella  capitale  e  nelle  altre  città  con 
la  partecipazione  delle  forze  armate,  dalle  associazioni  dei  com¬ 
battenti,  dei  mutilati,  degli  invalidi,  delle  madri  dei  caduti,  delle 
vedove  e  degli  orfani  di  guerra,  e  naturalmente  del  partito  fasci¬ 
sta.  Ovunque  la  ricorrenza  fu  festeggiata  con  imbandieramento 
di  edifici  pubblici  e  privati,  cerimonie  e  cortei  accompagnati  da 
bande  al  canto  di  inni  patriottici,  che  si  concludevano  spesso  con 
l’inaugurazione  di  un  monumento  o  una  lapide  ai  caduti,  e  con 
orazioni  inneggianti  alla  patria  risorta  e  al  nuovo  governo  nazio¬ 
nale.  Mussolini  si  recò  in  «sacro  pellegrinaggio»^^  al  cimitero  di 
Redipuglia,  dove  partecipò,  con  membri  del  governo  ed  alti  uf¬ 
ficiali  dell’esercito,  ad  una  grande  adunata  di  reduci.  Il  duca 
d’Aosta,  dopo  la  funzione  religiosa,  evocò  «la  gloriosa  epopea  del 
grande  riscatto»  e  i  «primi  Eroi»  che  avevano  consacrato  la  vita 
«sulla  forca  d’Asburgo,  simbolo  del  martirio  redentore  nella  re¬ 
ligione  d’Italia,  come  la  croce  nella  religione  di  Cristo»;  ricordò 
il  martirio  di  sangue  nelle  battaglie,  il  «Golgota  tremendo»  di  Ca- 
poretto,  e  quindi  la  resurrezione  deir«Italia  crocefissa»  fino  alla 
vittoria.  Concluse  con  un’invocazione  ai  «martiri  sublimi»,  ai 
«purissimi  Eroi»,  ai  «Santi  del  Carso»  di  vegliare  sulla  patria 
«sempre  fiammeggiante  di  avvenire  e  di  gloria»^^. 

L’immagine  della  resurrezione,  legata  al  culto  della  Grande 
guerra,  era  comune  nella  retorica  patriottica,  ma  essa  acquistò  un 
particolare  significato  nella  fascistizzazione  del  mito  della  guer¬ 
ra,  diventando  mito  di  fondazione  nell’universo  simbolico  fasci¬ 
sta  sia  per  quanto  riguarda  gli  aspetti  rituali  del  culto  del  litto¬ 
rio,  sia  per  quanto  riguarda  gli  aspetti  epici,  sviluppati  nella  in¬ 
venzione  di  una  «storia  sacra»  per  la  religione  fascista.  Facendo 
ricorso  ad  analoghe  metafore  cristologiche,  infatti,  il  fascismo 
esaltò  l’intervento  presentandolo  come  l’atto  voluto  e  imposto  da 
una  «aristocrazia  morale  e  spirituale  del  popolo»  insorta  a  recla¬ 
mare  «la  propria  croce  per  salire  il  calvario  della  redenzione»^^. 
Di  questa  aristocrazia,  il  fascismo  si  proclamava  principale  espres- 

Il  sacro  pellegrinaggio,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  24  maggio  1923. 

La  commovente  adunata  di  Redipuglia,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  25  mag¬ 
gio  1923. 

Celebrazioni,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  24  maggio  1923. 


Fig.  4.  Mussolini  dinanzi  alla  tomba  del  Milite  Ignoto. 


70 


Il  culto  del  littorio 


sione,  unico  erede  e  legittimo  rappresentante.  Il  24  maggio,  scri¬ 
veva  «Il  Popolo  d’Italia»,  «che  nessun  Governo  aveva  finora  osa¬ 
to  celebrare,  è  la  data  folgorante  che  segna  il  limitare  della  nuo¬ 
va  vita,  e  sta  nitidamente  tra  due  periodi,  due  epoche,  due  mon¬ 
di  di  là  comincia  il  dissidio  intimo  e  profondo  tra  la  vecchia 
e  la  nuova  Italia»,  è  la  «giornata  gloriosa  delhinterventismo  ita¬ 
liano,  è  la  magnifica  epifania  dell’anima  nuova»^-*,  che  la  rivolu¬ 
zione  fascista  aveva  fatto  trionfare. 

Un’intepretazione  analoga  venne  data  per  l’anniversario  del¬ 
la  Vittoria,  celebrato  nel  1923  con  eguale  solennità  dell’anno  pre¬ 
cedente,  in  coincidenza  con  la  celebrazione  della  «marcia  su  Ro¬ 
ma»  per  il  primo  anno  di  governo  fascista:  la  crescente  parteci¬ 
pazione  della  popolazione  alle  feste  della  Grande  guerra,  affer¬ 
mava  l’organo  mussoliniano,  testimoniava  una  «ripresa  di  senti¬ 
mento  patriottico  [...]  annualmente  segnata,  dosata,  dall’affer- 
marsi  e  dall’ingigantire  del  moto  fascista,  unico  e  solo  artefice 
della  ricreata  e  ritrovata  coscienza  nazionale  del  popolo  italia- 
no»^^. 

I  motivi  della  fascistizzazione  del  culto  della  patria,  avviato  con 
i  riti  per  la  Grande  guerra,  sono  attribuibili,  in  parte,  alla  natura 
stessa  della  religione  fascista,  che,  per  il  suo  carattere  sincretico  e 
totalitario,  mirava  ad  assimilare  i  movimenti  patriottici  affini,  co¬ 
me  il  combattentismo,  l’arditismo  e  il  fiumanesimo,  imprimendo¬ 
vi  il  marchio  del  littorio.  Ma  vi  furono  anche  motivi  di  necessità 
politica:  il  culto  della  patria,  per  il  fascismo,  era  un’arma  fonda- 
mentale  per  la  conquista  del  consenso,  ma  era  anche  un’arma  che 
il  patriottismo  antifascista  adoperava  per  minare  le  basi  del  con¬ 
senso  al  governo  Mussolini,  contestando  al  partito  fascista  la  pre¬ 
tesa  di  essere  l’unico  depositario  dei  valori  combattentistici,  e  l’u¬ 
nico  interprete  della  nazione.  Fra  il  1923  e  il  1925,  gli  anniversari 
della  Grande  guerra  furono  occasione  per  tensioni  e  scontri  fra  op¬ 
poste  concezioni  della  patria,  come  era  già  accaduto  nell’Italia  del 
postrisorgimento.  Per  il  fascismo,  conquistare  il  monopolio  del 
culto  della  patria  significava  contenderne  la  celebrazione  ai  movi¬ 
menti  combattentistici  antifascisti,  che  potevano  egualmente  e  a 
giusto  titolo  reclamare  il  diritto  di  essere  legittimi  custodi  del  mi- 


Ibid. 

Cinque  anni  dopo! ,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  6  novembre  1923. 


IL  La  patria  in  camicia  nera 


71 


to  della  guerra  e  della  «religione  della  patria»^^’.  Con  questi  grup¬ 
pi,  il  fascismo  al  potere  ingaggiò  una  nuova  guerra  di  simboli  e  ri¬ 
ti  che  ebbe  il  suo  momento  culminante  durante  le  manifestazioni 
per  il  4  novembre  1924^^.  In  molte  città  le  celebrazioni  ufficiali  fu¬ 
rono  contestate  da  controdimostrazioni  dei  combattenti  antifasci¬ 
sti,  come  quelle  promosse  dall’associazione  «Italia  Libera»,  che 
provocarono  incidenti  soprattutto  nella  capitale^*. 

Con  l’instaurazione  del  regime  di  partito  e  l’eliminazione  delle 
opposizioni,  il  rischio  dell’antagonismo  scomparve.  Per  l’anniver¬ 
sario  della  Vittoria,  nel  1925,  fu  predisposto  un  rigoroso  servizio 
di  vigilanza  sui  «cosiddetti  combattenti  dissidenti  residui  dei  dis¬ 
solti  partiti  di  opposizione,  per  prevenire  ed  eventualmente  impe¬ 
dire  che  possano  inscenare  manifestazioni  di  piazza,  in  contrasto 
con  le  cerimonie  ufficiali  e  con  quelle  organizzate  dalle  associa¬ 
zioni  nazionali  dei  combattenti  e  dei  mutilati»^^.  Inoltre,  fascistiz¬ 
zati  i  vertici  delle  associazioni  combattentistiche,  si  potè  procede¬ 
re  senza  ostacoli  alla  incorporazione  dei  riti  della  «patria  risorta» 
nel  culto  del  littorio,  anche  se  alle  associazioni  della  Grande  guer¬ 
ra  fu  lasciato  il  posto  d’onore  nelle  cerimonie,  con  una  parte  prin- 


È  possibile  seguire,  proprio  in  questo  periodo,  la  strategia  del  fascismo  per 
la  conquista  dell’universo  simbolico  patriottico,  attuata  non  solo  attraverso 
un’interpretazione  tutta  fascista  degli  eventi,  ma  mettendo  in  pratica  un  azione 
preordinata  per  assicurare  al  partito  fascista  l’egemonia  nelle  manifestazioni  pa¬ 
triottiche.  Per  esempio,  in  occasione  della  solennità  civile  del  16  marzo  1924,  per 
celebrare  l’annessione  di  Fiume,  Mussolini  diede  disposizioni  ai  prefetti  di  cura¬ 
re  l’organizzazione  dei  festeggiamenti  promuovendo  nei  centri  più  importanti 
«ed  ove  è  possibile  manifestazioni  popolari  (cortei,  comizi  ecc.)  delle  quali  sa¬ 
rebbe  bene  prendessero  l’iniziativa  le  amministrazioni  comunali  fasciste  oppure 
i  fasci,  d’intesa  possibilmente  con  le  associazioni  combattenti  e  mutilati»  e  con  la 
partecipazione  di  «rappresentanti  i  Corpi  armati  (Esercito  Marina  Aeronautica 
Milizia  volontaria  Sicurezza  Nazionale)  che  hanno  sede  sul  posto»  facendo  inol¬ 
tre  montare  a  turno,  da  questi  corpi,  la  guardia  d’onore  ai  monumenti  e  alle  la¬ 
pidi  ai  caduti  (ACS,  PCM,  Gabinetto,  1924,  fase.  2.4.2  n.  396). 

Per  l’organizzazione  delle  manifestazioni,  governo  e  partito  si  impegna¬ 
rono  in  modo  da  assicurare  la  massima  presenza  fascista.  Mussolini  volle  assi¬ 
curarsi  anche  la  partecipazione  del  re  alle  cerimonie.  Cfr.  ACS,  PCM,  Gabi¬ 
netto  1924,  fase.  2.4.1  n.  2709. 

Cfr.  L.  Zani,  Italia  libera,  Roma-Bari  1975,  pp.  102-103;  «Il  Popolo  d  I- 
talia»,  5  e  6  novembre  1924.  Il  giornale  definì  «profanatori  del  Mito»  gli  or¬ 
ganizzatori,  fra  i  quali  vi  erano  i  fratelli  Peppino  e  Sante  Garibaldi,  della  con¬ 
tromanifestazione  romana,  che  si  svolse  anche  all  insegna  del  garibaldinismo. 

ACS,  MI,  DGPS,  1925,  cat.  C4,  b.  98,  disposizione  della  questura  di  Ro¬ 
ma,  2  novembre  1925.  Analoghe  misure  furono  prese  negli  anni  successivi. 


72 


li  culto  del  littorio 


cipale  nell’organizzazione  delle  manifestazioni.  Nel  1927,  per  il  24 
maggio,  il  partito  non  prese  alcuna  iniziativa,  lasciando  l’organiz¬ 
zazione  delle  celebrazioni  all’associazione  dei  combattenti-^^.  La 
celebrazione,  si  legge  nelle  disposizioni  della  questura  di  Roma  per 
l’ordine  pubblico,  «trova  quest’anno  unite  e  concordi  tutte  le  for¬ 
ze  vive  del  Paese,  perfetta  essendo  ormai  la  fusione  di  animi  e  di 
intenti  fra  i  Fasci  di  combattimento  e  le  associazioni  dei  combat¬ 
tenti,  dei  mutilati  e  dei  volontari,  di  fronte  alla  grande  opera  di  rin¬ 
novamento  compiuta  dal  Governo  Nazionale»-*^  Le  cerimonie 
nella  capitale  culminarono  con  l’omaggio  che  combattenti,  muti¬ 
lati  e  invalidi  resero  al  segretario  del  partito  fascista,  e  con  l’atto  di 
devozione  e  di  fedeltà  al  duce  e  al  regime.  Alla  fascistizzazione  dei 
riti,  corrispose  la  fascistizzazione  definitiva  della  storia;  le  «radio¬ 
se  giornate»  divennero  «l’origine  e  la  prima  affermazione  di  quel¬ 
la  volontà  rivoluzionaria  che  doveva  condurre  allo  spodestamen¬ 
to  del  vecchio  regime  e  all’avvento  al  potere  della  nuova  genera¬ 
zione  italiana  [...]  i  maggiori  protagonisti  dell’intervento  sono  in 
gran  parte  i  capi  del  Fascismo  e  della  Nazione,  da  Benito  Musso¬ 
lini  ai  suoi  collaboratori»-^^.  Nella  mitologia  fascista.  Mussolini  as¬ 
surse  a  principale  protagonista  e  artefice  dell’intervento  e  della  vit¬ 
toria,  e  quindi  a  capo  indiscusso  dei  combattenti.  Nel  1930,  l’in¬ 
corporazione  del  rito  del  24  maggio  nel  culto  del  littorio  fu  sanci¬ 
ta  a  Milano  con  una  grande  adunata  nazionale  di  combattenti,  mu¬ 
tilati  e  invalidi.  Mussolini,  dopo  aver  acceso,  con  gesto  sacerdota¬ 
le,  la  fiamma  sacra  sull’ara  nel  «tempio  dei  caduti»  ricevette  dal 
presidente  dei  mutilati  Carlo  Delcroix  il  «Bastone  del  comando» 
come  «premio  della  riconoscenza  al  Restauratore  della  Patria»; 
«Nel  consegnarvelo  -  disse  l’oratore  -,  noi  intendiamo  riconosce¬ 
re  che  sta  a  voi  comandare  e  a  noi  di  ubbidire»*^^. 

Cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1927,  fase.  2.4.1  n.  2033. 

■*'  Ibid. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  25  maggio  1931. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  23  maggio  1930.  Nel  1932,  in  occasione  del  XVII  an¬ 
niversario  dell’intervento,  «Il  Popolo  d’Italia»  scriveva  che  la  celebrazione  non 
era  «soltanto  la  rievocazione  dell’entrata  in  guerra  dell’Italia:  nella  coscienza  del 
popolo  ormai  il  24  maggio,  data  fatidica,  rappresenta  anche  l’origine  prima  del¬ 
la  Rivoluzione  Fascista  e  l’inizio  di  una  nuova  storia  per  l’Italia»,  perché  l’inter¬ 
vento  «fu  infatti  la  prima  manifestazione  rivoluzionaria  con  la  quale  il  popolo  ita¬ 
liano  affermò  la  sua  nuova  volontà  di  potenza  e  di  liberazione  dal  vecchio  regi¬ 
me  politico»  (Le  cerimonie  odierne,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  24  maggio  1932). 


IL  La  patria  in  camicia  nera 


73 


La  stessa  sorte  toccò  alla  festa  del  4  novembre  che,  grazie  alla 
contiguità  con  l’anniversario  della  «marcia  su  Roma»,  si  prestava 
facilmente  ad  essere  assimilata  a  quest’ultima,  come  altra  data  de¬ 
cisiva  della  rivoluzione  fascista,  perché,  affermava  «Il  Popolo  d’I¬ 
talia»  nel  1924,  il  fascismo  «prese  il  potere  per  la  delega  e  la  procu¬ 
ra  dei  combattenti,  vivi  e  morti»  e  «vuole  continuare  a  governare  in 
nome  di  questa  sublime  investitura.  Benito  Mussolini  è  l’uomo,  il 
quale  [...]  restaurò  il  tempio  dell’Italia  profanata»*^-^.  Instaurato  il 
regime,  la  festa  conservò  il  carattere  di  celebrazione  del  combat¬ 
tentismo,  ma  alla  rievocazione  della  Vittoria  si  affiancò,  e  sempre 
più  si  sovrappose,  il  rito  di  una  collettiva  manifestazione  di  dedi¬ 
zione  e  di  obbedienza  al  duce  e  al  fascismo,  anche  se  l’incorpora¬ 
zione  di  questa  festa  nel  culto  del  littorio  dovette  esigere  all’inizio 
una  certa  cautela,  per  non  riaccendere  tensioni  fra  combattenti  e  fa- 
scistP^.  Per  gli  anniversari  del  28  ottobre  e  del  4  novembre  del  1930, 
tutte  le  associazioni  della  Grande  guerra  diramarono  una  dichiara¬ 
zione  congiunta  che  sanciva  l’avvenuta  assimilazione  delle  due  ri¬ 
correnze;  «Uniti  nell’amore  che  è  fede  noi  salutiamo  ogni  anno  le 
due  date  di  gloria;  l’una  illumina  l’altra,  ché  entrambe  ci  annunzia¬ 
rono  il  magnanimo  presente  con  le  sue  dure  fatiche»"^*^.  Nel  1930, 
le  cerimonie  furono  dominate  dal  rito  del  giuramento  dei  giovani 
iscritti  ai  Fasci  giovanili,  da  poco  costituiti.  Anche  per  il  4  novem¬ 
bre,  dunque,  l’incorporazione  era  stata  compiuta; 

stamane  -  riferiva  il  prefetto  di  Modena  il  4  novembre  1930  -  dopo 
celebrazione  messa  tempio  monumentale  questo  capoluogo  in  me¬ 
moria  caduti  guerra  autorità  civili  militari  gerarchi  convennero  pa¬ 
lazzo  Littorio  per  deporre  corona  lapide  ricordante  caduti  fascisti  et 
per  assistere  giuramento  giovani  fascisti  stop  formatosi  poscia  impo¬ 
nentissimo  corteo  con  partecipanti  autorità  fasci  organizzazioni  Par¬ 
tito  et  numerosissimo  pubblico  stop  corteo  deposto  altre  corone  la¬ 
pidario  accademia  militare  recossi  monunlento  caduti  guerra  per 
ascoltare  orazione  commemorativa."*^ 


Il  giorno  sacro,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  4  novembre  1924. 

Su  alcuni  casi  di  tensione  nel  1925,  cfr.  ACS,  MI,  DGPS,  1925,  cat.  C4, 
b.  98,  telegrammi  del  prefetto  di  Potenza  e  del  prefetto  di  Venezia,  4  novem¬ 
bre  1925. 

46  ACS,  MI,  DGPS,  1930-1931,  cat.  C4,  b.  372,  circolare  dell’ANC  n. 
24219,  23  ottobre  1930. 

47  Ibid. 


ì 


74 


Il  culto  del  littorio 


Col  passare  degli  anni,  ai  riti  della  «patria  risorta»  si  sovrappo¬ 
se  sempre  più  il  simbolismo  fascista.  Le  cerimonie  associavano  in 
molti  casi,  in  un  unico  rito,  il  culto  dei  caduti  per  la  patria  e  il  cul¬ 
to  dei  caduti  per  la  rivoluzione  fascista.  Parlando  ad  Enna  per  l’an- 
niversario  della  Vittoria,  nel  1932,  in  occasione  dell’inaugurazione 
del  monumento  ai  caduti,  il  sottosegretario  Ruggero  Romano  po¬ 
se  «in  rilievo  come  nel  decennale  del  Regime  i  Caduti  della  Guer¬ 
ra  e  della  Rivoluzione  siano  tornati  ravvolti  nello  stesso  tricolo- 
re»‘^^.  Il  partito,  inoltre,  estese  il  suo  controllo  sull’apparato  cele¬ 
brativo,  fissando  le  modalità  delle  cerimonie.  La  formalizzazione 
rituale  tipica  degli  anniversari  della  Grande  guerra,  dopo  l’incor¬ 
porazione  nel  culto  del  littorio,  è  descritta  sinteticamente  nella  re¬ 
lazione  del  prefetto  di  Padova  del  4  novembre  1932: 

Ricorrenza  anniversario  vittoria  con  intervento  organizzazioni  svol¬ 
tasi  tutti  comuni  provincia  con  grande  entusiasmo  e  senza  incidenti. 
Questo  capoluogo  dopo  messa  celebrata  stamane  Duomo,  presenti  au¬ 
torità  civili  e  militari  organizzazioni  partito,  reparti  armati  e  rappre¬ 
sentanze  combattenti  e  mutilati  convenute  da  tutti  comuni  provincia, 
formatosi  imponente  corteo  che  si  è  recato  monumento  caduti  per  de¬ 
porre  corone  e  assistere  benedizione  impartita  S.E.  Arcivescovo. 

Corteo  ricostituitosi  ha  poscia  raggiunto  al  canto  inni  patriottici 
parco  Rimembranze  ove  sono  stati  letti  fra  grandi  applausi  bollettino 
vittoria  bollettino  Marina  e  motivazione  concessione  croce  guerra 
questa  città.  Pomeriggio  oggi  questo  teatro  comunale  presente  auto¬ 
rità  associazioni  organizzazioni  e  gremito  pubblico  presente  questa  fe¬ 
derazione  combattenti  ha  efficacemente  rievocato  data  vittoria  susci¬ 
tando  entusiastiche  appassionate  manifestazioni  consenso  e  devozio¬ 
ne  Casa  Savoia  Duce  e  Regime."*^ 


Il  simbolo  della  nuova  era 

La  istituzione  del  culto  della  patria,  incentrato  sulla  glorifica¬ 
zione  della  guerra,  servì  a  preparare  l’ambiente  per  instaurare  il 
culto  del  littorio  come  liturgia  di  Stato.  Giunto  al  potere,  il  fasci- 

ACS,  MI,  DGPS,  1932,  cat.  C4,  sezione  2a.  b.  58,  telegramma  del  pre¬ 
fetto  di  Enna,  4  novembre  1932. 

Ibid. 


Fig.  5.  Mussolini,  i  gerarchi  e  i  membri  del  governo  alla  tomba  del 
Milite  Ignoto  il  4  novembre  1937  («La  Rivista  illustrata  del  Popolo 
d’Italia»,  novembre  1937). 


76 


Il  culto  del  littorio 


smo  accelerò  la  simbiosi  fra  la  religione  nazionale  e  la  religione  fa¬ 
scista,  avviata  dallo  squadrismo,  e  per  rendere  percepibile  imme¬ 
diatamente,  per  simboli,  il  significato  irrevocabile  e  rivoluzionario 
del  cambiamento  di  governo  avvenuto  con  la  «marcia  su  Roma», 
iniziò  con  la  fascistizzazione  della  simbologia  dello  Stato. 

Alcune  settimane  dopo  la  formazione  del  governo  presieduto 
da  Benito  Mussolini,  sorse  fra  i  suoi  collaboratori  l’idea  di  cele¬ 
brare  l’avvenimento  con  un  atto  simbolico.  Nella  seconda  metà 
di  dicembre,  pervenne  a  Giacomo  Acerbo,  sottosegretario  alla 
Presidenza  del  consiglio,  la  proposta  di  «interessare  Mussolini 
perché  costituisca  sin  da  ora  un  segno  imperituro  avvento  del 
fascismo  al  potere»,  suggerendo  in  tal  senso  un  «impronta  speciale 
da  darsi  ad  una  moneta  di  circolazione  normale»  in  sostituzione 
della  spiga  o  del  fiore  con  l’ape,  simboli  delle  monete  in  corso. 
Acerbo  trasmise  la  proposta  ad  Alberto  De  Stefani,  ministro  del¬ 
le  Finanze,  il  22  dicembre,  con  la  preghiera  di  «promuovere  al 
riguardo  gli  opportuni  provvedimenti»,  perché  il  presidente  l’a¬ 
veva  «eminentemente  gradita  ed  approvata»  per  «il  suo  speciale 
significato».  Il  ministro,  due  giorni  dopo,  scriveva  direttamente 
a  Mussolini  dicendosi  «lieto  di  aver  potuto  prevenire  un  deside¬ 
rio  dell’E.V.»,  perché  egli  stesso  aveva  «già  da  alcuni  giorni  di¬ 
sposto  che  fossero  preparati  i  punzoni  per  le  nuove  monete  [...] 
recanti  inciso  il  fascio  littorio,  simbolo  di  Roma  antica  e  della 
nuova  Italia»^^’.  La  proposta,  preannunciata  il  27  dicembre  dal 
«Popolo  d’Italia»,  fu  presentata  da  Mussolini  al  Consiglio  dei  mi¬ 
nistri  e  approvata  nella  riunione  del  T  gennaio  1923^^  Con  un 
regio  decreto  legge  del  21  gennaio,  fu  quindi  disposta  remissio¬ 
ne  di  100  milioni  di  lire  in  pezzi  di  nichelio  puro  del  valore  no¬ 
minale  di  lire  una  e  di  lire  due,  recanti  da  un  lato  l’effigie  del  re 
e  dall’altra  il  fascio  littorio.  Margherita  Sarfatti,  critica  d’arte  do¬ 
tata  di  notevole  sensibilità  per  l’estetica  della  propaganda  e  per 
l’importanza  politica  dei  simboli,  rivolse  un  pubblico  appello  al 
presidente  del  Consiglio  invitandolo  ad  affidare  al  sottosegreta¬ 
rio  per  le  Belle  Arti  l’incarico  di  definire  «la  impronta,  il  modo 
e  la  forma»  del  fascio  «suUe  monete  della  nuova  Italia»,  perché 
la  moneta  era  «arma  potentissima  per  la  diffusione  del  senso  del- 


ACS,  PCM,  Gabinetto,  1922,  fase.  9.8  n.  3143. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  27  dicembre  1922  e  2  gennaio  1923. 


II.  La  patria  in  camicia  nera 


77 


la  bellezza»  e  «umile  agente  di  propaganda  che  penetra  ovunque, 
passa  per  ogni  mano,  aU’interno  e  all’estero,  dice  a  tutti  e  rap¬ 
presenta  per  tutti  l’Italia».  Il  nuovo  simbolo  doveva  «avere  una 
interpretazione  di  autorità  e  di  bellezza  degne»  per  proclamare 
«alto  nei  secoli,  di  sotto  la  zolla  frugata,  la  gloria  di  Roma  impe¬ 
ritura»;  fra  «venti  secoli,  l’ignaro  contadino  che  arando  troverà 
nel  gesto  millenario  un  dischetto  confuso  tra  la  terra  bruna,  ri¬ 
pulendolo,  trovi  il  nome  augusto  del  Re  e  il  simbolo  del  Fascio, 
che  rinverdisce  per  opera  e  onore  di  Benito  Mussolini,  impressi 
in  suggello  di  bellezza  e  di  sovrana  nobiltà»^^. 

Il  fascino  della  gloria  futura,  evocata  dalla  scrittrice  che  co¬ 
nosceva  bene  l’intima  ambizione  del  duce,  il  quale  le  aveva  con¬ 
fidato  di  essere  posseduto  dalla  smania  di  «incidere,  con  la  [sua] 
volontà,  un  segno  nel  tempo»^^,  non  poteva  certo  lasciare  indif¬ 
ferente  Mussolini.  L’incarico  di  ricostruire  Timmagine  del  fascio 
littorio  nella  sua  originale  versione  romana  fu  affidato  al  senato¬ 
re  Giacomo  Boni,  illustre  archeologo  che  dirigeva  gli  scavi  nel 
Foro  e  sul  Palatino.  La  figurazione  della  moneta  fu  studiata  con 
cura  speciale,  per  il  «significato  simbolico  del  fascio,  il  quale  non 
è  solamente  un  simbolo  di  forza  e  di  dominio,  ma  aveva  anche 
un  profondo  significato  religioso»^-^.  Mussolini  scelse  il  modello 
raffigurante  un  fascio  di  verghe  con  una  scure  collocata  lateral¬ 
mente.  Questa  rappresentazione  era  considerata  fedele  alla  sim¬ 
bologia  romana,  invece  deir«aspetto  arbitrario»  e  delle  «defor¬ 
mazioni»  che  il  simbolo  aveva  subito  nella  foggia  diffusa  dalla  ri¬ 
voluzione  francese  e  da  questa  passata  poi  nella  simbologia  ri¬ 
sorgimentale,  cioè  con  una  scure  o  un’alabarda,  sormontata  da 
un  cappello  frigio,  in  cima  alle  verghe^^. 

L’adozione  del  fascio  nelle  monete  non  rimase  un  episodio 
isolato,  dovuto  all’iniziativa  occasionale  di  qualche  zelante  colla¬ 
boratore  del  duce.  Lo  stesso  Mussolini,  secondo  quanto  scriveva 
«Il  Popolo  d’Italia»  del  14  novembre  1922,  aveva  voluto  far  in- 

Il  Fascio  romano  simbolo  dello  Stato  sulle  nuove  monete,  in  «Il  Popolo 
d’Italia»,  13  gennaio  1923.  Cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1923,  fase.  9.8  n.  1379. 

M.  Sarfatti,  D«x,  Milano  1930,  p.  314. 

Cfr.  Il  simbolo  del  Fascio  Romano  ricostituito  nella  sua  storica  realtà  dal 
Sen.  Boni,  in  «Il  Giornale  di  Roma»,  3  aprile  1923;  L.  Falchi,  Le  origini  del  Fa¬ 
scio  littorio,  ivi,  12  aprile  1923. 

”  I  colori  di  Roma,  in  «Il  Giornale  d’Italia»,  21  ottobre  1923. 


78 


Il  culto  del  littorio 


cidere  il  simbolo  del  fascio  nel  sigillo  di  ministro  degli  Esteri.  Po¬ 
chi  mesi  dopo,  i  giornali  annunciarono  l’emissione  di  una  serie 
speciale  di  francobolli  recanti  il  simbolo  del  littorio,  dedicati  al¬ 
la  commemorazione  deir«ascesa  del  Governo  nazionale»^^.  E  il 
21  ottobre  la  «Gazzetta  ufficiale»  pubblicò  il  decreto  con  cui  ve¬ 
nivano  «istituite  monete  nazionali  d’oro  commemorative  della 
Marcia  fascista  per  l’instaurazione  del  Governo  nazionale»,  nei 
tagli  di  L.  100  e  di  L.  20,  con  l’effigie  del  re  da  un  lato,  e  dal¬ 
l’altro  il  fascio  littorio  «recante  la  scure  completa  a  destra  orna¬ 
ta  di  una  testa  di  ariete». 

Il  fascio  littorio  venne  così  introdotto  ufficialmente  nell’ico¬ 
nografia  dello  Stato  italiano,  e  non  bastava  certo  il  richiamo  alla 
romanità  per  attenuare  il  carattere  prettamente  di  partito  che 
l’emblema  del  littorio  aveva  assunto  con  il  fascismo.  Anche  il  par¬ 
tito  fascista,  che  aveva  per  insegna  il  fascio  nella  foggia  risorgi¬ 
mentale,  cominciò  ad  adottare  la  versione  romana,  per  depurare 
il  suo  simbolo  da  qualsiasi  ascendenza  legata  a  ideali  di  libertà. 
Per  il  fascismo  al  potere,  l’emblema  del  littorio,  simbolo  di  unità, 
di  forza,  di  disciplina  e  di  giustizia,  aveva  un  significato  religio¬ 
so  come  simbolo  della  tradizione  sacra  della  romanità,  conside¬ 
rato  in  stretta  relazione  con  il  «culto  del  fuoco  sacro.  Le  verghe 
e  la  scure  sono  gli  elementi  necessari  e  sufficienti  per  alimentare 
un  focolare  e  per  poterlo  alla  occorrenza  difenderlo»^^.  Ma  esso 
era  soprattutto  il  simbolo  della  rivoluzione  fascista  e  della  resur¬ 
rezione  della  patria  per  opera  del  duce,  preannunciata  dalla 
«riapparizione  del  fascio  littorio»:  «Nei  tempi  fortunosi,  turbo¬ 
lenti  e  vili,  che  straziarono  la  nostra  patria  dopo  l’ultima  imma¬ 
ne  guerra  d’indipendenza,  più  che  da  un  servaggio  politico,  dal 
servaggio  spirituale  -  scrisse  un  pregiato  archeologo  dell’epoca  - 
il  fascio  littorio  fu  impugnato  eroicamente  da  un  Duce.  E  con 
questo  simbolo  e  con  questo  Duce  l’Italia  è  risorta»’^. 

Come  simbolo  della  rivoluzione  fascista,  l’immagine  del  fascio 
littorio  dilagò  ovunque,  fin  dal  1923,  per  esaltare  r«era  nuova» 
iniziata  con  l’avvento  del  fascismo  al  potere,  secondo  un’espres- 

56  I  nuovi  francobolli  col  Fascio,  in  «Il  Giornale  d’Italia»,  3  maggio  1923. 

57  Ij  nuova  serie  di  francobolli  commemorativi  dell’ascesa  del  governo  na¬ 
zionale,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  3  maggio  1923. 

5«  P.  Ducati,  Origine  e  attributi  del  fascio  littorio,  Bologna  1927. 


II.  La  patria  in  camicia  nera 


79 


sione  che  entrò  subito  in  voga.  Lo  troviamo,  per  esempio,  nella 
foggia  rivoluzionaria  sul  cippo  marmoreo,  che  segnava  l’inizio  dei 
lavori  per  l’autostrada  Milano-Laghi  recante  l’iscrizione:  «Re¬ 
gnando  Vittorio  Emanuele  III,  duce  del  governo  Benito  Musso- 
lini»5'^.  Nella  restaurata  versione  romana,  invece,  il  fascio  appare 
nella  medaglia  della  «Prima  mostra  romana  1923»,  sormontato 
dall’iscrizione  «Incipit  vita  nova»‘^°.  E  lo  ritroviamo  anche  fre¬ 
quentemente  usato  per  l’iconografia  pubblicitaria,  nelle  due  ver¬ 
sioni,  associato  all’idea  di  innovazione,  modernità,  giovinezza. 

La  consacrazione  ufficiale  della  foggia  romana  avvenne  con  l’a¬ 
scesa  del  fascio  nella  simbologia  dello  Stato,  che  accompagnò  la 
costruzione  del  nuovo  regime.  Con  una  circolare  del  1°  dicembre 
1925,  Mussolini  dispose  che  doveva  essere  collocato  su  tutti  gli 
edifici  ministeriali  il  fascio  littorio,  e  questa  disposizione  fu  estesa 
a  tutti  gli  uffici  governativi,  anche  provinciali,  l’anno  successivo, 
dopo  che  un  decreto  del  12  dicembre  1926  aveva  dichiarato  il  fa¬ 
scio  emblema  dello  Stato,  perché  nel  fascio  -  disse  il  deputato  Ver¬ 
di,  relatore  della  commissione  per  la  conversione  in  legge  del  de¬ 
creto  -  «si  riassume  il  culto  per  le  tradizioni  della  stirpe  e  si  espri¬ 
me  la  volontà  di  esserne  degni  in  una  nuova  Era  di  grandezza»^L 
Contemporaneamente  fu  bloccata  la  banalizzazione  del  simbolo, 
vietando  la  fabbricazione,  la  vendita  e  l’uso  di  distintivi  o  insegne 
col  fascio  littorio  senza  speciale  autorizzazione  delle  autorità  del 
governo  o  del  partito  fascista^’^  d^I  1°  marzo  1927,  per  disposi¬ 
zione  del  ministero  dell’Aeronautica,  il  fascio  littorio  fu  applicato 
a  tutti  gli  aeromobili  degli  enti  dipendenti'^^.  Pochi  giorni  dopo,  il 
27  marzo,  fu  decretato  che  l’emblema  del  fascio  doveva  essere  ac¬ 
collato  a  sinistra  dello  stemma  dello  Stato,  rappresentato  dallo  scu¬ 
do  di  Savoia.  Inoltre  Mussolini,  all’inizio  del  1928,  dispose  che  tut¬ 
ti  gli  stabili  delle  cooperative  edilizie  finanziate  dallo  Stato  dove- 


”  «L’Illustrazione  italiana»,  1°  aprile  1923. 

«Il  Giornale  d’Italia»,  4  aprile  1923. 

R.d.  12  dicembre  1926  n.  2061,  Atti  parlamentari,  Camera  dei  deputati. 
Legislatura  XXVII,  sessione  1924-27,  Documenti.  Disegni  di  Legge  e  relazio¬ 
ni,  n.  1189-A.  Cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1928-1930,  fase.  3.3.2  n.  1880  e  Ga¬ 
binetto,  1940-1943,  fase.  3.3.2  n.  552. 

R.d.l.  20  dicembre  1926,  n.  2273.  Cfr.  Ministero  dell’Interno,  Disposi¬ 
zioni  per  l’uso  dell’emblema  del  Fascio  littorio,  Roma  1927. 

Cfr.  PNF,  «Foglio  d’ordini»,  n.  26,  19  marzo  V  (1927). 


80 


Il  culto  del  littorio 


vano  recare  sulla  facciata  il  fascio.  E  ancora,  il  14  giugno  dello  stes¬ 
so  anno,  fu  dato  ulteriore  incremento  all’«uso  generalizzato  del¬ 
l’emblema  della  Rivoluzione  fascista»  come  espressione  del  «sen¬ 
timento  di  devozione  della  nazione  verso  il  simbolo  dell’idealità 
del  Regime»  secondo  quanto  affermava  una  circolare  della  Presi¬ 
denza  del  consiglio,  con  un  decreto  che  autorizzava  comuni,  pro¬ 
vince,  congregazioni  di  carità  ed  enti  parastatali  a  innalzare  sui  lo¬ 
ro  edifici  e  sulle  opere  da  loro  eseguite  il  fascio  littorio,  come  pu¬ 
re  a  fregiarne  i  sigilli  e  gli  atti  ufficiali^*’.  A  coronamento  di  questa 
ascesa,  il  governo  stabilì,  l’1 1  aprile  1929,  la  foggia  del  nuovo  stem¬ 
ma  dello  Stato,  sostituendo  con  due  fasci  i  leoni  di  sostegno  allo 
scudo  Savoia,  come  era  nello  stemma  in  vigore  dal  1890''’^. 


/  riti  della  rivoluzione 

L’ascesa  del  fascio  littorio  fra  i  simboli  dello  Stato  accompa¬ 
gnò  la  contemporanea  ascesa,  nella  sua  liturgia,  di  riti  che  cele¬ 
bravano  l’avvento  del  fascismo  al  potere  come  una  rivoluzione 
che  segnava  l’inizio  di  una  nuova  era.  Lo  stesso  termine  «regime 
fascista»,  entrato  nel  linguaggio  politico  dei  fascisti  come  degli 
antifascisti  all’indomani  della  «marcia  su  Roma»,  era  sintomo 
chiaro  che  il  governo  presieduto  dal  duce  del  fascismo  non  era 
un  governo  come  i  precedenti.  L’orientamento  totalitario  della 
religione  fascista,  implicito  nel  suo  dinamismo  missionario  e  in¬ 
tegralista,  non  si  espresse  soltanto  attraverso  la  monopolizzazio¬ 
ne  dei  riti  patriottici,  mettendo  al  bando  qualsiasi  altro  tipo  di  li¬ 
turgia  di  partito  contraria  al  fascismo^’*^’,  ma  si  concretizzò  so¬ 
prattutto  con  la  istituzione  di  riti  nazionali  fascisti,  come  l’anni¬ 
versario  della  fondazione  dei  Fasci  e  l’anniversario  della  «marcia 
su  Roma».  Accanto  alla  patria,  sugli  altari  il  rituale  fascista  col¬ 
locava  e  adorava  il  fascismo  stesso  -  e  il  suo  duce  -  assumendo 
col  tempo  una  dimensione  tale  che  finì  col  confondersi  con  il  cul¬ 
to  della  patria,  se  non  addirittura  col  sostituirsi  ad  esso. 

^  R.d.  14  giugno  1928;  cfr.  «Il  Popolo  d’Italia»,  16  settembre  1928. 

R.d.l.  11  aprile  1929,  n.  504. 

^  Il  divieto  colpì  soprattutto  la  festa  del  1°  maggio,  che  non  fu  consentito 
celebrare  neppure  in  forma  privata.  Cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1924  fase 
2.4.1  n.  1562. 


Fig.  6.  Il  nuovo  stemma  dello  Stato  italiano,  adottato  nel  1929. 


82 


Il  culto  del  littorio 


Attorno  all’evento  della  «marcia  su  Roma»  era  subito  fiorita 
una  varietà  di  iniziative  che  ne  volevano  esaltare  il  carattere  di  gran¬ 
de  evento  storico,  avviandolo  verso  una  trasfigurazione  epica.  Ab¬ 
biamo  già  visto  le  iniziative  ufficiali  per  quanto  riguarda  monete  e 
francobolli.  Nel  febbraio  del  1923  si  costituì  anche  un  comitato  na¬ 
zionale  presieduto  dal  sindaco  di  Roma  per  promuovere  l’erezio¬ 
ne  di  un  monumento  di  esaltazione  della  «marcia  su  Roma»^"^.  Lo 
stesso  Mussolini  deliberò  di  celebrare  il  primo  anno  dal  suo  av¬ 
vento  al  governo  in  forma  solenne  e  spettacolare.  Nulla,  ovvia¬ 
mente,  vietava  ai  fascisti  di  festeggiare  l’ascesa  al  potere  del  loro  du¬ 
ce.  Il  partito  predispose  una  serie  di  iniziative  per  l’occasione,  co¬ 
me  la  coniazione  di  una  medaglia  commemorativa,  con  relativo 
brevetto  firmato  da  Mussolini^^,  e  l’edizione  di  un  manifesto  uffi¬ 
ciale,  opera  del  pittore  Galimberti,  che  avrebbe  dovuto  esser  pos¬ 
seduto  da  ogni  iscritto  al  PNF  e  «conservato  nelle  case,  nelle  offi¬ 
cine,  negli  uffici,  nelle  scuole  e  nelle  caserme»^^.  E  carattere  di  par¬ 
tito  ebbe  l’organizzazione  delle  manifestazioni,  affidata  ad  una  ap¬ 
posita  commissione  dal  Gran  Consiglio  nella  seduta  del  13  luglio^®. 
Ma,  fatto  senza  precedenti  nella  storia  dei  governi  dell’Italia  unita, 
queste  celebrazioni  assunsero  il  carattere  di  una  festa  nazionale, 
con  la  partecipazione  del  governo  e  delle  autorità  civili  e  militari. 

Secondo  il  programma  predisposto  dalla  commissione  e  ap¬ 
provato  dal  duce,  furono  organizzati  quattro  giorni  di  festeg¬ 
giamenti,  dal  28  al  31  ottobre,  aperti  da  un  messaggio  di  Mus¬ 
solini  ai  fascisti  e  al  paese^h  Per  tutto  questo  periodo,  fu  di- 

«Il  Popolo  d’Italia»,  8  febbraio  1923. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  6  ottobre  1923.  La  medaglia,  di  cui  potevano  fre¬ 
giarsi  tutti  gli  iscritti  al  PNF  che  avevano  partecipato  alla  mobilitazione  della 
«marcia»,  aveva  su  un  lato  l’immagine  della  Vittoria  alata,  che  «nel  suo  volo 
luminoso  corona  l’idea  fatidica  degli  artefici  primi  della  Rivoluzione  fascista 
maturata  in  aspre  vigilie  ed  in  austere  battaglie  spirituali»,  e  sul  retro  la  iscri¬ 
zione;  «Marcia  su  Roma,  27  ottobre- T’  novembre  1922». 

ACS,  MRF,  b.  45,  fase.  114,  sottofasc.  141. 

Cfr.  PNF,  Il  Gran  consiglio  nei  primi  dieci  anni  dell’era  fascista,  Roma 
1933,  p.  64. 

Il  testo  inedito  del  «programma  schematico»  è  in  ACS,  MRF,  b.  50, 
fase.  121,  sottofasc.  3;  il  programma  ufficiale  fu  pubblicato  da  «Il  Popolo  d’I¬ 
talia»,  2  ottobre  1923.  Cfr.  anche  «Il  Popolo  d’Italia»  del  16,  19,  23  e  24  otto¬ 
bre  1923.  La  commissione  del  PNF  era  composta  da  De  Bono,  Bianchi,  Giun¬ 
ta,  Bastianini,  Marinelli  e  Freddi,  con  la  partecipazione  del  senatore  Filippo 
Cremonesi,  regio  commissario  di  Roma. 


II.  La  patria  in  camicia  nera 


83 


sposto  l’imbandieramento  degli  edifici  pubblici,  delle  caserme  e 
degli  edifici  militari,  ed  anche,  con  un  invito  alla  cittadinanza, 
degli  edifici  privati.  L’avvenimento  fu  rievocato  da  «grandiose 
cerimonie»  -  a  Milano,  Bologna,  Perugia  e  Roma  -  «ripercor¬ 
rendo  le  tappe  che  nelle  stesse  date  l’anno  scorso  furono  per¬ 
corse  dalla  trionfale  marcia  delle  camicie  nere».  La  mattina  del 
28  ottobre,  in  tutta  Italia  ci  fu  la  commemorazione  dei  «marti¬ 
ri  fascisti  caduti  in  tutto  il  periodo  della  Rivoluzione,  dal  1919 
ad  oggi»,  con  una  messa  da  campo  celebrata  alla  presenza  del¬ 
le  autorità  civili  e  militari,  della  milizia,  dei  fascisti  e  del  popo¬ 
lo.  La  commissione  aveva  suggerito  un  «eventuale  passo»  verso 
il  Vaticano  «per  evitare  qualche  rifiuto  da  parte  dei  parroci». 
Alla  commemorazione  furono  invitate  le  associazioni  dei  com¬ 
battenti,  dei  mutilati  e  delle  vedove  dei  caduti.  Lo  stesso  gior¬ 
no,  a  Milano,  Mussolini  passò  in  rivista  al  Parco  le  legioni  del¬ 
la  MVSN  che  prestarono  giuramento;  dopo  la  rivista,  si  formò 
un  corteo  che  sfilò  per  la  città  fino  a  piazza  Beigioioso,  dove 
Mussolini  aveva  tenuto  il  discorso  conclusivo  della  sfortunata 
campagna  elettorale  del  1919,  e  per  questo  era  divenuta  «sacra 
ormai  nella  storia  del  fascismo».  Così  la  definì  il  duce  nel  suo 
discorso,  in  cui  ribadì  la  fedeltà  alla  monarchia,  rivendicò  al  fa¬ 
scismo  il  merito  di  aver  ristabilito  il  rispetto  per  l’esercito  e  per 
la  religione.  Nello  stesso  tempo,  ammonì  minaccioso  gli  avver¬ 
sari  che  «indietro  non  si  torna»  ed  esaltò  la  forza  armata  della 
milizia  posta  a  salvaguardia  della  rivoluzione,  incitandola  a  te¬ 
nersi  pronta  per  «l’allarme  delle  grandi  giornate»^^.  Nel  pome¬ 
riggio,  Mussolini  presenziò  all’inaugurazione  della  nuova  Casa 
del  Fascio  di  Milano:  le  nostre  sedi,  disse,  devono  «essere  dei 
templi,  non  solo  delle  case,  devono  avere  linee  armoniose  e  pos¬ 
senti.  Quando  il  fascista  entra  nella  sede  del  suo  circolo,  deve 
entrare  in  una  casa  di  bellezza,  perché  siano  suscitate  in  lui  emo¬ 
zioni  di  forza,  di  potenza,  di  beltà  e  di  amore»"^^.  Il  29  le  cele¬ 
brazioni  si  spostarono  a  Bologna  dove  parlarono  Mussolini  e 
Acerbo,  che  illustrò  l’opera  legislativa  e  amministrativa  realizza¬ 
ta  nel  primo  anno  di  Governo  fascista;  nel  pomeriggio  ci  fu  l’i- 

B.  Mussolini,  Opera  Omnia,  a  cura  di  E.  e  D.  Susmel,  44  voli.,  Firenze 
1951-1963,  voi.  XX,  pp.  61-65. 

7’  Ivi,  pp.  66-67. 


84 


Il  culto  del  littorio 


naugurazione  della  Casa  del  Fascio.  Il  30,  la  celebrazione  si  svol¬ 
se  a  Perugia,  con  lo  scoprimento  di  una  lapide  all’albergo  Bru- 
fani,  sede  del  Quadrumvirato  durante  la  «marcia  su  Roma»;  il 
conferimento  della  cittadinanza  al  duce  e  ai  Quadrumviri  e,  an¬ 
cora,  un  discorso  di  Mussolini,  che  reiterò  le  minacce  agli  av¬ 
versari  e  gli  appelli  bellicosi  alla  milizia,  inneggiando  alla  roma¬ 
nità  e  alla  «divina  nostra  terra  protetta  da  tutti  gli  Iddii».  Mi¬ 
chele  Bianchi,  segretario  del  PNF,  annunciò  che  il  fascismo  non 
era  solo  fenomeno  di  «rinascita  nazionale»  ma  «il  segno  di  una 
nuova  civiltà  che  si  sperimenta  con  la  storia»"^*^.  Per  le  cerimo¬ 
nie  conclusive  del  31,  Mussolini  aveva  voluto  l’orario  ridotto  per 
la  mattina  negli  uffici  governativi,  la  sospensione  delle  udienze 
giudiziarie  e  vacanza  nelle  scuole  pubbliche.  Inoltre,  era  stato 
anche  disposto  l’imbandieramento  di  tutte  le  ambasciate  e  con¬ 
solati  italiani,  l’illuminazione  di  tutti  gli  edifici  pubblici,  l’innal¬ 
zamento  del  gran  pavese  su  tutte  le  navi  italiane,  nei  porti  d’I¬ 
talia  e  all’estero.  La  capitale  fu  lo  scenario  per  il  culmine  delle 
celebrazioni:  la  mattina,  mentre  nel  cielo  di  Roma  volavano  cen¬ 
tinaia  di  aerei,  un  imponente  corteo  guidato  dal  duce  e  dal  Qua¬ 
drumvirato,  seguiti  dai  comandanti  delle  colonne  che  erano  en¬ 
trate  a  Roma,  dai  gagliardetti  e  dalle  fiamme  di  tutti  i  fasci  d’I¬ 
talia,  dai  rappresentanti  delle  associazioni  dei  combattenti,  dei 
mutilati,  delle  madri  e  delle  vedove  dei  caduti,  dai  fasci  laziali, 
dalla  milizia  e  dalle  medaglie  d’oro,  e  da  tutte  le  organizzazioni 
politiche,  sindacali  e  giovanili  del  partito  fascista,  attraversò  il 
centro  della  città  seguendo  il  percorso  fatto  dalle  colonne  degli 
squadristi  l’anno  precedente,  da  piazza  del  Popolo  al  Quirina¬ 
le.  Il  corteo,  accompagnato  da  canti  e  bande  musicali,  sfilò  per 
circa  cinque  ore  fra  ali  di  folla  nella  strada  e  spettatori  alle  fi¬ 
nestre  e  ai  balconi  imbandierati,  fino  all’Altare  della  patria,  do¬ 
ve  rese  omaggio  al  Milite  Ignoto,  e  quindi  in  piazza  del  Quiri¬ 
nale  dove  il  re,  che  assisteva  alla  sfilata  dal  balcone  della  reggia, 
fu  salutato  romanamente  da  Mussolini  e  ricevette  l’omaggio  del 
corteo.  La  sera.  Mussolini  offrì  un  solenne  ricevimento  a  palaz¬ 
zo  Venezia  in  onore  del  re,  con  oltre  duemila  invitati  tra  prin¬ 
cipi  reali,  membri  del  governo  e  del  parlamento,  corpo  diplo- 


M.  Bianchi,  I  discorsi  gli  scritti,  Roma  1931,  pp.  101-103. 


11.  La  patria  in  camicia  nera 


85 


malico,  alti  dignitari  dello  Stato,  ufficiali  dell’esercito,  della  mi¬ 
lizia,  della  marina,  rappresentanti  del  partito  fascista,  etc."^^. 

La  «glorificazione  della  Rivoluzione  fascista»,  come  la  definì  il 
giornale  mussoliniano,  fu  una  sorta  di  «Festa  della  federazione» 
del  fascismo:  una  spettacolare  rassegna  delle  sue  forze,  che  servi¬ 
va  ad  esaltare  i  fascisti,  rafforzandone  il  senso  di  unità  attorno  a 
Mussolini  in  un  momento  in  cui  il  partito  aveva  appena  superato 
una  grave  crisi  interna,  come  pure  mirava  ad  impressionare  i  sim¬ 
patizzanti  e  ad  intimorire  gli  avversari  con  l’esibizione  della  forza 
armata  del  PNF  e  la  manifestazione  del  consenso  che  le  istituzio¬ 
ni,  i  combattenti  e  la  popolazione  davano  al  governo  e  al  fascismo. 
La  festa,  inoltre,  consacrava  formalmente  le  pretese  del  partito  fa¬ 
scista  alla  diversità  privilegiata  nei  confronti  del  sistema  dei  parti¬ 
ti  e  sigillava  l’unione  indissolubile  fra  fascismo  e  Stato  nazionale, 
trasformando  una  commemorazione  di  partito  in  una  festa  di  Sta¬ 
to.  La  straordinaria  gravità  deH’awenimento,  nel  mescolare  Stato 
e  partito,  non  era  sfuggita  a  un  acuto  osservatore  come  Giovanni 
Amendola,  che  considerò  la  commemorazione  della  «marcia  su 
Roma»  il  sintomo  di  un  nascente  «Stato  di  partito»"^^  e  la  confer¬ 
ma  dello  «spirito  totalitario»  del  fascismo,  deciso  ad  imporre  agli 
italiani  il  credo  della  sua  religione: 

Veramente  la  caratteristica  più  saliente  del  moto  fascista  rimarrà, 
per  coloro  che  lo  studieranno  in  futuro,  lo  spirito  «totalitario»;  il  qua¬ 
le  non  consente  all’avvenire  di  avere  albe  che  non  saranno  salutate  col 
gesto  romano,  come  non  consente  al  presente  di  nutrire  anime  che 
non  siano  piegate  nella  confessione  «credo».  Questa  singolare  «guer¬ 
ra  di  religione»  che  da  oltre  un  anno  imperversa  in  Italia  non  vi  offre 
una  fede  (che  a  voler  chiamar  fede  quella  nell’Italia,  possiamo  ri¬ 
spondere  che  noi  l’avevamo  già  da  tempo  quando  molti  dei  suoi  at¬ 
tuali  banditori  non  l’avevano  ancora  scoperta!)  ma  in  compenso  vi 
nega  il  diritto  di  avere  una  coscienza  -  la  vostra  e  non  l’altrui  -  e  vi 
preclude  con  una  plumbea  ipoteca  l’awenire.'^'^ 


Cfr.  per  la  cronaca  delle  manifestazioni  «Il  Popolo  d’Italia»  dal  30  otto¬ 
bre  al  r’  novembre  1923. 

G.  Amendola,  Commemorazioni,  in  «Il  Mondo»,  11  ottobre  1923,  ri¬ 
portato  in  Id.,  La  democrazia  italiana  contro  il  fascismo  1922-1924,  Milano-Na- 
poli  1960,  pp.  182-185. 

Id.,  Un  anno  dopo,  in  «Il  Mondo»,  2  novembre  1923,  ivi,  pp.  194-195. 


86 


Il  culto  del  littorio 


Nel  1924,  investito  il  fascismo  dalla  crisi  aperta  daU’assassinio 
di  Giacomo  Matteotti,  il  Gran  Consiglio  deliberò  di  celebrare  il 
secondo  anniversario  della  marcia  con  manifestazioni  meno  cla¬ 
morose,  curando  in  special  modo  l’aspetto  militaresco  delle  ceri¬ 
monie,  che  comprendevano  il  giuramento  della  Milizia  al  re  in 
due  grandi  adunate  a  Milano  e  a  Roma  il  28  ottobre;  manifesta¬ 
zioni  pubbliche  nelle  sedi  di  partito  il  29  con  conferenze  di  pro¬ 
paganda;  una  seduta  straordinaria  celebrativa  in  tutti  i  comuni 
fascisti  e  nelle  province  per  il  30,  e  la  manifestazione  aviatoria 
nella  capitale  per  il  La  crisi,  che  in  quel  momento  minac¬ 
ciava  di  travolgere  il  fascismo,  e  che  aveva  spinto  le  associazioni 
combattentistiche  a  dissociarsi  dal  PNF  e  dal  governo,  aveva  in¬ 
dotto  i  dirigenti  fascisti  a  stabilire  prudentemente  che  la  cele¬ 
brazione  avrebbe  avuto  «essenzialmente  carattere  di  partito  [...] 
senza  chiamare  ad  essa  associazioni  e  rappresentanze  d’altri  par- 
titi»^^.  Gli  organi  centrali  dei  combattenti  e  dei  mutilati  delibe¬ 
rarono  infatti  di  non  partecipare  alla  manifestazione.  Tuttavia, 
pur  senza  le  cerimonie  spettacolari  dell’anno  precedente,  Mus¬ 
solini  volle  comunque  conferire  carattere  di  ufficialità  all’anni¬ 
versario,  disponendo  le  stesse  modalità  di  celebrazione  previste 
per  le  feste  civili,  compresa  la  vacanza  per  l’intera  giornata  del 
28  negli  uffici  governativi,  sospensione  delle  udienze  giudiziarie 
e  chiusura  delle  scuole  pubbliche^^.  Nonostante  la  formula  di  lea¬ 
lismo  costituzionale  del  nuovo  giuramento  della  MVSN^^b  le  ce¬ 
rimonie  furono  dominate  dallo  «spettacolo  di  forza»^^  della  mi¬ 
lizia,  come  sfida  decisiva  del  partito  armato  contro  quanto  rima¬ 
neva  del  regime  parlamentare,  contro  i  fiancheggiatori  dubbiosi 
o  pentiti,  e  contro  tutte  le  opposizioni,  in  nome  della  rivoluzio¬ 
ne  fascista^^.  Presenziando  al  rito  del  giuramento  delle  legioni  a 
Milano,  dalla  torretta  di  un’auto  blindata.  Mussolini  integrò  il 


Cfr.  PNF,  Il  Gran  consiglio  cit.,  p.  153. 

La  marcia  su  Roma  e  gli  ex-combattenti,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  16  otto¬ 
bre  1924. 

««  Cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1924,  fase.  2.4.1  n.  2564. 

Il  milite  giurava  di  essere  fedele  al  re  e  ai  suoi  successori,  di  «osservare 
lealmente  lo  Statuto  e  le  altre  leggi  dello  Stato,  e  di  compiere  tutti  i  doveri  del 
mio  stato  per  il  bene  inseparabile  del  Re  e  della  Patria». 

Spettacolo  di  forza,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  29  ottobre  1924. 

Per  la  cronaca  delle  manifestazioni,  cfr.  «Il  Popolo  d’Italia»,  29  e  30  ot¬ 
tobre  1924. 


II.  La  patria  in  camicia  nera 


87 


giuramento  di  fedeltà  al  re  chiedendo  ai  militi  di  giurare  anche 
«la  devozione  alla  causa  della  rivoluzione  fascista  per  la  quale 
siamo  pronti  a  vivere,  pronti  a  combattere  e  pronti  a  morire»,  e 
li  elesse  a  depositari  «del  mio  fuoco,  del  nostro  fuoco  sacro»^'*. 

Imboccata  la  via  della  costruzione  del  regime  totalitario,  la  isti¬ 
tuzionalizzazione  dei  riti  della  rivoluzione  procedette  speditamen¬ 
te,  all’insegna  della  vittoria  trionfale  sul  regime  parlamentare  e  sul¬ 
le  opposizioni  debellate  e  messe  al  bando,  con  la  fascistizzazione 
dello  Stato  e  con  la  definitiva  identificazione  della  religione  fasci¬ 
sta  con  la  «religione  della  patria».  «Non  c’è  più  verso  -  scriveva  TI 
Popolo  d’Italia’  alla  vigilia  del  28  ottobre  1925  -  di  ridurre  la  cele¬ 
brazione  ad  un’espressione  di  Partito»*^^.  Per  l’anniversario  del 
1925,  il  PNF  predispose  una  celebrazione  che  doveva  «riuscire 
particolarmente  ammonitrice  e  solenne»  conservando  «il  suo  or¬ 
mai  tradizionale  carattere  prevalentemente  militare»,  con  le  adu¬ 
nate  della  milizia,  cortei  e  discorsi  celebrativi,  manifestazione  avia¬ 
toria  nella  capitale,  etc.  Fra  le  novità  della  celebrazione,  vi  fu  il  ri¬ 
to  dell’apposizione  del  fascio  littorio  da  parte  delle  amministrazio¬ 
ni  pubbliche  sulle  opere  compiute  dal  governo  fascista.  Fu  inoltre 
prescritta,  per  i  fascisti,  la  camicia  nera  per  tutta  la  durata  delle  ma¬ 
nifestazioni.  Mussolini  dispose  anche  che  il  28  ottobre,  in  sostitu¬ 
zione  delle  lezioni,  le  scuole  governative  all’estero  «celebrino  e  il¬ 
lustrino  Marcia  su  Roma  con  cui  fascismo  apre  nuova  era  storia  Na- 
zione»^^,  così  come  era  stato  disposto  dal  ministro  della  Pubblica 
Istruzione  per  le  scuole  pubbliche  in  Italia^^.  Celebrando  l’anni¬ 
versario  a  Milano,  Mussolini  proclamò  che  «nell’ottobre  1922,  non 
c’è  stato  un  cambiamento  di  ministero,  ma  c’è  stata  la  creazione  di 
un  nuovo  regime  politico»,  fondato  sul  principio  «tutto  nello  Sta¬ 
to,  niente  al  di  fuori  dello  Stato,  nulla  contro  lo  Stato»^^.  L’anno 
successivo,  l’anniversario  del  28  ottobre  fu  incluso  nella  liturgia 
dello  Stato  come  giorno  festivo  a  tutti  gli  effetti  civilP^. 

Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XXI,  pp.  125-126. 

Rer  la  terza  celebrazione  anniversaria  della  marcia  su  Roma,  in  «Il  Popo¬ 
lo  d’Italia»,  22  ottobre  1925. 

^  «Il  Popolo  d’Italia»,  28  ottobre  1925. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  22  ottobre  1925. 

Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XXI,  p.  425. 

R.d.l.  21  ottobre  1926,  n.  1779,  convertito  in  legge  6  marzo  1927,  n.  267; 
cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1926,  fase.  2.4.1  n.  3904. 


Il  culto  del  littorio 


Conservò  più  a  lungo  carattere  di  rito  di  partito  la  celebrazio¬ 
ne  del  23  marzo,  anniversario  della  fondazione  dei  fasci  di  com¬ 
battimento.  Nel  1923,  le  cerimonie,  tenute  la  domenica  25  marzo, 
furono  limitate  a  discorsi  e  cortei  senza  ufficialità,  intonati  al  tipo 
della  commemorazione  tradizionale,  anche  se  prevalse  nei  discor¬ 
si  l’esaltazione  della  rivoluzione  fascista  e  la  sua  determinazione  a 
non  arrestarsi  davanti  alla  restaurazione  del  vecchio  regime.  Mus¬ 
solini  si  limitò  a  ricordare  l’anniversario  con  un  paio  di  telegram¬ 
mi,  che  richiamavano  i  fascisti  al  dovere  della  disciplina.  È  proba¬ 
bile  che  la  crisi  che  stava  dilacerando  il  partito  fascista  in  quel  mo¬ 
mento,  fra  beghe,  dissensi  e  rivolte,  fosse  poco  propizia  ad  una 
grande  celebrazione^^”.  L’anno  successivo  l’anniversario  cadde  di 
domenica,  nel  pieno  della  campagna  elettorale  e  con  un  partito  fa¬ 
scista  che  aveva  ritrovato  una  certa  unità  interna.  Alla  ricorrenza 
fu  conferito  carattere  di  ufficialità  con  un  programma  concordato 
fra  la  direzione  del  PNF  e  la  Presidenza  del  consiglio,  che  preve¬ 
deva  un  corteo  dei  sindaci  fascisti,  con  i  labari  dei  loro  comuni,  al 
Milite  Ignoto  e  al  Quirinale,  seguito  da  un  discorso  di  Mussolini  e 
da  un  ricevimento  offerto  dal  regio  commissario  al  Campidoglio. 
Mussolini  volle  anche  l’imbandieramento  e  l’iUuminazione  degli 
edifici  pubblicPh  II  partito  organizzò  cortei  e  discorsi  in  ogni  città, 
dando  particolare  risalto  al  ricordo  dei  «martiri  fascisti»  con  la  ce¬ 
lebrazione  del  rito  dell’appello.  A  Milano,  fu  inaugurato  un  mo¬ 
numento  ai  caduti  fascisti  e  fu  scoperta  una  lapide  sul  palazzo  di 
piazza  S.  Sepolcro  per  ricordare  ai  posteri  i  «pochi  animosi  arsi 
dalla  disperata  passione  di  Benito  Mussolini»  che  «qui  raccolti  ini¬ 
ziarono  il  grande  movimento  fascista,  che  doveva  riconquistare  al 
popolo  Italiano  la  fede  nella  Patria,  la  libertà,  la  disciplina  del  la¬ 
voro,  il  rispetto  del  Mondo»^^.  Nel  1925  la  nascita  del  fascismo  fu 
rievocata  con  manifestazioni  d’impronta  militaresca,  che  doveva¬ 
no  essere  «solenni  e  ammonitrici  per  amici  e  nemici»^^.  Per  gli  an¬ 
ni  successivi.  Mussolini  dispose  la  presenza  di  ministri  alle  ceri¬ 
monie  e  la  dispensa  dal  servizio  dei  funzionari  fascisti  per  consen- 

Cfr.  «Il  Popolo  d’Italia»,  23  e  27  marzo  1923. 

Cfr.  Per  la  celebrazione  fascista  a  Roma,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  21  mar¬ 
zo  1923;  Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XX,  pp.  205-217. 

Anniversario,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  23  marzo  1924. 

ACS,  PCM,  Gabinetto,  1928-1930,  fase.  14.2  n.  1016,  comunicato  del¬ 
l’Agenzia  Stefani,  20  marzo  1925. 


II.  La  patria  in  camicia  nera 


89 


tire  loro  di  partecipare  alle  celebrazioni^-^.  Nel  1930,  infine,  nel 
quadro  di  un  riordinamento  del  calendario  liturgico  dello  Stato  fa¬ 
scista,  al  23  marzo  fu  conferito  il  carattere  di  solennità  civile^^. 


Il  calendario  del  regime 

L’istituzionalizzazione  dei  simboli  e  dei  riti  della  religione  fa¬ 
scista  nella  liturgia  dello  Stato  coincise  con  un  altro  atto  simbolico 
che  doveva  esaltare  il  carattere  rivoluzionario  del  regime  fascista. 
Già  nel  1923  Mussolini  usava  datare  i  testi  da  lui  firmati  aggiun¬ 
gendo,  all’anno  cristiano,  l’indicazione  «anno  primo  dell’era  fa- 
scista»^*^.  Quest’uso  si  era  presto  diffuso  fra  i  fascisti.  L’anniversa¬ 
rio  del  28  ottobre  era  salutato  come  inizio  dell’«Era  fascista».  Al¬ 
la  fine  del  1925,  il  prefetto  di  Reggio  Emilia  ritenne  opportuno  rac¬ 
comandare  agli  enti  della  provincia  la  consuetudine  di  aggiungere 
l’indicazione  dell’anno  dell’Era  fascista  a  quello  dell’Era  cristiana, 
«mediante  apposizione  in  numero  romano,  come  usa  fare  il  Du¬ 
ce»,  per  rendere  omaggio  «al  principio  della  fascistizzazione  inte¬ 
grale  -  anche  nelle  manifestazioni  esteriori  -  della  vita  nazionale», 
cui  si  ispiravano  «le  disposizioni  per  l’apposizione  del  segno  litto¬ 
rio  alle  opere  pubbliche  e  per  il  saluto  romano-fascista  nelle  pub¬ 
bliche  amministrazioni»^^.  Un  anno  dopo,  fu  il  ministro  della  Pub¬ 
blica  Istruzione  a  chiedere  al  duce  «l’onore»  di  aggiungere,  in  tut¬ 
ti  gli  atti  ufficiali  del  ministero,  alla  data  dell’anno  scolastico  la  da¬ 
tazione  della  rivoluzione  fascista  «affinché  sia  sempre  presente  al¬ 
lo  spirito  ed  alla  mente  dei  giovani»,  perché  la  scuola  «sente  tutta 
la  bellezza  dell’ideale  fascista...  vive  una  nuova  vita  dal  giorno  in 
cui  il  Fascismo  volle  e  seppe  rigenerarla»^^.  Mussolini  approvò  e 


Ivi,  circolare  del  26  marzo  1927;  cfr.  anche,  per  gli  anni  successivi,  fase. 
14.2  n.  1016;  fase.  3.3.3  n.  10695. 

Legge  27  dicembre  1930,  n.  1726. 

Cfr.  C.  Sobrero,  Un  anno  di  passione  italiana,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  18 
ottobre  1923;  Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  p.  335  (messaggio  alla 
nuova  direzione  del  giornale  «Epoca»,  19  ottobre  1923). 

ACS,  MI,  DGPS,  1925,  cat.  Gl,  Pasci  di  combattimento,  b.  126,  tele¬ 
gramma  del  prefetto,  18  dicembre  1925. 

ACS,  PCM,  Gabinetto,  1940-1943,  fase.  3.17  n.  4198,  lettera  di  Pietro 
Fedele  a  Mussolini,  9  novembre  1926. 


90 


Il  culto  del  littorio 


subito  dopo  inviò  una  circolare  in  cui  esprimeva  il  desiderio  che  in 
tutti  gli  atti  ufficiali  dell’amministrazione  dello  Stato  venisse  ag¬ 
giunta  sempre  anche  la  data  «dell’annuale  dell’assunzione  al  Po¬ 
tere  del  Governo  fascista»^^.  La  decisione  suscitò  qualche  per¬ 
plessità  per  la  numerazione  annuale  dell’Era  fascista:  alcuni,  per 
esempio,  indicavano  come  «anno  I»  il  periodo  dal  28  ottobre  al  3 1 
dicembre  1922.  Della  questione  fu  interessato  anche  il  re,  il  quale 
fece  osservare  che  il  computo  dell’anno  fascista  doveva  decorrere 
dal  28  ottobre  al  27  ottobre  dell’anno  successivo,  non  solo  perché 
sembrava  al  sovrano  poco  «confacente  all’importanza  storica  del¬ 
la  Rivoluzione  Fascista  considerare  per  un  anno  intero  i  due  ulti¬ 
mi  mesi  del  1922>>,  ma  anche  per  il  riscontro  che  tale  sistema  ave¬ 
va  nel  calendario  adottato  dalla  prima  repubblica  francese^®®. 
Mussolini  concordò  con  il  parere  del  sovrano  e  il  27  ottobre  1927 
fu  definitivamente  stabilito  che  negli  atti  delle  amministrazioni 
dello  Stato  doveva  essere  indicato  l’annuale  dell’avvento  al  potere 
del  governo  fascista,  datando  dal  29  ottobre  l’inizio  dell’anno 
Vpoi. 

Dopo  il  1926,  il  culto  del  littorio,  divenuto  liturgia  dello  Sta¬ 
to  fascista,  sotto  la  superiore  regia  del  partito,  fu  istituzionaliz¬ 
zato  secondo  rigide  norme  che  ne  definivano  le  modalità  di  svol¬ 
gimento.  La  prima  conseguenza  dell’istituzionalizzazione  fu  il 
divieto  della  spontaneità  nell’organizzazione  di  feste,  riti  e  ma¬ 
nifestazioni  di  massa  che,  ripetendosi  frequentemente  in  manie¬ 
ra  disordinata,  anche  per  le  più  banali  circostanze  e  spesso  sen¬ 
za  la  dovuta  preparazione,  danneggiavano  la  serietà  del  simbo¬ 
lismo  liturgico  e  compromettevano  la  funzione  sacralizzante  e 
pedagogica  che  ad  esso  il  regime  assegnava.  «Bisogna  sostare 
colle  cerimonie,  adunate  e  sagre»,  aveva  ammonito  Mussolini, 
perché  la  frequenza  «le  spoglia  di  ogni  solennità...  Il  popolo  è 
un  po’  stanco  di  cerimonie.  Anche  in  questo  caso  vale  la  for¬ 
mula:  rare  e  solenni»^®^.  Nel  1926,  Mussolini,  sollecitato  da  Emi- 


^  Ivi,  circolare  del  25  dicembre  1926. 

ACS,  PCM,  Gabinetto,  1940-1943,  fase.  1.7  n.  49269,  appunto  per  il 
capo  del  governo,  10  gennaio  1927. 

'"1  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1940-1943,  fase.  1.7  n.  8403,  telegramma  del 
sottosegretario  alla  Presidenza  del  consiglio  Suardo  ai  ministri,  27  ottobre  1927. 

Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XXI,  p.  140  (discorso  dell’ll  no¬ 
vembre  1924). 


11.  La  patria  in  camicia  nera 


91 


lio  Bodrero^®^,  decise  di  intervenire  per  porre  un  freno  a  ceri¬ 
monie  e  manifestazioni  pubbliche,  impartendo  ai  prefetti  diret¬ 
tive  che  sottoponevano  a  «controllo  preventivo  le  pubbliche  ma¬ 
nifestazioni  con  lo  scopo  di  inquadrare  l’importante  azione  so¬ 
ciale  che  esse  svolgono,  nello  spirito  di  disciplina  e  di  fattiva  ope¬ 
rosità  che  anima  la  nazione,  impedendo  quelle  manifestazioni 
che,  per  il  fine  che  si  propongono,  contrastino  con  la  nuova  co¬ 
scienza  e  limitando  e  coordinando  le  altre  in  modo  da  assicurar¬ 
ne  la  migliore  riuscita,  con  la  minore  dispersione  di  energie,  di 
risorse  e  di  contributi»^”'*.  Il  governo  quindi  emanò  provvedi¬ 
menti  legislativi  per  disciplinare  la  materia,  convinto  che  «la  ele¬ 
zione  e  il  coordinamento,  ispirati  a  criteri  di  alto  sentimento  na¬ 
zionale  e  di  pratica  utilità,  elevano  la  funzione  sociale  anche  di 
questa  importante  forma  di  attività,  inquadrandola  nell’opera  di 
costante  elevazione  morale  e  spirituale  della  Nazione,  che  Go¬ 
verno  e  cittadini  in  meravigliosa  armonia  di  intenti,  alacremente 
svolgono»*”^.  E  poiché  queste  misure  non  sortirono  l’effetto  de¬ 
siderato,  Mussolini  decise  di  vietare  dal  7  novembre  1927  fino 
all’8  maggio  1928 

ogni  cerimonia,  manifestazione,  celebrazione,  anniversari,  centenari 
grandi  e  piccoli,  nonché  discorsi  di  qualsiasi  calibro  perché  le  auto¬ 
rità  non  devono  essere  distratte  dai  loro  doveri,  si  devono  fare  eco¬ 
nomie  anche  piccole,  soprattutto  di  tempo,  e  bisogna  evitare  il  senso 
di  sazietà  alle  popolazioni.*”^ 

Il  provvedimento  non  riguardava  i  riti  del  culto  del  littorio, 
che  anzi  acquistarono  in  seguito  a  questa  restrizione  maggior  ri¬ 
lievo  e  solennità;  ma  anche  per  queste  manifestazioni  furono 
adottate  misure  che,  in  armonia  con  l’awenuta  istituzionalizza- 

ACS,  PCM,  Gabinetto,  1928-1930,  fase.  3.3.2  n.  1962,  appunto  per  il 
capo  del  governo,  12  maggio  1926. 

Ivi,  Mussolini  ai  prefetti  del  regno,  23  agosto  1926.  Tutta  la  materia  del¬ 
le  manifestazioni  pubbliche  venne  disciplinata  con  il  r.d.l.  6  agosto  1926,  n. 
1486,  convertito  in  legge  r8  novembre  1926. 

Ivi,  relazione  per  la  conversione  in  legge  del  r.d.l.  6  agosto  1926,  n.  1486, 
convertito  nella  legge  27  febbraio  1927,  n.  244. 

ACS,  PCM,  Gabinetto,  1928,  fase.  3.3.9  n.  1962;  fase.  1.3.4  n.  1660,  riu¬ 
nione  del  Consiglio  dei  ministri,  17  ottobre  1927;  circolare  del  capo  del  go¬ 
verno,  15  novembre  1927. 


92 


Il  culto  del  littorio 


zione  della  liturgia  fascista,  ne  disciplinavano  ora  rigorosamente 
le  modalità  di  svolgimento.  I  segretari  federali  dovevano  limita¬ 
re  «le  manifestazioni  e  le  cerimonie  troppo  frequenti,  troppo  ri¬ 
correnti  e  troppo  domenicali»  non  per  coartare  o  diminuire  lo 
«spirito  guerriero  del  fascismo»,  ma  perché  «nelle  ore  dell’ardua 
fatica  o  della  battaglia  che  incalza,  l’abito  della  ‘sagra’  non  serve; 
esso  deve  essere  sostituito  da  una  divisa  austera»:  perciò  le  fede¬ 
razioni  dovevano  riservare  «lo  spettacolo  superbo  dello  schiera¬ 
mento  di  tutte  le  loro  forze»  solo  aUe  grandi  date  della  «Marcia 
su  Roma»  e  dell’anniversario  della  fondazione  dei  fasci^”^.  Il 
Gran  Consiglio  fissò  il  «calendario  del  regime»  per  scandire  il 
ritmo  della  liturgia  fascista,  stabilendo  «che  tre  sole  giornate  sia¬ 
no  dedicate  alla  celebrazione  degli  avvenimenti  storici  della  vita 
del  Regime  e  del  Partito»:  il  23  marzo  per  «l’esaltazione  e  la  af¬ 
fermazione  delle  forze  giovanili»,  il  21  aprile  per  «la  celebrazio¬ 
ne  delle  forze  della  produzione  e  del  lavoro»  e  il  28  ottobre  «per 
la  rievocazione  e  la  esaltazione  deU’awenimento  che  ha  conclu¬ 
so,  con  la  vittoria  della  Rivoluzione,  molti  anni  di  lotte  e  di  sa- 
crifici»^®^. 


107  pisiF,  «Foglio  d’ordini»,  n.  15,  22  novembre  V  (1926). 

108  PNF,  «Foglio  d’ordini»,  n.  19,  8  gennaio  V  (1927). 


L’«ARCANGELO  MONDANO» 


Giganteggia  avanti  ad  ognuno,  la  realtà  dello 
Stato  educatore,  che  fa  coscienti  le  masse,  che 
le  fa  elemento  creatore  della  storia,  che  le 
orienta  verso  il  raggiungimento  di  quei  fini, 
nel  cui  ambito  si  giustificano  parimenti  la  vi¬ 
ta  e  il  lavoro  degli  umili  e  dei  grandi. 

G.  Bottai 

Lo  Stato  fascista  ha,  di  una  Chiesa,  il  vinco¬ 
lo  mistico  e  propriamente  religioso.  Esso 
esalta  i  principi  del  sacrificio  e  della  rinuncia; 
professa  una  filosofia  eroica  della  vita,  un’e¬ 
tica  antiedonistica,  una  concezione  del  mon¬ 
do  antiinteUettualista  e  antimaterialista;  lavo¬ 
ra  per  l’avvento  di  un  ordine  nuovo  di  carat¬ 
tere  essenzialmente  spirituale. 

Di  una  Chiesa,  inoltre,  lo  Stato  si  attribuisce  la 
missione  edificante,  educatrice,  apostolica  e  ca¬ 
ritativa.  Esso  si  consacra  ad  un’opera  di  costan¬ 
te  apostolato  fra  i  tiepidi  e  gli  ignoranti.  Come 
il  cattolicismo,  con  i  suoi  ordini  e  congregazio¬ 
ni,  lo  Stato  moltiplica  le  opere  destinate  ad  aiu¬ 
tare  i  suoi  membri  o  a  conquistare  quelli  che  esi¬ 
tano  ancora  a  credere  nei  benefici  del  regime. 

Il  partito  ha  il  ruolo  fondamentale  di  assicu¬ 
rare  allo  Stato  questa  «ecclesiasticità»  adem¬ 
piendo  alla  duplice  funzione  di  elemento  di¬ 
namico  e  zelatore  dello  Stato. 


M.  Prélot 


Dopo  la  «marcia  su  Roma»,  il  fascismo  accentuò  il  suo  caratte¬ 
re  di  religione  laica,  sia  nella  definizione  ideologica  che  nel  modo 
di  vivere  e  praticare  l’esperienza  politica  attraverso  miti,  riti  e  sim¬ 
boli.  Nello  stesso  tempo,  però,  cercò  anche  di  servirsi  della  reli¬ 
gione  tradizionale  per  spianare  la  strada  alle  sue  ambizioni  di  do¬ 
minio,  presentandosi  come  restauratore  dei  valori  dello  spirito  e 
del  prestigio  della  religione  cattolica  dopo  un’epoca  di  agnostici¬ 
smo,  di  ateismo  e  di  materialismo.  Fin  dal  1921,  accantonando  cer¬ 
ti  atteggiamenti  anticlericali,  iconoclasti  e  paganeggianti  del  primo 
fascismo.  Mussolini  aveva  esaltato  l’importanza  storica  della  reli¬ 
gione  cattolica  come  «l’unica  idea  universale  che  oggi  esista  a  Ro- 
ma»h  potenza  spirituale  mondiale  di  cui  gli  italiani  dovevano  es¬ 
sere  orgogliosi  e  che  poteva  essere  «utilizzata  per  l’espansione  na- 
zionale»^.  Giunto  al  potere.  Mussolini  citò  fra  i  suoi  alti  meriti  an¬ 
che  quello  di  non  aver  toccato  né  diminuito  la  Chiesa,  «un  altro 
dei  pilastri  della  società  nazionale»,  perché  la  religione  «è  patri¬ 
monio  sacro  dei  popoli»^.  Ma  non  per  questo  i  fascisti  smisero  di 
parlare  del  fascismo  come  di  una  religione:  anzi  non  esitarono  a  fa¬ 
re  frequenti  confronti  fra  il  loro  movimento  e  il  cristianesimo,  con 
l’intento  di  far  riverberare  sul  fascismo  il  crisma  della  religione  tra¬ 
dizionale,  sublimando  così  le  loro  pretese  religiose,  per  orientare 
verso  il  culto  del  littorio,  con  la  suggestione  dell’analogia,  la  devo¬ 
zione  di  un  popolo  in  larghissima  maggioranza  ancora  cattolico.  Il 
fascismo  -  affermava  «Il  Popolo  d’Italia»  -  «è  una  fede  civile  e  po¬ 
litica,  ma  è  anche  una  religione,  una  milizia,  una  disciplina  dello 
spirito  che  ha  avuto,  come  il  Cristianesimo,  i  suoi  confessori,  i  suoi 

'  Mussolini,  Opera  Omnia,  a  cura  di  E.  e  D.  Susmel,  44  voli.,  Firenze  1951- 
1963,  voi.  XVI,  p.  444  (primo  discorso  alla  Camera,  21  giugno  1921). 

^  Ivi,  voi.  XVII,  p.  221  (discorso  al  III  congresso  dei  Fasci,  9  novembre 
1921). 

^  Ivi,  voi.  XX,  p.  62  (discorso  del  28  ottobre  1923,  a  Milano,  per  il  primo 
anniversario  della  «marcia  su  Roma»). 


96 


Il  culto  del  littorio 


testimoni,  i  suoi  santi»*^.  La  fede  nel  fascismo,  proclamava  Musso¬ 
lini,  «la  mia  fede,  è  qualche  cosa  che  va  al  di  là  del  semplice  parti¬ 
to,  della  semplice  idea  e  della  sua  necessaria  struttura  militare,  del 
suo  necessario  sindacalismo,  del  suo  tesseramento  politico.  Il  fa¬ 
scismo  è  un  fenomeno  religioso  di  vaste  proporzioni  storiche  ed  è 
il  prodotto  di  una  razza»^. 


La  religione  rivelata 

La  rapidità  clamorosa  dell’ascesa  al  potere  di  un  movimento 
che  aveva  poco  più  di  tre  anni  di  vita  si  prestava  facilmente  ad 
essere  rappresentata  come  un  miracolo  dovuto  alla  nuova  fede, 
predicata  da  Mussolini  e  dai  suoi  primi,  esigui  seguaci,  che  l’a¬ 
vevano  diffusa  col  sacrificio  e  con  la  lotta  in  un’Italia  devastata 
dalla  «bestia  trionfante»  del  bolscevismo.  I  pochi  della  prima  ora 
si  moltiplicarono  poi  in  legioni  di  virili  e  virtuosi  crociati  che,  de¬ 
diti  anima  e  corpo  alla  patria,  con  la  fede  della  religione  fascista 
avevano  sconfitto  e  ucciso  il  «drago  rosso»,  salvando  non  solo  l’I¬ 
talia  dal  pericolo  del  bolscevismo,  ma  recando  una  parola  di  sal¬ 
vezza  per  l’intera  umanità,  sempre  pronti  a  nuove  lotte  e  a  nuo¬ 
vi  sacrifici.  La  trasfigurazione  sacralizzante  deH’origine  del  fasci¬ 
smo  già  compiuta  nel  1925,  è  delineata  nei  suoi  motivi  essenzia¬ 
li  in  un  articolo  dell’organo  dei  Fasci  italiani  all’estero: 

Il  misticismo  del  Fascismo  è  il  crisma  del  suo  trionfo.  Il  ragiona¬ 
mento  non  si  comunica,  l’emozione  sì.  Il  ragionamento  convince,  non 
attrae.  Il  sangue  è  più  forte  del  sillogismo.  La  scienza  pretende  di  spie¬ 
gare  il  miracolo,  ma  agli  occhi  della  folla  il  miracolo  resta,  seduce  e  crea 
neofiti.  Forse,  fra  un  secolo,  si  dirà  nelle  storie  che  dopo  la  guerra  sur- 
se  in  Italia  un  Messia,  che  cominciò  a  parlare  a  cinquanta  persone  e  finì 
per  evangelizzarne  un  milione:  che  questi  illuminati  si  sparsero  in  Ita¬ 
lia  e  con  la  fede,  con  la  devozione,  col  sacrificio  conquistarono  il  cuore 
delle  masse:  che  le  loro  parole  erano  desuete,  venivano  da  così  lontano 
che  erano  dimenticate,  dicevano  di  doveri  quando  tutti  parlavano  di  di¬ 
ritti,  di  disciplina  quando  tutti  si  davano  alla  licenza,  di  famiglia  quan- 


Un  rito  fascista,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  13  dicembre  1923. 

^  Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XIX,  p.  274  (discorso  del  17  giugno 
1923  a  Cremona). 


III.  L’ «arcangelo  mondano>. 


97 


do  trionfava  l’individualismo,  di  proprietà,  mentre  la  ricchezza  diveni¬ 
va  anonima,  di  patria  allora  che  l’odio  covava  tra  i  cittadini  e  l’interes¬ 
se  scavalcava  le  frontiere,  di  religione  e  tutti  la  negavano  per  paura  del 
giudice  supremo.  Ma  finirono  per  vincere,  perché  rendevano  bene  per 
male,  perché  proteggevano  i  loro  stessi  nemici,  perché  compievano 
ogni  giorno  miracoli  d’amore,  perché  ogni  ora  raccontava  gli  umili  lo¬ 
ro  eroismi,  perché  al  loro  contatto  gli  uomini  divenivano  migliori  e  con 
la  loro  azione  l’Italia  più  ordinata,  più  tranquilla,  più  prospera,  più 
grande,  perché  avevano  nel  canto  la  letizia  della  loro  bontà  e  negli  oc¬ 
chi  la  luce  del  loro  sacrificio,  perché  cadevano  con  un  grido  di  fede  e 
per  uno  che  cadeva  cento  ne  sorgevano,  perché  infine  quando  il  vero 
sfolgora  da  ogni  parte,  neppure  i  gufi  possono  negarlo. 

Così  ha  vinto  il  Fascismo,  per  opera  della  sua  milizia  [...]  La  coppa 
del  sacrificio  è  tesa  ai  «migliori»  e  noi  dobbiamo  berla.  Poi  diremo  con 
Cristo  quando  bevve  alla  spugna  intrisa  di  aceto  e  di  fiele:  «Consum- 
matum  est».  Il  suo  sacrificio  è  la  salvezza  altrui.  Che  importa  l’indivi¬ 
duo?  È  la  Stirpe  che  conta,  è  il  suo  rinnovamento  che  è  necessario  per 
il  bene  della  Patria  e  del  mondo.  Il  Duce  ha  parlato  [...]  Il  suo  coman¬ 
damento  è  la  nostra  legge  o  meglio  ancora  è  la  rivelazione  della  nostra 
legge,  la  quale  è  già  in  noi.  La  lotta  continua  ed  è  aspra.  D’ogni  donde 
si  guarda  all’Italia  come  al  faro  di  luce,  che  guida  l’umanità  al  salva¬ 
mento  [...]  Noi  siamo  i  principi  e  i  triari  delle  nuove  legioni  di  civiltà*^. 

Il  carattere  religioso  del  fascismo  fu  enfatizzato  notevolmen¬ 
te  durante  la  prima  fase  di  governo,  fra  il  1923  e  il  1926,  princi¬ 
palmente  per  legittimare  il  monopolio  del  patriottismo  e  per  ri¬ 
vendicare,  di  conseguenza,  il  diritto  al  monopolio  del  potere. 
Ogni  avversario  del  fascismo  diventava  così  un  nemico  della  «re¬ 
ligione  della  patria».  Da  qui,  la  pretesa  del  governo  fascista  di 
avere  il  diritto  di  perseguitare  e  bandire  chi  non  si  convertiva  al 
culto  nazionale,  cioè,  in  altri  termini,  chi  non  accettava  la  ver¬ 
sione  fascista  di  questa  religione;  l’adesione  al  fascismo  doveva 
essere  un  atto  di  dedizione  totale  e  definitivo: 

chi  viene  a  noi,  o  diventa  nostro,  anima  e  corpo,  spirito  e  carne,  o  sarà 
inesorabilmente  stroncato  —  ammoniva  Dario  Lupi  all’inizio  del  1923  -. 
Perché  noi  sappiamo  e  sentiamo  di  essere  nel  vero;  perché  tra  tutte  le 
ideologie,  del  presente  e  del  passato  [...]  noi  sentiamo  e  sappiamo  che 


Santa  Milizia,  in  «I  fasci  italiani  all’estero»,  2  maggio  1925. 


Il  culto  del  littorio 


la  nostra  sola  è  intonata  meravigliosamente  al  momento  storico  che  si 
attraversa,  al  domani  storico  che  si  prepara;  così  come  è  quella  sola  che 
rispecchia  fedelmente  i  più  profondi  strati  dell’anima  e  della  sensibilità 
della  stirpe^ 

Era  già  operante  l’impulso  della  nuova  religione  politica  al¬ 
l’integralismo: 

I  fascisti  hanno  ragione  di  scomunicare  gli  eretici  della  Patria  -  af¬ 
fermava  «Critica  fascista»  del  15  luglio  1923  -,  come  la  Chiesa  ebbe 
sempre  ragione  quando  scacciò  dalla  comunione  dei  veri  credenti  gli 
eretici  della  sua  fede,  mentre,  anche  questi,  pretendevano  di  posse¬ 
derla.  Così  il  Cristo  che  taluni  si  raffigurano  tutto  mansueto  e  quasi 
in  veste  di  un  liberale,  si  armò  un  giorno  d’aspri  flagelli  per  discac¬ 
ciare  dal  tempio  di  Dio  i  barattieri  e  i  profanatori  [...]  Il  fascismo  non 
è  un  partito  chiuso  politicamente,  ma  religiosamente.  Esso  non  può 
accettare  che  gli  uomini  i  quali  credono  nelle  sue  verità  di  fede  [...] 
Come  la  Chiesa  ha  i  suoi  dogmi  religiosi,  così  il  Fascismo  ha  i  suoi 
dogmi  di  fede  nazionale.^ 

Con  queste  premesse,  le  illusioni  sulla  possibilità  di  istituire 
una  religione  civile,  tale  da  conciliare  il  culto  della  nazione  con 
il  culto  della  libertà,  come  era  stato  negli  ideali  dei  patrioti  ri¬ 
sorgimentali,  svanirono  mentre  cresceva  l’intolleranza  della  reli¬ 
gione  fascista  e,  insieme  con  la  fascistizzazione  dello  Stato,  veni¬ 
va  avviato  il  processo  della  sua  sacralizzazione.  La  fede  fascista  - 
scriveva  nel  1925  Ettore  Lolini,  un  noto  esperto  di  problemi  del¬ 
la  burocrazia  convertito  al  fascismo  -  era  una  «santa  follia»  che 
«si  sente  e  si  accetta  col  cuore  e  collo  spirito  in  tutta  la  sua  su¬ 
blime  grandezza  irrazionale,  o  si  respinge  e  si  odia  e  si  combatte 
con  pari  fede»:  ma  solo  «quando  della  fede  e  dell’idea  fascista  sa¬ 
ranno  compenetrate  tutte  le  istituzioni  dello  Stato  italiano,  solo 
allora  avrà  raggiunto  il  suo  pieno  sviluppo  la  Rivoluzione  Fasci¬ 
sta»^. 

^  D.  Lupi,  Il  comandamento  della  patria,  Milano  1925,  p.  24  (discorso  a  Pe¬ 
rugia  del  18  febbraio  1923). 

®  P.  MisciatteUi,  La  mistica  del  fascismo,  in  «Critica  fascista»,  15  luglio  1923. 

^  E.  Lolini,  La  conquista  ideale  dello  Stato,  in  «La  Conquista  dello  Stato», 
15  febbraio  1925,  in  Id.,  Per  l’attuazione  dello  Stato  fascista,  Firenze  1928,  pp. 
58-64. 


III.  L’ «arcangelo  monda no> 


99 


Una  teologia  politica  per  lo  Stato  nuovo 

In  origine,  la  religione  fascista  era  stata  in  larga  parte  espres¬ 
sione  spontanea,  ad  un  certo  livello  di  massa,  soprattutto  dello 
squadrismo  e  ne  rifletteva  le  caratteristiche  di  spontaneità  ribel¬ 
le,  di  immediato  emozionalismo  aggressivo  e  anarchicheggiante, 
d’un  sentimento  della  fede  comune  non  ancora  subordinata  alle 
regole  di  una  chiesa.  La  religione  fascista,  prima  della  «marcia  su 
Roma»,  non  era  ancora  vincolata  all’obbedienza  cieca  e  alla  fede 
indiscussa  nella  infallibilità  di  un  capo.  Ma  salito  il  fascismo  al 
potere,  questa  situazione  divenne  incompatibile  con  la  necessità 
della  disciplina  e  dell’unità,  capisaldi  della  concezione  fascista 
dello  Stato  nuovo.  Non  solo  il  ribellismo  squadrista  doveva  es¬ 
sere  domato  e  debellato  ovunque  fosse  ancora  attivo,  ma  anche 
la  spontaneità  dei  simboli  e  dei  riti  doveva  ora  cedere  alla  istitu¬ 
zionalizzazione  del  sistema  di  credenze  e  di  valori  espressi  dal  fa¬ 
scismo.  Al  «tempo  eroico»,  della  lotta  e  della  distruzione  del  vec¬ 
chio  ordine  liberale,  seguiva  ora  il  «tempo  della  costruzione»,  il 
lavoro  per  edificare  il  nuovo  ordine.  Si  passava,  per  così  dire,  dal¬ 
la  religione  come  sentimento  di  immediata  esperienza  vissuta,  al¬ 
la  religione  come  sistema  di  credenze,  come  fede  definita  e  re¬ 
golata  secondo  i  dogmi  di  una  teologia  politica  codificata.  «La 
religione  rivelata  è  venuta  al  punto  di  scrivere  i  suoi  codici  e  di 
costruire  i  suoi  tempii.  Occorrono  dottori  e  costruttori»,  scrive¬ 
va  Bottai^®.  Era  necessario  «sistematizzare  la  fede»,  dichiarava  «Il 
Popolo  d’Italia»:  «ricondurla  a  compiti  precisi  e  a  determinati 
obiettivi  è  l’unico  mezzo  per  fondare  gli  ordini  nuovi  della  so¬ 
cietà.  Ma,  per  questo,  occorre  non  concedere  nulla  agli  egoismi 
e  inquadrare  fermissimamente  le  gerarchie  nelle  funzioni»^. 

L’istituzionalizzazione  della  religione  fascista  avvenne  attra¬ 
verso  il  contributo  decisivo  apportato  alla  elaborazione  della  sua 
teologia  politica  dagli  intellettuali  di  formazione  idealista,  che  da 
anni  predicavano  una  crociata  culturale  per  la  spiritualizzazione 
della  politica.  Eredi  dello  statalismo  etico  della  Destra  o  reduci 
da  travagliate  esperienze  democratiche,  questi  intellettuali  erano 

G.  Bottai,  Disciplina,  in  «Critica  fascista»,  15  luglio  1923. 

“  G.  Gamberini,  Sistematizzare  la  fede,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  4  aprile 


1928. 


100 


Il  culto  del  littorio 


concordi  nel  voler  conferire  allo  Stato  un  carattere  di  laica  reli¬ 
giosità,  attribuendogli  quindi  primarie  funzioni  pedagogiche  nel¬ 
la  educazione  delle  masse  per  la  formazione  di  una  coscienza  na¬ 
zionale^^.  Ad  essi  il  fascismo  apparve  come  la  rivelazione  della 
nuova  religione  politica,  da  anni  agognata  e  a  lungo  cercata: 

Nel  Partito  fascista  -  scriveva  uno  di  questi  intellettuali,  capo  del¬ 
l’Ufficio  propaganda  e  vice  segretario  del  partito  fascista  nel  1925  - 
sono  entrato  per  dovere  e  per  impeto  religioso.  Mi  ha  fatto  agire  non 
solo  il  pericolo  della  Patria  e  l’amore  della  nostra  civiltà,  ma  la  spe¬ 
ranza  di  uno  Stato  italiano,  che  fosse  il  soggetto  della  Storia,  che  mi 
apparve  sempre  come  la  stessa  vita  di  Dio.  Io  ho  la  religione  della  sto¬ 
ria:  la  mia  fede  è  stata  sempre  quella  dell’idealismo  romantico,  quel¬ 
la  del  nostro  Risorgimento,  di  che  si  è  alimentato  il  Fascismo.'^ 

Romolo  Murri,  già  sacerdote  promotore  della  «democrazia 
cristiana»  e  poi  militante  radicale  per  un  rinnovamento  demo¬ 
cratico-religioso  dello  Stato,  vide  nel  fascismo  la  risposta  al  «pro¬ 
blema  spirituale,  antico  €  profondo,  della  vita  italiana:  cercare 
una  fede  che  sia  intima  suscitatrice  di  storia,  una  azione  che  dia 
alla  storia  coscienza  e  valore  di  spiritualità  e  di  universalità  [...] 
Oggi  come  nel  Risorgimento  si  tratta  di  fare  degli  italiani  una 
Nazione  e  uno  Stato  [...]  cercando  e  saldamente  istituendo  una 
visione,  operosa  nell’interno  delle  coscienze  medesime,  di  unità 
nazionale»  e  di  «validità  etica  dello  Stato»^*^.  Murri  confidava 
nell’azione  del  governo  fascista  per  l’attuazione  di  una  riforma 


Cfr.  E.  Gentile,  Il  mito  dello  Stato  nuovo  daWantigiolittismo  al  fascismo, 
Roma-Bari  1999^;  G.  Chiosso,  L’educazione  nazionale  da  Giolitti  al  primo  do¬ 
poguerra,  Brescia  1983. 

Lettera  di  Giorgio  Masi  a  Mussolini,  13  novembre  1937,  in  ACS,  MI, 
Confinati  politici,  b.  638,  fase.  «G.  Masi».  Insegnante,  fervente  gentiliano.  Ma- 
si  era  un  tipico  rappresentante  degli  idealisti  credenti  nella  religione  fascista: 
«Una  fede  certa  nella  divinità  di  questo  mondo  -  scriveva  su  ‘La  Rivolta  Idea¬ 
le’,  organo  della  Federazione  universitaria  fascista,  il  19  luglio  1925  (Propa¬ 
ganda  fascista)  -  nella  divinità  della  nostra  vita,  nel  valore  assoluto  dell’opera 
nostra,  anima  ed  esalta,  sopra  ogni  dolore  ed  ogni  sacrificio,  questa  nostra  eroi¬ 
ca  generazione  di  combattenti  cui  la  guerra,  la  fede,  il  sacrificio  fecero  l’anima 
grande».  Caduto  in  disgrazia  per  il  suo  estremismo.  Masi  nel  1937  fu  condan¬ 
nato  al  confino. 

R.  Murri,  Fede  e  fascismo,  Milano  1924,  p.  23.  Cfr.  P.G.  Zunino,  Romo¬ 
lo  Murri  e  il  fascismo,  in  «Fonti  e  documenti»,  n.  14,  1985,  pp.  631-667. 


111.  L’ «arcangelo  mondano> 


101 


religiosa  della  politica  italiana  verso  la  creazione  di  un  nuovo  Sta¬ 
to  nazionale,  perché  riconosceva  al  fascismo  la  vitalità  e  la  fede 
di  un  movimento  che  aveva  «agito  sulle  coscienze  e  sulla  storia 
con  le  caratteristiche  di  entusiasmo,  disciplina  volontaria,  di  de¬ 
dizione  eroica  che  son  proprie  della  fede  e  dello  spirito  religio¬ 
so»;  non  solo,  ma  era  anche  «una  dimostrazione  ed  una  espe¬ 
rienza  viva  notevolissima  di  talune  qualità  ed  esigenze  della  co¬ 
scienza  religiosa  contemporanea»  perché  il  fascismo  aveva  la  ten¬ 
denza  «ad  investire  la  politica  di  un  afflato  mistico»,  muovendo 
guerra  ideale  contro  l’ottimismo  e  Tindividualismo  romantico, 
l’ideologia  illuminista  e  lo  scientismo  materialista.  Perciò,  con¬ 
cludeva  Murri,  il  fascismo,  conservando  il  carattere  di  «una  ri¬ 
voluzione  non  tanto  politica  quanto  spirituale»,  avrebbe  avviato 
«quella  intima  rinnovazione  religiosa  che  tutta  la  storia  italiana, 
da  cinque  secoli,  invoca  e  prepara»^^.  E,  come  Murri,  molti  altri 
protagonisti  della  contestazione  culturale  del  radicalismo  nazio¬ 
nale  e  dell’avanguardia  modernistica  degli  anni  giolittiani  videro 
nel  fascismo  il  movimento  più  prossimo  al  loro  ideale  di  religio¬ 
ne  secolare  che  doveva  finalmente  formare  r«anima»  della  na¬ 
zione;  un  movimento,  per  di  più,  dotato  della  forza,  della  volontà 
e  dell’uomo  che  non  solo  aveva  saputo  interpretare  la  «nuova 
aspirazione  religiosa  della  nostra  coscienza  politica»*^,  ma  si  mo¬ 
strava  anche  capace  di  realizzarla  nella  creazione  di  uno  Stato 
nuovo.  Non  è  coincidenza  casuale  che,  come  vedremo  più  avan¬ 
ti,  il  mito  di  Mussolini-duce  abbia  avuto  la  sua  prima  manifesta¬ 
zione  proprio  nell’ambito  di  questi  gruppi  culturali,  e  che  alcu¬ 
ni  di  questi  intellettuali  abbiano  dato  una  mano  alla  trasforma¬ 
zione  del  mito  in  culto. 

Decisivo  per  l’elaborazione  della  teologia  politica  del  fascismo, 
fu  l’apporto  di  Giovanni  Gentile  e  di  molti  suoi  seguaci,  che  die¬ 
dero  alla  primitiva  rehgiosità  laica  dello  squadrismo  un  più  robu¬ 
sto  sostegno  culturale,  convinti  che  il  fascismo  fosse  la  ripresa  del¬ 
la  rivoluzione  morale  sognata  da  Mazzini.  Convertito  al  fascismo 
nel  1923,  il  filosofo  fu,  almeno  fino  agli  anni  Trenta,  il  principale 
teologo  dello  Stato  nuovo:  ma  anche  quando  la  sua  egemonia  cul¬ 
turale  nel  regime  cominciò  a  decHnare,  rimase  forte  ed  evidente  la 


Ivi,  pp.  6-7. 

B.  Giuliano,  L’esperienza  politica  dell’Italia,  Firenze  1924,  p.  311. 


102 


Il  culto  del  littorio 


sua  impronta  sulla  visione  fascista  dello  Stato^^.  Gentile,  che  dal¬ 
l’epoca  dell’interventismo  si  sentiva  impegnato,  come  erede  spiri¬ 
tuale  dei  «profeti  del  Risorgimento»  ad  operare  politicamente  per 
dare  una  fede  e  un’anima  allo  Stato  italiano,  vide  nel  fascismo  una 
vera  religione  perché  i  fascisti  avevano  «il  sentimento  religioso  per 
cui  si  prende  sul  serio  la  vita»^^,  «come  culto  reso  da  tutta  l’anima 
alla  nazione»^^.  Il  fascismo  realizzava  la  religione  politica  di  Mazzi¬ 
ni  nelle  forme  adatte  all’Italia  moderna,  che  aveva  affrontato  e  su¬ 
perato  la  prova  del  sacrificio  rigenerandosi  col  sangue  versato  nel¬ 
la  Grande  guerra;  «figlio  della  guerra»^^’,  esso  era  «la  coscienza  vi¬ 
va  e  operosa  della  nuova  anima  nazionale,  della  giovane  Italia  [...] 
che  fece  la  guerra»^ h  Dalla  sua  religiosità  Gentile  derivava  il  carat¬ 
tere  totalitario  della  dottrina  fascista,  espressione  di  una  «politica 
integrale,  la  quale  non  si  distingue  così  dalla  morale,  dalla  religione 
e  da  ogni  concezione  della  vita»^^.  E  al  fascismo  e  al  suo  capo.  Gen¬ 
tile  affidava  il  compito  di  risolvere  «il  problema  religioso»  che  ave¬ 
va  tormentato  gli  spiriti  del  Risorgimento,  portando  a  compimen¬ 
to  la  rivoluzione  incompiuta  con  la  creazione  di  uno  Stato  nuovo  in 
cui  realizzare,  in  modo  totalitario,  l’integrazione  delle  masse  nella 
nazione:  «La  quale  deve  a  grado  a  grado  accogliere  in  sé  effettiva¬ 
mente  e  non  solo  nominalmente,  nella  storia  e  nello  stato  civile,  tut¬ 
ti  gli  italiani,  e  tutti  educarli,  tutti  stringerli  nella  nuova  fede»^^. 

Lo  Stato,  nella  concezione  gentiliana  fatta  propria  dal  fasci¬ 
smo,  non  solo  era  l’educatore  delle  masse,  ma  era  anzi  il  creato¬ 
re  stesso  della  nazione  come  unità  morale  del  popolo.  In  quanto 
tale,  era  uno  Stato  che  ripudiava  l’agnosticismo  e  la  neutralità  di 
fronte  ai  cittadini  in  materia  di  valori  e  di  credenze,  e  si  poneva 
di  fronte  ad  essi  come  un  divino  demiurgo  «che  vuol  rifare  non 
le  forme  della  vita  umana,  ma  il  contenuto,  l’uomo,  il  carattere. 

Per  un’analisi  del  contributo  culturale  di  Gentile  e  dei  suoi  discepoli  al¬ 
la  elaborazione  dell’ideologia  del  fascismo,  cfr.  E.  Gentile,  Le  origini  dell’ideo¬ 
logia  fascista,  Bologna  1996^,  pp.  405-453;  per  l’aspetto  propriamente  filosofi- 
co,  cfr.  A.  Del  Noce,  Giovanni  Gentile,  Bologna  1990. 

G.  Gentile,  Fascismo  e  cultura,  Milano  1928,  p.  58. 

Id.,  Che  cos’è  il  fascismo,  Firenze  1925,  p.  145. 

20  Ivi,  p.  53. 

21  Ivi,  p.  170. 

22  G.  Gentile,  Origini  e  dottrina  del  fascismo,  Roma  1934,  riportato  in  Id., 
Politica  e  cultura,  voi.  I,  a  cura  di  H.A.  Cavallera,  Firenze  1990,  p.  395. 

2^  Id.,  Fascismo  e  cultura,  cit.,  p.  89. 


T 


Ini.  L’  «arcangelo  mondano»  103 

I 

la  fede»^"*.  In  forma  più  prosaica,  «Il  Popolo  d  Italia»  sosteneva 
che  il  fascismo,  prima  che  partito,  «è  soprattutto  religione  della 
Patria  e  del  dovere»,  che  si  prefiggeva  di  raccogliere  le  masse  an-  . 
cora  assenti  dalla  politica  per  «fare  gli  italiani»^^. 

Nel  regime,  la  definizione  del  fascismo  come  religione  dello 
Stato  divenne  formalmente  uno  dei  fondamenti  della  sua  cultu¬ 
ra,  e  la  ritroviamo  ovunque,  continuamente  ribadita  e  ripetuta 
come  formula  rituale  in  tutte  le  autorappresentazioni,  colte  o  in¬ 
genue,  del  fascismo;  divulgata  a  tutti  i  livelli  della  propaganda, 
da  ogni  grado  della  gerarchia.  La  religione  fascista,  scriveva  nel 
1925  un  popolare  giornalista  del  regime,  era  una  forza  morale 
che  dava  agli  italiani  «ordine,  disciplina,  armonia  di  sforzi,  vo¬ 
lontà  di  lavoro  e  di  potenza,  spirito  di  sacrificio,  amore  mistico 
della  patria,  obbedienza  cieca  ad  uno  solo,  coraggio  di  riforme», 
e  come  tale  era  una  fede  salvifica  per  tutto  il  mondo,  perché  of¬ 
friva  un  rimedio  «ai  mali  della  società  moderna,  senza  distrug- 
'  gerla  come  il  bolscevismo  nelle  sue  fondamenta  millenarie»-^.  Il 

:  coraggio  del  fascista  di  fronte  alla  morte,  scriveva  nel  1928  Sal- 

j  vatore  Gatto,  un  giovane  giornalista,  fascista  dal  1919  e  squadri¬ 

sta,  divenuto  nel  1941  vicesegretario  del  PNF,  era  la  prova  che  il 
'  fascismo  era  una  vera  religione,  come  il  cristianesimo: 

Il  Fascismo  è  religione,  politica  e  civile,  perché  ha  una  propria 
concezione  dello  Stato  e  un  modo  originale  di  concepire  la  vita  [...]  i 
martiri  cristiani  e  gli  eroi  giovinetti  della  Rivoluzione  Fascista  hanno 
confermato,  attraverso  i  tempi,  una  luminosa  realtà:  solo  una  religio¬ 
ne  può  negare  ed  annullare  l’attaccamento  alla  vita  mondana.^"^ 

I  Nel  1932  Mussolini  sentenziò  definitivamente  nella  Dottrina 

I  del  fascismo:  «Il  Fascismo  è  una  concezione  religiosa  della  vita, 

24  Mussolini,  La  dottrina  del  fascismo.  I.  Idee  fondamentali,  riportato  in  Id., 
Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XXXI'V,  pp.  120-121  (il  testo,  per  la  parte  filosofica, 
era  opera  di  Gentile). 

2’  P.  Pedrazza,  Facciamo  gli  italiani,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  5  giugno  1924. 
26  M.  Appelius,  cit.  in  La  religione  nazionale  del  fascismo,  in  «La  Vita  ita- 
3  liana»,  1925,  pp.  316-317. 

2^  S.  Gatto,  Di  fronte  al  passato,  in  «Il  Raduno»,  aprile  1928,  riportato  in 
Id.,  1923.  Polemiche  del  pensiero  e  dell’azione  fascista,  Roma  1934,  p.  61;  cfr. 
anche  Id.,  Fascismo  è  religione,  in  «La  Rivolta  Ideale»,  13  settembre  1925. 


104 


Il  culto  del  littorio 


in  cui  Tuomo  è  veduto  nel  suo  immanente  rapporto  con  una  leg¬ 
ge  superiore,  con  una  volontà  obiettiva,  che  trascende  l’indivi¬ 
duo  particolare  e  lo  eleva  a  membro  consapevole  di  una  società 
spirituale»^*^.  E  questa  società  trovava  la  sua  organizzazione  nel¬ 
lo  Stato  totalitario,  in  cui  Videa  fascista  doveva  perennemente 
concretizzarsi,  diventando  istituzione  e  fede  collettiva. 


Il  «vero  paradiso» 

L’idea  fascista,  aveva  scritto  il  federale  di  Milano  Giampaoli 
nel  1929,  «è,  come  l’idea  cristiana,  un  dogma  in  perpetuo  dive- 
nire»2"^.  Alla  luce  di  questa  definizione,  risultava  facile  giustifica¬ 
re  le  contraddizioni  o  i  cambiamenti  di  taluni  orientamenti  del¬ 
l’ideologia  fascista,  perché,  spiegava  il  filosofo  Balbino  Giuliano, 
ministro  dell’Educazione  nazionale,  la  religione  fascista  non  era 
irrigidita  in  una  teologia  definitiva: 

noi  non  riusciamo  a  determinare  nella  sua  esplicita  interezza  l’idea  fa¬ 
scista  in  un  concetto,  perché  essa  ha  tutti  i  caratteri  della  grande  idea 
religiosa,  che  come  il  sole  è  sempre  se  stessa  e  sempre  diversa,  non  è 
contenuta  in  nessun  concetto,  perché  produce  dal  suo  seno  teorie  di 
concetti,  perché,  ripeto,  è  religione  e  non  teologia.’® 

Il  sincretismo  dell’ideologia  fascista  accoglieva  orientamenti 
diversi  al  suo  interno,  ma  nessuno  di  questi,  in  realtà,  poteva  aspi¬ 
rare  a  presentarsi  come  una  interpretazione  autentica  della  «fe¬ 
de»,  né  mettere  in  discussione  i  capisaldi  della  religione  fascista. 
Questa,  in  effetti,  non  lasciava  affatto  in  uno  stadio  vaporoso  o 
fluido  le  determinazioni  dell’«idea  fascista»:  in  teoria  e  in  prati¬ 
ca  esse  convergevano  tutte  verso  la  sacralizzazione  dello  Stato,  di 
fronte  al  quale  la  fluidità  della  religione  si  irrigidiva  in  un  dogma 
che  non  consentiva  elasticità  di  interpretazioni.  Le  dichiarazioni 
della  dottrina  fascista,  stilata  da  Mussolini  con  la  collaborazione 
di  Gentile,  erano  perentorie  sulla  sacralità  dello  Stato  di  fronte 


Mussolini,  La  dottrina  del  fascismo  cit.,  p.  118. 

M.  Giampaoli,  1919,  Roma  1929,  p.  346. 

B.  Giuliano,  L’idea  etica  del  fascismo,  in  «Gerarchia»,  novembre  1932. 


III.  L’«arcangelo  mondano> 


105 


all’individuo:  per  il  fascista  «tutto  è  nello  Stato,  e  nuUa  di  uma¬ 
no  o  spirituale  esiste,  e  tanto  meno  ha  valore,  fuori  dello  Stato. 
In  tal  senso  il  fascismo  è  totalitario,  e  lo  Stato  fascista,  sintesi  e 
unità  di  ogni  valore,  interpreta,  sviluppa  e  potenzia  tutta  la  vita 
del  popolo»”:  «[...]  lo  Stato  è  un  assoluto,  davanti  al  quale  in¬ 
dividui  e  gruppi  sono  il  relativo»’^.  Del  resto,  lo  stesso  Giuliano 
aveva  affermato,  parlando  ai  giovani  della  Scuola  di  mistica  fa¬ 
scista,  che  «c’è  nello  Stato  una  maestà  divina  a  cui  è  dolce  per 
noi  obbedire»”. 

Nella  sacralizzazione  dello  Stato  totalitario  come  suprema 
autorità  politica,  spirituale  e  morale,  e  come  sommo  ed  unico 
educatore  della  collettività  si  manifestavano  i  principi  costituti¬ 
vi  e  il  massimo  ideale  della  cultura  fascista  e  la  sua  visione  del¬ 
la  politica:  una  visione  che,  nella  concezione  dello  Stato,  pote¬ 
va  anche  formalmente  riconoscere,  fra  i  suoi  antenati,  J.-J.  Rous¬ 
seau’"^.  Camillo  PeUizzi,  uno  dei  più  sensibili  interpreti  dei  miti 
fascisti,  immaginava  lo  Stato  quasi  come  «un  soggetto  mistico, 
un  arcangelo  mondano»,  e  considerava  il  più  grave  problema 
italiano  quello  di  «ricostituire  in  noi  un  senso  religioso  dello  Sta- 

Mussolini,  La  dottrina  del  fascismo  cit.,  p.  120.  L’ultima  frase  è  dovuta 
direttamente  all’intervento  del  duce  sul  testo  gentiliano,  che  più  genericamen¬ 
te  affermava  «il  fascismo  si  dice  totalitario»  e  lo  Stato  fascista  «compenetra  tut¬ 
ta  la  vita  del  popolo».  Il  testo  originale,  con  le  correzioni  mussoliniane  è  in  Ar¬ 
chivio  della  Fondazione  Gentile,  fase.  Mussolini. 

^2  Ivi,  p.  129. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  20  dicembre  1931. 

Si  veda,  in  proposito,  quanto  scriveva  Felice  Battaglia  nella  voce  Rous¬ 
seau  del  Dizionario  di  politica  del  Partito  fascista: 

«Il  contratto  sociale  non  è  all’origine  storica  dello  stato,  ma  criterio  intrin¬ 
seco  di  razionalità,  sia  che  ne  intenda  l’essere  profondo,  sia  che  orienti  l’azio¬ 
ne  sua  secondo  un  ideale  di  giustizia.  La  volontà  generale  non  è  più  la  volontà 
di  tutti,  ma  l’universale  volontà  che  gli  è  immanente,  e  che,  come  legittima  la 
legge,  fonda  altresì  l’autorità.  In  questo  senso  il  Rousseau  inaugura  quelle 
profonde  vedute  sullo  stato,  che,  attraverso  l’idealismo  germanico,  perverran¬ 
no  a  noi,  che  lo  stato  poniamo  su  un  piano  di  assolutezza,  oltre  ogni  empiri- 
cità.  Lo  stesso  popolo,  su  cui  tanto  egli  insiste,  non  è  moltitudine  disgregata, 
in  cui  ciascuno  conta  per  uno,  paritariamente,  secondo  l’interpretazione  de¬ 
mocratica,  ma  il  depositario  di  un  valore,  che  va  oltre  la  vita  singola,  perché 
dello  spirito,  di  un  valore  perenne  che  è  l’associazione,  il  vincolo,  l’unità.  As¬ 
solutismo,  altri  hanno  detto,  assolutismo  democratico,  ma  invero  non  è  tale, 
bensì  ripetiamo,  senso  della  razionalità  immanente  allo  stato  e  che  lo  fa  ap¬ 
punto  soggetto  morale,  campo  della  razionalità  compiuta  e  dispiegata  nella  po¬ 
litica»  (PNF,  Dizionario  di  politica,  voi.  IV,  Roma  1940,  p.  157). 


106 


Il  culto  del  littorio 


to»^5  La  tradizione  statalista  italiana  e  persino  lo  statalismo 
neoassolutista  di  Alfredo  Rocco,  che  pure  era  Tarchitetto  dello 
Stato  fascista,  quasi  impallidivano  di  fronte  ai  più  spericolati  pa¬ 
negirici  della  sacralità  dello  Stato,  disseminati  da  politici  e  in¬ 
tellettuali  del  regime:  «Lo  stato  fascista  -  scriveva  Paolo  Orano 
-  non  può  essere  concepito  e  creduto  e  servito  e  glorificato  che 
religiosamente»,  e  neir«adesione  al  fascismo  c’è  una  vocazione 
mistica  che  traduce  in  missione  religiosa  la  condotta  civile».  An¬ 
che  il  cattolicismo,  per  Orano,  doveva  contribuire  a  rafforzare 
la  convinzione  che  lo  Stato  è  «onnipossente  e  fonte  d’ogni  be¬ 
ne  e  d’ogni  ascensivo  destino  nazionale»:  «tutto  ciò  che  il  cat¬ 
tolicismo  ha  di  fattivo,  il  fascismo  lo  assorbe  e  se  ne  alimenta  e 
della  nazione-stato  fa  il  più  glorioso  regno  di  Dio  in  terra»^^’. 
Bottai  stesso,  che  pure  sovente  polemizzava  con  il  dogmatismo 
dei  fascisti  più  intransigenti,  fu  uno  dei  più  appassionati  asser¬ 
tori  del  culto  dello  Stato,  in  cui  vedeva,  gentilianamente,  il  va¬ 
lore  supremo  della  vita  sociale,  la  più  alta  e  completa  manife¬ 
stazione  della  spiritualità  dell’uomo,  perché  nello  Stato 

l’uomo  realizza  i  più  alti  valori  morali  della  sua  vita  e  perciò  supera 
tutto  quello  che  vi  è  in  lui  di  particolare:  convenienze  personali,  in¬ 
teressi,  la  vita  stessa,  se  è  necessario.  Nello  Stato  noi  vediamo  l’attua¬ 
zione  dei  massimi  valori  spirituali:  continuità  oltre  il  tempo,  grandezza 
morale,  missione  educatrice  di  sé  e  degli  altri.^^ 

Per  Bottai,  lo  «Stato  potente  non  è  il  braccio  secolare  del  di¬ 
vino,  che  vive  nel  pensiero,  ma  è  il  segno  d’ima  sacra  autenticità 
del  pensiero.  Uno  Stato  eroico  è  la  terrena  espressione  d’un  pen¬ 
siero  eroico»^^.  E  dalla  sacralità  dello  Stato  discendeva,  natural¬ 
mente,  la  relatività  dell’individuo,  «transeunte  elemento,  parte¬ 
cipe  di  un’opera  immensa,  che  lo  trascende:  egli  porta  il  suo  con¬ 
tributo  e  scompare.  Il  suo  dovere  è  di  dare  la  sua  opera  alla  co- 


Q  Pellizzi,  L’iniziativa  individuale  nella  politica  fascista,  in  «Gerarchia», 
dicembre  1931;  Id.,  Religiosità  dello  Stato,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  20  agosto 
1927. 

P.  Orano,  Il  Fascismo,  voi.  II,  Roma  1939,  pp.  140-146. 

G.  Bottai,  Stato  corporativo  e  democrazia,  in  «Lo  Stato»,  marzo-anrile 

1930. 

Id.,  Filosofia  e  rivoluzione,  in  «Primato»,  1°  novembre  1940. 


III.  L’ «arcangelo  mondano) 


107 


struzione  della  vita  collettiva  nazionale,  alla  costruzione  dello  Sta¬ 
to,  dovere  che  non  viene  meno  mai»^^. 

Ci  siamo  finora  imbattuti  in  filosofi,  intellettuali  e  gerarchi  del 
regime,  per  i  quali  l’esaltazione  dello  Stato  poteva  essere  anche  un 
rituale  atto  di  dedizione  compiuto  per  dovere  burocratico.  Ma  la 
sacralizzazione  dello  Stato  non  rimaneva  affatto  confinata  nel  cer¬ 
chio  dei  dottrinari  e  dei  burocrati:  essa  pervadeva  e  dominava  tut¬ 
to  l’universo  simbolico  fascista,  permeava  le  istituzioni  attraverso 
le  quali  Stato  e  partito  operavano  per  il  controllo  e  la  trasforma¬ 
zione  della  coscienza  collettiva,  si  introduceva  in  ogni  aspetto  del¬ 
la  vita  pubblica  e  dell’educazione,  onnipresente,  come  una  divinità 
che  tutti  assorbe,  annichilendoli  nella  subordinazione  alla  sua 
propria  superiore  essenza  collettiva.  Il  partito  fascista  insegnava 
che  fin  «dai  più  teneri  anni  l’idea  dello  Stato  deve  operare  suUe  gio¬ 
vani  anime  con  la  suggestione  di  un  mito  che,  crescendo  l’età,  si  at¬ 
tua  in  forme  di  disciplina  civile  o  di  operante  milizia»"*®.  Lo  Stato, 
dichiarava  ancora  Bottai  nelle  vesti  di  ministro  dell’Educazione, 
aveva  la  sua  morale  che  «investe  di  necessità  tutte  le  attività  uma¬ 
ne  e  finanche  i  pensieri»,  continuando,  «giorno  per  giorno,  nella 
sua  opera  di  rifacimento  del  carattere  degli  Italiani»'*  b  Agli  alunni 
delle  scuole  elementari  veniva  insegnato  che  «il  vero  paradiso  è 
ove  si  fa  la  volontà  di  Dio,  che  viene  sentita  anche  attraverso  la  vo¬ 
lontà  dello  Stato»"*^.  Un  giovane  antifascista,  cresciuto  nel  regime, 
ha  lasciato  una  testimonianza  eloquente  del  clima  in  cui  erano  edu¬ 
cate  le  nuove  generazioni: 

[Il  fascismo]  mi  veniva  presentato  e  mi  si  presentava  come  una  con¬ 
cezione  totale,  come  una  religione,  con  un  suo  nume:  lo  Stato,  con  un 
suo  supremo  atto  di  culto:  la  guerra,  con  una  sua  ascesi:  la  volontà  di 
uccidere  e  di  farsi  uccidere,  con  un  suo  stile  onnicomprensivo  di  vi¬ 
ta:  lo  «stato  di  alta  tensione  ideale»,  cioè  la  disposizione  perenne  al 
«sacrificio  supremo»  [...]  Lo  Stato  è  tutto.  Esso  era  il  nume  cui  tutto 
doveva  sacrificarsi.'*^ 


Id.,  Esperienza  corporativa  (1929-1935),  Firenze  1935,  p.  586. 

40  pjqp  II  cittadino  soldato,  Roma  1936,  p.  13. 

G.  Bottai,  Le  carte  della  scuola,  Milano  1941,  pp.  417-418. 

Il  libro  della  terza  classe  elementare,  Roma  1936,  p.  65  (l’autore  era  Naz¬ 
zareno  PadeUaro). 

Autotobiografie  di  giovani  del  tempo  fascista,  Brescia  1947,  pp.  18-21. 


108 


Il  culto  del  littorio 


Alla  sacralizzazione  dello  Stato  educatore  e  alla  propaganda 
della  fede  partecipavano  tutte  le  istituzioni  del  regime,  dalla  scuo¬ 
la  ai  sindacati,  ma  il  ruolo  principale  spettava  al  partito,  cui  era 
affidato  il  compito  di  alimentare  «nel  popolo  il  culto  dello  stato» 
per  mutare  «il  gelido  rapporto  fra  il  sovrano  e  il  popolo,  in  un 
rapporto  religioso  di  devozione»,  al  fine  di  trasformare  «i  suddi¬ 
ti  in  fedeli»'^'*. 


Lordine  militare  religioso 

L’ideologia  fascista,  come  teologia  politica  dello  Stato,  fu  fa¬ 
cilmente  cristallizzata  nei  comandamenti  di  un  «credo».  Ciò  con¬ 
sentì  al  fascismo  di  non  esporsi  ai  rischi  di  conflitti  dottrinari. 
L’unica  interpretazione  «vera»  era  la  pratica  quotidiana  della  fe¬ 
de,  vissuta  come  dedizione  religiosa  e  totale  -  almeno  per  quan¬ 
to  riguardava  i  fini  supremi  della  vita  in  questo  mondo  -  alla  vo¬ 
lontà  dello  Stato.  Per  sublimare  il  significato  di  questa  militanza 
politica  fondata  esclusivamente  sull’obbedienza  e  la  dedizione,  i 
fascisti  definivano  il  partito  come  «un  Ordine  religioso  e  milita¬ 
re.  È  religioso  perché  ha  la  sua  fede  propria,  nella  sua  coscienza; 
è  militare,  perché  obbedendo  al  suo  imperativo  interiore  difen¬ 
de  la  sua  fede  ed  incontra  il  sacrificio  per  essa.  Questo  è  il  ca¬ 
rattere  mistico  del  Fascismo,  milizia  di  credenti  in  un  mondo  sfi¬ 
duciato  ed  imbelle»"*^.  E  il  fascismo  non  nascondeva  che  la  sua 
politica  mirava  a  realizzare  un  tipo  di  organizzazione  simile  alla 
Chiesa  cattolica,  eletta  a  modello  per  la  costruzione  dello  Stato 
totalitario: 

Una  delle  novità  essenziali  dello  Stato  fascista  -  affermò  Alfredo 
Rocco  -,  che  esso  ha  sotto  qualche  punto  di  vista  comune  con  un’al¬ 
tra  grande  istituzione  dalla  vita  millenaria,  la  Chiesa  cattolica,  è  quel¬ 
la  di  possedere,  accanto  alla  normale  organizzazione  dei  poteri  pub¬ 
blici,  un’altra  organizzazione  comprendente  una  infinità  di  istituzio¬ 
ni,  le  quali  hanno  per  iscopo  di  avvicinare  lo  Stato  alle  masse,  di  pe¬ 
netrare  profondamente  in  esse,  di  organizzarle,  di  curarne  più  da  vi- 


M.  Maraviglia,  Alle  basi  del  regime,  Roma  1929,  p.  36. 
Santa  Milizia,  cit. 


III.  L' «arcangelo  mondano> 


109 


cino  la  vita  economica  e  spirituale,  di  farsi  tramite  ed  interprete  dei 
loro  bisogni  e  delle  loro  aspirazioni.'*^ 

Ma  l’analogia  con  la  Chiesa  andava,  per  i  fascisti  totalitari,  ol¬ 
tre  gli  aspetti  organizzativi  e  sociali,  investendo  la  natura  religio¬ 
sa  di  questa  analogia. 

L’organizzazione  dello  Stato  fascista,  scriveva  «Critica  fasci¬ 
sta»,  «ripete  in  qualche  modo  taluni  caratteri  più  salienti  della 
organizzazione  cattolico-romana:  potere  che  assomma  ed  unifica 
le  attività  dei  consociati,  le  imprime  il  suo  carattere,  fa  dei  suoi 
fini  i  fini  più  alti  della  loro  vita  civile,  non  tollera  tentativi  di  sci¬ 
smi  o  di  eresie  civili»‘^'^ .  Come  idea  religiosa,  scriveva  nel  1931 
Carlo  Scorza,  allora  segretario  dei  Fasci  giovanili  di  combatti¬ 
mento,  alla  vigilia  di  capeggiare  una  violenta  campagna  contro 
l’Azione  cattolica,  il  fascismo  doveva  trarre  insegnamento  dalla 
«più  grande  e  saggia  maestra  che  la  storia  rammenti:  la  Chiesa 
Cattolica»,  non  quella  dei  poveri  e  umili  santi,  ma  «quella  degli 
imperituri  pilastri,  dei  grandi  Santi,  dei  grandi  Pontefici,  dei 
grandi  Vescovi,  dei  grandi  Missionari:  politici  e  guerrieri  che  im¬ 
pugnavano  la  spada  come  la  croce  e  usavano  indifferentemente 
il  rogo  e  la  scomunica,  la  tortura  e  il  veleno:  s’intende,  non  in 
funzione  di  potere  temporale  o  personale,  ma  sempre  in  funzio¬ 
ne  della  potenza  e  della  gloria  della  Chiesa».  E  come  «nuova 
grande  religione  civile  della  Patria»  il  fascismo  doveva  «ispirarsi 
a  questa  grande  scuola  di  intransigenza  e  di  fierezza»'**.  Per  Scor¬ 
za,  il  partito,  tramite  le  sue  organizzazioni  giovanili,  doveva  di¬ 
ventare  sempre  più  «un  ordine  religioso  armato»  sul  modello  del¬ 
la  Compagnia  di  Gesù,  consacrato  al  «mito  mussoliniano»'**^. 

Una  parte  importante  per  la  istituzionalizzazione  della  reli¬ 
gione  fascista  fu  svolta  dai  segretari  del  PNF.  Roberto  Farinacci, 
segretario  dal  1925  al  1926,  giustificò  con  la  «fede  domenicana» 
del  fascismo  la  politica  integralista  del  partito,  che  aiutò  l’in¬ 
staurazione  del  regime.  Ma  si  deve  soprattutto  ad  Augusto  Tu¬ 
rati  (1926-1930)  la  definizione  delle  forme  istituzionali  del  culto 

A.  Rocco,  Scritti  e  discorsi  politici,  voi.  Ili,  Milano  1938,  pp.  944-945. 

Dallo  Stato  alla  Chiesa,  in  «Critica  fascista»,  15  luglio  1931. 

C.  Scorza,  Odiare  i  nemici,  in  «Gioventù  fascista»,  12  aprile  1931. 

ACS,  SPD,  CR,  b.  3 1 ,  fase.  1 ,  Relazione  al  duce  sui  Fasci  giovanili  di  com¬ 
battimento,  11  luglio  1931. 


no 


Il  culto  del  littorio 


del  littorio.  Nei  suoi  discorsi  alle  masse  e  soprattutto  ai  giovani 
fascisti,  il  «nuovo  apostolo  della  religione  della  Patria»^®  predicò 
«il  bisogno  di  credere  in  maniera  assoluta;  di  credere  nel  Fasci¬ 
smo,  nel  Duce,  nella  Rivoluzione,  come  si  crede  nella  divinità  [...] 
noi  accettiamo  la  Rivoluzione  con  orgoglio,  noi  accettiamo  con 
orgoglio  questi  dogmi,  anche  se  ci  si  dimostri  che  sono  sbagliati, 
e  li  accettiamo  senza  discutere»^!.  Nel  1929,  Turati  fece  pubbli¬ 
care  un  catechismo  di  «dottrina  fascista»  per  fissare  l'interpreta¬ 
zione  ortodossa  della  «fede  fascista»,  contro  «storture  di  conce¬ 
zioni  e  di  espressioni»,  riaffermando  che  il  fascismo  si  fondava 
sulla  «subordinazione  di  tutti  alla  volontà  di  un  Capo»^^.  H  suo 
successore  Giovanni  Giuriati  (1930-1931)  intensificò  il  senso  fi¬ 
deistico  e  dogmatico  del  fascismo  soprattutto  fra  i  giovani,  svi¬ 
luppando  la  loro  organizzazione  per  formare  i  missionari  e  i  sol¬ 
dati  della  religione  fascista  secondo  il  comandamento  del  duce  - 
«credere,  obbedire,  combattere»  -  coniato  nel  1930  come  viati¬ 
co  per  i  Fasci  giovanili  allora  costituiti.  Infine,  durante  la  lunga 
segreteria  di  Achille  Starace  (1931-1939),  la  formalizzazione  del¬ 
la  religione  fascista,  attraverso  una  moltiplicazione  piuttosto  au¬ 
tomatica  dei  riti  del  culto  del  littorio,  con  una  definizione  meti¬ 
colosa  delle  regole  di  vita  per  il  fascista,  raggiunse  il  culmine,  tra¬ 
valicando  spesso  anche  il  limite  del  ridicolo  nella  esasperata  ri¬ 
cerca  di  un  conformismo  di  atti  diretto  a  produrre  un  conformi¬ 
smo  di  coscienze  e  di  credenze.  Tutto  questo  non  era  privo  di 
una  sua  logica.  Il  partito  probabilmente  non  si  peritava  di  sfida¬ 
re  anche  il  ridicolo,  nella  convinzione  che,  alla  fine,  l’abito,  o  me¬ 
glio,  lo  stile,  la  regola  di  comportamento  morale  e  di  costume  ci¬ 
vile,  fissata  entro  i  rigidi  parametri  di  una  ordinata  scansione  dei 
momenti  della  vita  pubblica,  come  altrettante  occasioni  di  eser¬ 
cizio  di  virtù  civile  e  testimonianza  di  fede,  avrebbe  determinato 
un  cambiamento  del  carattere,  portando  alla  nascita  dell’«italia- 
no  nuovo». 

Nel  1938  fu  pubblicato,  a  cura  del  PNF,  un  nuovo  catechi¬ 
smo  della  religione  fascista,  che,  sotto  forma  di  domande  e  ri¬ 
sposte,  intendeva  dare  ai  fascisti  una  «semplice  guida,  necessaria 

«Il  Popolo  d’Italia»,  29  ottobre  1926. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  16  luglio  1929. 

La  dottrina  fascista,  Roma  1929,  pp.  3,  13. 


III.  L’ «arcangelo  mondano> 


111 


per  la  cultura  dello  spirito  come  per  i  quotidiani  rapporti  dell’e¬ 
sistenza»^^.  Ogni  generazione,  ammoniva  «Critica  fascista»,  do¬ 
veva  abituarsi  a  considerarlo  come  «il  sillabario  della  sua  fede  po^ 
litica»^'^. 


In  principio  è  la  fede 

Tutto  il  processo  di  istituzionalizzazione  della  religione  fasci¬ 
sta  accentuò  la  formalizzazione  della  partecipazione  politica  dei 
militanti  del  PNF  nei  termini  di  una  adesione  fideistica  e  nell’a¬ 
dozione  di  uno  stile  di  vita  conforme  ai  dettami  della  precettisti¬ 
ca  emanata  dal  duce  e,  in  suo  nome,  dal  partito. 

Il  fondamento,  l’essenza  e  il  fine  dello  stile  di  vita  del  mili¬ 
tante  del  PNF  si  riassumevano  nella  fede,  parola  chiave  nel  lin¬ 
guaggio  politico  del  fascismo:  «Bisogna  accendere  tutta  l’anima 
ai  focolari  della  Fede:  bisogna  credere  nella  Patria  come  si  crede 
in  Dio  [...]  bisogna  divinizzare  negli  spiriti  questa  Italia  nostra 
già  tanto  divina,  come  Dio  ce  l’ha  data»,  proclamava  «Il  Popolo 
d’Italia»  aH’indomani  delle  celebrazioni  del  primo  anniversario 
della  «marcia  su  Roma»’^.  Il  nuovo  statuto  del  PNF  del  1926  re¬ 
cava  un  preambolo  intitolato  La  fede,  in  cui  era  solennemente  ri¬ 
badito  che  il  fascismo  «è  soprattutto  una  fede  che  ha  avuto  i  suoi 
confessori». 

La  identificazione  del  partito  con  un  ordine  religioso  milita¬ 
re  o  con  una  chiesa^^,  servì  anche  per  reprimere  i  dissensi  all’in¬ 
terno  del  partito  stesso,  per  espellere  i  ribelli  come  «traditori  del¬ 
la  fede»  ed  imporre  l’obbedienza  assoluta  ai  gregari.  L’iscrizione 
al  PNF  non  era  un  semplice  atto  di  adesione  ad  un  programma 
politico,  ma  comportava  un  atto  di  dedizione  totale,  consacrato 
dal  giuramento.  Durante  il  regime,  viene  introdotta  una  modifi¬ 
ca  molto  importante  nella  formula  del  giuramento,  per  cui  la  de¬ 
dizione  è  rivolta  non  alla  patria,  come  all’epoca  dello  squadrismo, 

PNF,  Il  primo  libro  del  fascista,  Roma  1938,  p.  7. 

Dogana,  in  «Critica  fascista»  1“  maggio  1939. 

Dopo  la  Marna,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  1“  novembre  1923. 

Cfr.  O.  Fantini  (a  cura  di).  Il  partito  fascista,  Roma  1931,  pp.  92,  138. 
Cfr.  P.  Pombeni,  Demagogia  e  tirannide,  Bologna  1984,  cap.  III. 


112 


Il  culto  del  littorio 


ma  specificamente  alla  causa  del  fascismo:  «Giuro  di  eseguire 
senza  discutere  gli  ordini  del  Duce  e  di  servire  con  tutte  le  mie 
forze  e,  se  è  necessario,  col  mio  sangue  la  causa  della  Rivoluzio¬ 
ne  Fascista»57.  Successivamente,  anche  in  seguito  alle  polemiche 
con  la  Chiesa,  venne  aggiunto  che  il  fascista  giurava  «nel  nome 
di  Dio  e  deiritalia»^^.  La  variazione  di  per  sé  era  significativa, 
non  solo  per  il  fatto  di  accostare  l’Italia  a  Dio  come  garante  del 
giuramento,  ma  per  la  definitiva  conferma  dalla  istituzionalizza¬ 
zione  della  militanza  fascista  come  impegno  religioso  di  tutta  re¬ 
sistenza,  fondato  sulla  fede  e  praticato  attraverso  l’obbedienza  as¬ 
soluta.  Il  giuramento  fascista,  spiegava  il  Dizionario  di  politica, 
«non  è  nel  suo  contenuto  adesione  platonica  a  un  sistema  ideo¬ 
logico,  ma  è  espressione  volitiva  di  fedeltà  intransigente  ad  una 
dottrina  intesa  non  come  ‘esercitazione  di  parole’  ma  come  con¬ 
cezione  di  vita.  È  un  ‘credo’  politico  e  nello  stesso  tempo  è  un 
‘comandamento’  d’azione  animata  da  profondo  contenuto  idea¬ 
le».  Giurando,  il  fascista  «compie  un  atto  di  fede:  accettazione 
cosciente  ed  integrale  dell’ordine  fascista  con  tutte  le  conse¬ 
guenze  che  ne  derivano»^^.  Chi  infrangeva  il  giuramento  era  un 
traditore  e  veniva  espulso  dalla  «comunità  fascista».  Nel  1926  il 
nuovo  statuto  del  PNF  decretò  che  il  fascista  espulso,  come  «tra¬ 
ditore  della  causa»,  doveva  «essere  messo  al  bando  dalla  vita  po¬ 
litica».  Un  nuovo  statuto  del  1929  aggravò  questa  sanzione,  che 
era  l’equivalente  della  scomunica  nella  Chiesa  cattolica:  l’espul¬ 
so  dal  partito  era  messo  «al  bando  dalla  vita  pubblica»^®. 

Il  tipo  ideale  deir«uomo  fascista»  era  il  credente-combatten- 
te  di  una  religione,  e  questo  modello  veniva  proposto  fin  dal¬ 
l’infanzia  alle  nuove  generazioni  inquadrate  nelle  organizzazioni 
del  partito.  L’ideale  della  pedagogia  fascista  era  un  «Balilla  di  6 
anni  che  giura  fedeltà  al  Duce,  che  sfila  inquadrato  al  ritmo  dei 
tamburi,  che  non  si  aggrappa  più  alle  gonnelle  della  mamma,  im- 


”  Statuto  del  PNF  del  1929,  art.  13.  La  formula  era  stata  introdotta  per  il 
giuramento  dei  militi  della  MVSN  nel  1926,  cfr.  PNF,  «Foglio  d’ordini»,  n.  7 
15  settembre  IV  (1926). 

Statuto  del  PNF  del  1932,  art.  14. 

”  M.  Martignetti,  Giuramento,  in  PNF,  Dizionario  dipolitica,  voi.  II,  Ro¬ 
ma  1940,  p.  316. 

“  Cfr.  la  raccolta  degli  statuti  del  PNF  in  M.  Missori,  Gerarchie  e  Statuti 
del  PNF,  Roma  1986. 


111.  L’ «arcangelo  mondano> 


113 


paurito,  ma  sogna  di  combattere  e  morire  per  la  patria»^L  I  gio¬ 
vani  fascisti  erano  esortati  soprattutto  a  credere  ciecamente  nel 
duce:  «Abbi  sempre  fede.  La  fede  te  l’ha  data  Mussolini,  perciò 
è  cosa  sacra  [...]  Tutto  quello  che  il  Duce  afferma,  è  vero.  La  pa¬ 
rola  del  Duce  non  si  discute  [...]  Dopo  il  ‘Credo’  in  Dio  recita, 
ogni  mattina,  il  ‘Credo’  in  Mussolini»^^.  L’organo  dei  Fasci  gio¬ 
vanili  proclamava  nel  1932  che  «Il  Fascismo  è  una  forma  di  vi¬ 
ta,  e  perciò  è  una  religione:  un  buon  fascista  è  un  religioso.  Noi 
crediamo  in  una  mistica  fascista,  perché  è  una  mistica  che  ha  i 
suoi  martiri,  che  ha  i  suoi  devoti,  che  tiene  e  umilia  tutto  un  po¬ 
polo  intorno  a  un’idea»^^.  Il  fascismo  considerava  la  «fede»  il  va¬ 
lore  primario  della  militanza  politica,  la  principale  qualità 
deir«uomo  fascista»,  al  di  là  delle  capacità  intellettuali.  Cultura 
e  intelligenza  contavano  meno  della  dedizione  ai  dogmi  della  re¬ 
ligione  fascista.  Negli  anni  del  regime,  almeno  in  linea  di  prin¬ 
cipio,  si  stabilì  che  la  «fede»  doveva  avere  la  precedenza  sulla 
«competenza»  perché  «la  fede  è  un  valore  integrale»^"*.  Il  testo 
ufficiale  di  dottrina  fascista,  per  i  corsi  di  preparazione  politica 
del  PNF  dove  si  formavano  i  nuovi  dirigenti,  insegnava  che  «so¬ 
lo  una  fede  può  creare  realtà  nuove»^’^.  Tutto  ciò,  del  resto,  era 
coerente  con  la  concezione  del  partito  come  «ordine  religioso¬ 
militare».  Il  partito  era  il  seminario  dove  venivano  allevati  gli 
apostoli  e  i  combattenti  della  religione  fascista,  e  i  nuovi  diri¬ 
genti  dello  Stato-chiesa.  La  somiglianza  della  militanza  fascista 
con  la  militanza  cattolica  è  evidente  nei  principali  riti  del  parti¬ 
to.  Dalla  liturgia  cattolica,  per  esempio,  era  ripreso  il  rito  della 
«Leva  fascista»,  istituita  nel  1927:  un  «rito  di  passaggio»  simile 
alla  cresima,  con  cui  i  giovani  provenienti  dall’organizzazione 
giovanile,  confermando  la  loro  fede  nel  fascismo,  venivano  «con¬ 
sacrati  fascisti»  diventando  membri  del  partito.  Il  rito  si  svolge- 


Istruzioni  sul  libro  della  prima  classe,  in  «Annali  dell’istruzione  elemen¬ 
tare»,  a.  XVI  n.  3  cit.  in  T.M.  Mazzatosta,  Il  regime  fascista  tra  educazione  e 
propaganda.  1935-1943,  Bologna  1978,  p.  144. 

«Eja»,  foglio  d’ordini  della  federazione  fascista  di  Ascoli  Piceno,  22  ago¬ 
sto  1936. 

M.P.  Bardi,  Mostra  della  Rivoluzione  Fascista,  in  «Gioventù  fascista»,  10 
luglio  1932. 

^  G.  Gamberini,  Fede  e  competenza,  in  «Critica  fascista»,  1°  agosto  1930. 

PNF,  La  dottrina  del  fascismo,  Roma  1936,  p.  15. 


Fig.  7.  La  premiazione  dei  Littoriali  in  occasione  del  V  annuale  dei 
Fasci  giovanili  celebrato  a  Roma  («La  Rivista  illustrata  del  Popolo  d’I¬ 
talia»,  ottobre  1935). 


III.  L' «arcangelo  mondano> 


115 


va  con  solenne  cerimonia  pubblica  in  tutte  le  città  ma  la  ceri¬ 
monia  più  solenne  si  svolgeva  a  Roma,  alla  presenza  del  duce.  Ai 
giovani  veniva  simbolicamente  consegnata  la  tessera  e  un  mo¬ 
schetto:  «La  prima  è  il  simbolo  della  fede;  il  secondo  è  lo  stru¬ 
mento  della  nostra  forza»,  proclamò  Mussolini  in  occasione  del¬ 
la  prima  «Leva»^^.  I  nuovi  fascisti,  dopo  l’appello  ai  caduti  fa¬ 
scisti,  giuravano  di  «eseguire  senza  discutere  gli  ordini  del  Du¬ 
ce»  e  di  servire  con  tutte  le  forze,  e  se  necessario  «col  sangue», 
la  causa  della  rivoluzione  fascista.  Il  segretario  del  PNF,  che  con¬ 
feriva  l’«altissimo  crisma  fascista»*’’^,  era  «il  sacerdote  che  parla 
con  voce  mistica,  con  appello  vivificatore»^’^:  «domani  -  disse  ai 
nuovi  fascisti  -  io  vi  posso  chiedere  conto  per  la  vita  e  per  la 
morte  di  ogni  vostro  atteggiamento,  di  ogni  vostro  gesto,  sia  buo¬ 
no  sia  cattivo»*^^. 

1 


Il  custode  della  fiamma  sacra 

La  partecipazione  del  partito  all’istituzionalizzazione  della  re¬ 
ligione  fascista,  al  di  là  delle  personali  convinzioni  dei  sommi  sa¬ 
cerdoti  del  regime,  fu  ispirata  anche  da  considerazioni  più  prag¬ 
matiche,  perché  fu  un  modo  per  affermare  e  legittimare  il  pri¬ 
mato  del  partito  nei  confronti  delle  altre  organizzazioni  del  regi¬ 
me.  Solo  il  partito,  sotto  gli  ordini  del  duce,  aveva  il  compito  di 
custodire  «la  fiamma  della  rivoluzione»,  per  agire,  nello  Stato  fa¬ 
scista,  come  «lievito  spirituale,  come  fiamma  alimentata  dal  san¬ 
gue  dei  Caduti»^®,  secondo  quanto  affermavano  i  testi  ufficiali 
per  i  corsi  di  preparazione  politica  del  PNF. 

Il  culto  dei  caduti,  che  aveva  avuto,  come  abbiamo  visto,  una 
parte  fondamentale  nella  nascita  della  liturgia  squadrista,  con¬ 
servò  un  posto  d’onore  nel  culto  del  littorio,  per  i  militanti  e  per  le 
masse.  Il  martirio  per  la  «Causa»  è  al  vertice  della  scala  dei  valori 

66  pNp^  «Foglio  d’ordini»,  n.  27,  27  marzo  V  (1927). 

Ivi,  n.  45,  17  marzo  VI  (1928). 

Adunate  del  fascismo,  in  «L’Ordine  fascista»,  marzo  1928. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  22  marzo  1928. 

70  PNP^  Il  partito  nazionale  fascista,  Roma  1936,  p.  53;  Id.,  Il  cittadino  sol¬ 
dato,  Roma  1936,  p.  19. 


116 


Il  culto  del  littorio 


dell’etica  fascista.  Come  tutte  le  religioni,  il  fascismo  dava  a  suo 
modo  una  risposta  al  problema  della  morte,  attraverso  l’esaltazio¬ 
ne  del  senso  comunitario  che  integra  l’individuo  nel  gruppo.  Chi 
moriva  con  la  fede  nel  fascismo  entrava  nel  suo  universo  mitico  ed 
acquistava  l’immortalità  nella  memoria  collettiva,  attraverso  la  ce¬ 
lebrazione  liturgica  del  culto  degli  eroi  e  dei  caduti; 

tutte  le  grandi  imprese  hanno  i  loro  eroi,  tutte  le  fedi  hanno  i  loro  san¬ 
ti  -  scriveva  il  vicesegretario  del  PNF  Arturo  Marpicati  -.  Il  culto  de¬ 
gli  eroi  ha  certo  radice  nel  fatto  che  essi,  anche  dopo  la  morte,  vivono 
come  forze  operanti  beneficamente  per  la  causa  per  la  quale  sono  ca¬ 
duti.  Chi  affronta  la  morte  per  una  causa,  ha  la  certezza  della  continuità 
della  sua  opera  oltre  il  limite  della  vita  mortale;  e  per  questa  certezza, 
sigillata  dal  martirio,  egli  veramente  vive,  come  forza  immateriale,  ma 
di  una  potenza  senza  limiti,  nella  continuità  delle  generazioni. 

Nel  Palazzo  littorio,  sede  della  segreteria  nazionale  del  PNF,  vi 
era  una  «cappella  votiva»,  dove  «arde  una  fiamma  che  mai  si  spe¬ 
gnerà.  È  stata  accesa  dal  Duce  col  fuoco  offertogli  da  un  Balilla»; 

La  fiamma  illumina  le  parole  con  cui  Mussolini  ha  tramandato  al¬ 
l’eternità  la  gloria  dei  martiri.  Vigila  in  alto  il  monito;  credere,  obbe¬ 
dire,  combattere.  Splendono  da  un  lato  le  parole;  Caddero  per  il  Fa¬ 
scismo  -  vivranno  -  nel  cuore  del  popolo  -  perennemente.  Di  fronte, 
solenne,  risponde  la  sicura  promessa:  Il  sacrificio  delle  Camicie  nere 
consacra  -  la  Rivoluzione  del  Littorio  -  nella  certezza  del  futuro  -  nel¬ 
la  gloria  della  Patria?^ 

In  ogni  sede  del  Fascio  vi  era  un  «sacrario»  dove  si  venerava 
la  memoria  dei  caduti  ed  erano  custoditi  il  gagliardetto,  i  cimeli 
del  «tempo  eroico»,  le  reliquie  dei  martiri.  Per  ricordare  «nei  se¬ 
coli  il  sacrificio  eroico  dei  caduti  per  la  rivoluzione  delle  camicie 
nere»,  come  recitava  l’epigrafe  dedicatoria,  era  stata  eretta  nel 
1926  sul  Campidoglio  un’ara,  che,  insieme  all’Altare  della  patria, 
fu  la  meta  spirituale  di  tutte  le  cerimonie  che  si  svolgevano  in 

A.  Marpicati,  Il  partito  fascista,  Milano  1935,  pp.  129-130.  Fin  dal  1925, 
il  partito  aveva  dedicato  particolare  cura  a  preservare  e  perpetuare  la  memoria 
dei  caduti  fascisti.  Cfr.  PNF,  Pagine  eroiche  della  rivoluzione  fascista,  Milano 
1925. 


III.  L’ «arcangelo  mondano> 


117 


piazza  Venezia.  Il  ricordo  dei  martiri  era  periodicamente  rinno¬ 
vato,  con  il  rito  dell’appello,  in  occasione  di  tutti  gli  anniversari 
del  regime.  Nella  ricorrenza  della  morte,  i  fascisti  compivano  un 
pellegrinaggio  sul  luogo  dove  questa  era  avvenuta,  segnalato  da 
una  lapide  o  da  un  monumento.  A  Milano,  sul  luogo  dove  erano 
caduti  tre  fascisti,  fu  eretta  una  «fontana  votiva»,  simbolo  del  pe¬ 
renne  zampillare  di  nuove  energie  dalla  memoria  dei  martiri.  Fre¬ 
quente  era  il  rito  di  dedicare  al  nome  di  un  martire  le  nuove  ope¬ 
re  compiute  dal  regime.  Anche  frequente  era  l’usanza  di  dedica¬ 
re  al  caduto  un  albero,  simbolo  di  vita,  di  saldo  radicamento  nel 
suolo  natio  e  di  ascensione  al  cielo.  Ai  caduti  fascisti  venivano 
talvolta  dedicati  speciali  sacrari  monumentali,  come  a  Bologna, 
per  raccoghere  le  loro  salme  in  un  unico  luogo  di  culto.  Le  sal¬ 
me  dei  caduti  fascisti  fiorentini  furono  traslate  nel  1934  nel  sa¬ 
crario  loro  dedicato  in  Santa  Croce,  con  una  solenne  cerimonia 
radiodiffusi:  «Il  nuovo  sacrario  -  scriveva  l’organo  dei  Fasci  gio¬ 
vanili  -  ha  in  sé  la  suggestione  che  esalta  la  bella  morte»"^^. 

La  funzione  sacerdotale  del  partito,  esaltata  soprattutto  dai 
suoi  dirigenti,  era  svolta  anche  attraverso  un’intensa  rappresen¬ 
tazione  simbolica  che  mirava  a  rivestire  di  «sacralità»  la  sua  pre¬ 
senza  nella  vita  civile.  Per  esempio,  le  sedi  locali  del  PNF,  le  Ca¬ 
se  del  Fascio,  erano  considerate  le  «chiese  della  nostra  fede»,  «gli 
altari  della  religione  della  Patria»,  dove  «coltiveremo  il  religioso 
ricordo  dei  nostri  morti»  ed  «opereremo  a  purificare  l’anima»^^. 
Come  propri  «luoghi  santi»  il  partito  venerava  i  locali  e  le  piaz¬ 
ze  delle  prime  adunate,  come  il  «covo»,  prima  sede  del  giornale 
di  Mussolini,  piazza  S.  Sepolcro,  e  la  piazza  Beigioioso. 

Nel  quadro  di  questa  attività  sacerdotale  rientrava  anche  la 
custodia  e  la  venerazione  dei  simboli  del  partito.  Dall’epoca  del¬ 
lo  squadrismo,  come  abbiamo  visto,  la  benedizione  dei  gagliar¬ 
detti  era  uno  dei  più  «sacri»  riti  fascisti.  Il  gagliardetto,  benedetto 
sempre  in  nome  dei  martiri  fascisti,  veniva  santificato  come  sim¬ 
bolo  della  comunione  spirituale  della  squadra  nei  suoi  compo¬ 
nenti  vivi  e  morti.  Citiamo,  in  proposito,  un  episodio  singolare 
di  cui  fu  protagonista  Carlo  Scorza,  allora  segretario  federale  di 

G.  Pucci,  Santa  Croce  sacrario  dei  nostri  martiri,  in  «Gioventù  fascista», 
1"  novembre  1934. 

«II  Popolo  d’Italia»,  9  e  30  ottobre  1923. 


118 


Il  culto  del  littorio 


Lucca.  Nel  1928  durante  una  cerimonia  a  Valdottavo  al  momen¬ 
to  della  benedizione  dei  gagliardetti,  poiché  era  mancata  la  par¬ 
tecipazione  del  prete,  Scorza  prese  tre  gagliardetti  e  li  benedisse 
lui  stesso  in  nome  dei  martiri  fascisti: 

I  nostri  gagliardetti  -  disse  nella  sua  orazione  -  li  abbiamo  benedetti 
noi  perché  quando  andavamo  a  farci  scannare  non  chiedevamo  mai  una 
benedizione,  non  perché  volessimo  compiere  qualcosa  di  irreligioso. 
Dopo  che  abbiamo  ridato  la  dignità  ai  sacerdoti,  dopo  aver  messo  il 
crocifisso  nelle  scuole  laddove  era  stato  scacciato,  abbiamo  il  diritto  di 
infischiarci  della  benedizione  di  quel  Dio  che  tutti  abbiamo  nel  cuore. 
Alla  nostra  benedizione  si  unisce  quella  di  tutte  le  mamme,  di  tutte  le 
spose,  di  tutti  gli  orfani  della  doppia  guerra:  la  benedizione  di  tanto 
sangue  versato  che  se  si  potessero  versare  tutte  le  pile  di  acqua  santa 
non  potremmo  avere  un  lavacro  più  santo.  Le  bandiere  potranno  sven¬ 
tolare  al  sole  sicure  di  essere  non  meno  nobili  delle  altre.  Quando  di 
fronte  a  tutte  le  fiamme  nere  dei  Balilla  e  degli  Avanguardisti  si  trove¬ 
ranno  gli  stracci  bianchi  dei  circoli  cattolici  dei  quali  non  è  noto  il  pro¬ 
gramma  non  certo  le  nostre  lance  si  piegheranno. 

E  concluse  ricordando  i  caduti:  «Valdottavo  deve  divenire  un 
Altare  Fascista  [...]  Due  morti  e  quattro  feriti  hanno  santificato 
Valdottavo,  voi  gente  dovete  esserne  degne»'^"'. 

Le  insegne  del  partito  conservarono  nel  regime  questa  fun¬ 
zione  simbolica  sacralizzante,  ad  ogni  livello  dell’organizzazione, 
con  il  crisma  di  un  culto  ufficiale  istituzionalizzato  aU’interno  del 
partito  ma  reso  obbligatorio  per  tutti  gli  italiani'^^.  Norme  parti- 

Cfr.  «Il  Telegrafo»,  21  maggio  1928,  in  ACS,  SPD,  CR,  b.  88,  fase.  «Car¬ 
lo  Scorza». 

”  Si  veda  quanto  prescriveva  il  segretario  del  PNF  nel  1926:  «‘Giù  il  cappel¬ 
lo’.  È  una  consuetudine  dei  fascisti  più  che  legittima  quella  di  esigere  dai  passan¬ 
ti  durante  le  nostre  sfilate,  il  saluto  ai  gagliardetti  che  sono  il  simbolo  vivo  della 
nostra  passione  nutrita  di  sacrificio  e  della  nostra  fede  nuova  italiana  e  fascista. 

II  Segretario  Generale  del  Partito,  allo  scopo  di  precisare  su  questo  punto 
alcune  norme,  stabilisce  che  d’ora  innanzi  i  simboli  per  i  quali  si  deve  esigere 
l’atto  di  omaggio,  siano  esclusivamente;  i  labari  delle  Legioni  ed  i  gagliardetti 
dei  Fasci,  segnacoli  i  primi  delle  nostre  forze  armate  rivoluzionarie;  testimoni 
i  secondi  del  martirio  dei  nostri  indimenticabili  Caduti. 

Il  Partito  dichiara  che  non  si  deve  esigere  il  saluto  per  ognuna  delle  mille 
e  mille  fiamme  di  squadre,  di  gruppi  Balilla,  Avanguardisti,  Sportivi  e  Piccole 
italiane».  PNF,  «Foglio  d’ordini»,  n.  14,  12  novembre  V  (1926). 


III.  L’ «arcangelo  mondano> 


119 


colarmente  severe  vennero  emanate  per  l’uso  del  fascio  littorio, 
dei  distintivi  e  della  «camicia  nera»,  al  fine  di  proteggerne  la  «sa¬ 
cralità»  come  simboli  della  fede  fascista.  Il  gagliardetto,  stabiliva 
lo  statuto  del  1929,  era  «il  simbolo  della  fede».  Ai  gagliardetti  dei 
Fasci  spettava  nelle  cerimonie  ufficiali  una  scorta  d’onore  della 
MVSN  comandata  da  un  ufficiale;  al  gagliardetto  del  Direttorio 
nazionale  e  delle  Federazioni  provinciali  erano  dovuti  anche  gli 
onori  militarF^.  Alto  significato  simbolico  veniva  attribuito  al  la¬ 
baro  della  Segreteria  generale  e  al  labaro  del  duce,  cui  erano  tri¬ 
butati  onori  speciali  durante  le  «uscite»  per  le  grandi  adunate  di 
massa  o  per  le  riunioni  dei  gerarchi  del  PNF.  Con  la  devozione 
particolare  dovuta  ad  una  santa  reliquia  era  custodito  anche  il 
primo  gaghardetto,  quello  del  Fascio  di  Milano,  Nel  1932,  per  la 
ricorrenza  del  23  marzo,  si  svolse  nella  «sacra  e  storica»  piazza 
S.  Sepolcro,  una  cerimonia  per  la  sostituzione  del  vecchio  vessil¬ 
lo  con  una  nuova  insegna.  L’oratore,  ripiegando  «il  drappo  glo¬ 
rioso»  invocò  i  «nostri  Caduti»  che  «qui  convenuti  a  ricerverne 
la  simbolica  consegna,  lo  sollevano  lassù,  ove,  come  la  luce  vivi¬ 
da  del  loro  sacrificio,  risplenderà  per  sempre,  ad  alimentare  eter¬ 
namente  la  nostra  fede».  Quando  la  nuova  insegna  venne  sciolta 
al  vento,  la  folla  salutò  «il  vecchio  gagliardetto  mentre  la  pattu¬ 
glia  eroica  lo  trasporta  iti  alto,  insegna  eterna  del  suo  olocausto 
e  della  nostra  fede»^^. 

L’intensificazione  del  ruolo  sacerdotale  del  PNF  nel  culto  del 
littorio,  specialmente  durante  la  segreteria  di  Starace,  accompa¬ 
gnò  la  silenziosa  strategia  del  partito  per  espandere  il  suo  potere 
all’interno  dello  Stato.  Nel  1932  Starace  volle  rendere,  per  così 
dire,  più  risonante  la  presenza  simbolica  del  partito,  come  cen¬ 
tro  spirituale  del  regime,  decretando  che  ogni  Casa  del  Fascio 
doveva  avere  una  «torre  littoria»  munita  di  campane,  da  suona¬ 
re  in  occasione  dei  riti  del  regime.  Ancora  una  volta,  all’origine 
di  una  iniziativa  rituale  del  partito,  si  trova  il  pungolo  dell’emu¬ 
lazione  della  tradizione  cattolica.  Col  suono  delle  campane,  stru¬ 
mento  «ad  un  tempo  mistico  e  popolare»,  spiegò  l’organo  dei  Fa- 

Statuto  del  PNF  del  1929,  art.  2.  Nei  successivi  statuti  del  1932  e  del 
1938  il  culto  reso  ai  gagliardetti  e  ai  labari  del  PNF  divenne  più  articolato  e 
solenne. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  24  marzo  1932. 


120 


Il  culto  del  littorio 


sci  giovanili,  il  fascismo  evocava  una  plurisecolare  tradizione  re¬ 
ligiosa  e  civile,  rendendo  più  espressivo  «il  suo  originario  e  più 
che  mai  vivo  carattere  di  religione.  Religione  politica,  risultato  di 
una  virile,  romana  educazione  dello  spirito,  che  non  può  non  in¬ 
tegrarsi  mirabilmente  con  la  rehgione  del  ‘divino’»^®.  Anche  in 
questo  modo,  il  partito  rivendicava  la  sua  funzione  di  custode 
dell’idea  e  propagatore  della  fede  fascista. 


Il  fascio  e  la  croce 

Nelle  pagine  di  dottrina  fascista,  in  cui  affermava  la  totalità 
spirituale  dello  Stato,  Mussolini  aveva  aggiunto  che  lo  Stato  fa¬ 
scista  non  pretendeva  affatto  di  mettere  sugli  altari  un  suo  nuo¬ 
vo  dio,  come  aveva  fatto  Robespierre,  ma  riconosceva  «il  Dio  de¬ 
gli  asceti,  dei  santi,  degli  eroi  e  anche  il  Dio  così  com’è  visto  e 
pregato  dal  cuore  genuino  e  primitivo  del  popolo».  Lo  Stato  fa¬ 
scista,  aggiungeva  Mussolini,  non  aveva  una  teologia,  ma  aveva 
una  morale.  Tuttavia,  per  il  fatto  stesso  di  rivendicare  allo  Stato 
la  sua  propria  morale,  il  fascismo  si  arrogava  in  realtà  la  funzio¬ 
ne  propria  della  religione,  la  prerogativa  di  definire  il  significato 
e  il  fine  ultimo  dell’esistenza  per  milioni  di  uomini  e  donne,  se¬ 
condo  la  propria  concezione  totalitaria  della  politica,  che  pone¬ 
va  lo  Stato  come  valore  supremo  e  assoluto.  Nello  Stato  fascista, 
spiegava  un  giurista,  «è  il  principio  etico  che  determina  la  sua  re¬ 
ligiosità  e  non  la  religione  che  determina  la  sua  impronta  etica»^^. 
Gentile  ricordava  che  lo  Stato  controllava  la  religione  «sempre  e 
soltanto  per  i  suoi  fini  e  per  questo  rispetto  la  governa,  per  mo¬ 
do  che  lo  Stato  può,  in  un  dato  momento,  contraddire  alla  reh¬ 
gione,  specialmente  per  quel  che  riguarda  l’ideale  della  pace  e  la 
necessità  della  guerra»^®. 

Il  fascismo,  in  effetti,  non  si  limitò  affatto  a  venerare  il  Dio 
della  tradizione,  patrimonio  della  «religione  dei  padri»,  ma  in¬ 
tervenne  nella  dimensione  religiosa,  come  abbiamo  visto,  co- 

C.  De  Leva,  La  Torre  littoria,  in  «Gioventù  fascista»,  30  dicembre  1932. 

G.  Bortolotto,  Lo  Stato  e  la  dottrina  corporativa,  Bologna  1930,  p.  39. 

G.  Gentile,  Fuori  dell’equivoco,  in  «Corriere  della  Sera»,  4  settembre 
1929,  cit.  ivi,  p.  40. 


III.  L’ «arcangelo  mondano> 


121 


struendo  un  proprio  universo  di  miti,  di  riti  e  di  simboli  incen¬ 
trato  sulla  sacralizzazione  dello  Stato.  E,  per  questo,  rivaleggiò 
con  la  Chiesa  cattolica  per  il  controllo  e  la  formazione  delle  co¬ 
scienze,  anche  se,  reso  cauto  dall’esperienza  fallimentare  di  altri 
esperimenti  di  religioni  laiche  antagoniste  della  religione  tradi¬ 
zionale,  evitò  di  avventurarsi  in  una  guerra  di  religione  con  il 
cattolicismo.  Verso  la  Chiesa  l’atteggiamento  del  fascismo  fu 
ispirato  più  dal  realismo  politico  che  dal  fanatismo  ideologico, 
mettendo  in  atto  quella  che  potremmo  chiamare  una  strategia 
sincretica  di  convivenza,  mirante  ad  associare  il  cattolicismo  nel 
proprio  progetto  totalitario.  Mussolini,  come  osservò  Armando 
Carlini,  della  religione  comprendeva  «soltanto  il  lato  umano  e 
storico»  perché  egli  era  «un  laico,  un  purissimo  laico»,  e  rima¬ 
neva  sempre  «il  seguace  di  Nietzsche»:  di  conseguenza  «la  mo¬ 
rale  del  Fascismo  da  lui  fondato  è  tutta  un’esaltazione  di  prin¬ 
cipi  fondamentalmente  pagani»^b  Mussolini  aveva  anche  una 
grande  considerazione  per  il  valore  e  la  potenza  della  religione 
nella  vita  collettiva,  in  quanto  fede  e  tradizione  mitico-simboli- 
ca  che  hanno  forti  radici  nella  coscienza  delle  masse.  Perciò  era 
convinto  che  il  fascismo,  pur  rivendicando  il  primato  della  po¬ 
litica  e  l’eticità  dello  Stato  fascista  (che  «è  Cattolico,  ma  è  Fa¬ 
scista,  anzi  soprattutto,  esclusivamente,  essenzialmente  Fasci- 
sta»^^),  doveva  evitare  una  guerra  di  religione  perché  su  questo 
campo  la  sconfitta  sarebbe  stata  altamente  probabile.  In  un  rap¬ 
porto  segreto  ai  dirigenti  federali,  tenuto  all’inizio  del  1930  e  ri¬ 
masto  inedito^^.  Mussolini  diede  direttive  chiare  in  proposito; 

Non  bisogna  imbottigliarsi  nell’antireligiosità  per  non  dare  moti¬ 
vo  ai  cattolici  di  turbarsi.  Bisogna  invece  intensificare  l’azione  educa¬ 
tiva,  sportiva,  culturale.  Finché  i  preti  fanno  tridui,  processioni  ecc., 
non  si  può  fare  nulla:  in  una  lotta  su  questo  terreno  fra  religione  e 
Stato  perderebbe  lo  Stato.  Un’altra  cosa  è  però  l’Azione  cattolica  e  lì 
è  nostro  dovere  fronteggiare;  quindi  nel  campo  religioso  il  massimo 
rispetto,  come  del  resto  ha  sempre  fatto  il  Fascismo;  l’azione  di  ac- 


A.  Carlini,  Filosofia  e  religione  nel  pensiero  di  Mussolini,  Roma  1934,  p.  9. 
Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XXIV,  p.  89  (discorso  alla  Camera  del 
13  maggio  1929). 

ACS,  MRF,  b.  52,  fase.  «Venezia  Euganea»,  sottofasc.  «Vicenza»;  fase. 
«Lombardia»,  sottofasc.  «Milano». 


122 


Il  culto  del  littorio 


caparramento  degli  individui  fronteggiarla  con  altri  mezzi  adatti,  non 
però  esagerando  i  pericoli  e  non  deprimendoci  noi  stessi  rappresen¬ 
tandoceli  troppo  gravi.  Guerra  santa  in  Italia,  mai;  i  preti  non  porte¬ 
ranno  mai  i  contadini  contro  lo  Stato  [...]  in  linea  di  massima,  con¬ 
sentire,  e  mostrarsi  deferenti  anche,  per  tutto  ciò  che  riguarda  mani¬ 
festazioni  religiose  processioni  ecc.  tutto  ciò  che  riguarda  la  salvezza 
delle  anime;  nel  Protestantesimo  ognuno  si  salva  da  sé;  ma  noi  siamo 
cattolici  e  li  lasciamo  fare.  Li  combattiamo  invece  senz’altro  non  ap¬ 
pena  tentano  di  sconfinare  nel  campo  politico,  sociale,  sportivo. 

Attenendosi  a  questa  realistica  linea  di  orientamento,  quattro 
anni  dopo  il  duce  ribadì  la  sua  convinzione  sulla  questione  dei 
rapporti  fra  Stato  e  religione,  lasciandosi  andare  anche,  per  me¬ 
glio  chiarire  il  suo  pensiero,  ad  una  allusione  ironica  sulle  cor¬ 
renti  di  religiosità  neopagana  che  proliferavano  nella  Germania 
nazista.  Il  nazismo  non  godeva  allora  le  simpatie  del  duce.  Per 
fare  le  sue  dichiarazioni.  Mussolini  scelse  una  tribuna  straniera: 

Nel  concetto  fascista  di  Stato  totalitario,  la  religione  è  assoluta- 
mente  libera  e,  nel  suo  ambito,  indipendente.  Non  ci  è  mai  passato 
per  l’anticamera  del  cervello  la  bislacca  idea  di  fondare  una  nuova  re¬ 
ligione  di  Stato  o  di  asservire  allo  Stato  la  religione  professata  dalla 
totalità  degli  italiani.  Il  compito  dello  Stato  non  consiste  nel  tentare 
di  creare  nuovi  vangeli  o  altri  dogmi,  di  rovesciare  le  vecchie  divinità 
per  sostituirle  con  altre,  che  si  chiamano  sangue,  razza,  nordismo  e 
simili.  Lo  Stato  fascista  non  trova  che  sia  suo  dovere  intervenire  nel¬ 
la  materia  religiosa,  e  se  ciò  accade  è  solo  nel  caso  in  cui  il  fatto  reli¬ 
gioso  tocchi  l’ordine  politico  e  morale  dello  Stato  [...]  Uno  Stato  che 
non  voglia  seminare  il  turbamento  spirituale  e  creare  la  divisione  fra 
i  suoi  cittadini,  deve  guardarsi  da  ogni  intervento  in  materia  stretta- 
mente  religiosa.*"* 

Si  è  tuttavia  legittimati,  dopo  quanto  abbiamo  visto  in  meri¬ 
to  alle  dichiarazioni  sulla  religione  fascista  e  la  sacralità  dello  Sta¬ 
to,  ad  avanzare  riserve  sulle  affermazioni  mussoliniane.  Al  di  là 
della  volontà  di  evitare  guerre  di  religione  per  meditate  e  reali¬ 
stiche  valutazioni  dei  rischi  che  tale  eventualità  comportava,  tali 


Mussolini,  Stato  e  Chiesa,  in  «Le  Figaro»,  18  dicembre  1934,  riportato 
in  Id.,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XXVI,  pp.  399-401. 


Ul.  L’ «arcangelo  mondano> 


123 


affermazioni  apparivano  chiaramente  troppo  reticenti,  se  non 
semplicemente  ipocrite,  se  confrontate  con  altre  e  più  impegna¬ 
tive  asserzioni  mussoliniane  in  merito  alla  religione  fascista.  Cer¬ 
to,  l’interesse  del  fascismo  per  la  religione  cattolica  era  esclusi¬ 
vamente  politico,  non  teologico,  nel  senso  almeno  che  non  sfio¬ 
rava  nessuno  dei  fascisti  la  tentazione  di  interferire  nelle  questioni 
dottrinali  cattoliche  e  tanto  meno  la  pretesa  di  avanzare  una  pro¬ 
pria  interpretazione  della  teologia  cattolica  con  intenti  più  o  me¬ 
no  riformatori.  I  riconoscimenti  privilegiati  alla  Chiesa  con  gli  ac¬ 
cordi  del  Laterano,  come  pure  la  volontà  di  non  aprire  contese 
religiose,  erano  dettati  dal  proposito  di  utilizzare  la  religione  tra¬ 
dizionale  come  instrumentum  regni.  Ma  non  per  questo  il  fasci¬ 
smo  desistette  dal  ripetere  enfaticamente,  in  ogni  circostanza  e 
in  ogni  sede,  di  essere  movimento  religioso,  di  avere  una  conce¬ 
zione  religiosa  della  politica,  che  postulava  l’assoluto  dello  Stato 
di  fronte  al  relativo  degli  individui,  né  cessò  mai  di  rivendicare, 
in  relazione  a  questa  religiosità  dello  Stato,  il  diritto  indiscutibi¬ 
le  di  definire  la  morale  del  cittadino  e  il  fine  ultimo  della  sua  esi¬ 
stenza. 

Alle  dichiarazioni  di  principio  corrispose  in  modo  del  tutto 
coerente  l’enorme  dispiego  di  energie  e  di  impegno  che  il  regi¬ 
me  profuse  per  intensificare  la  conquista  totalitaria  delle  co¬ 
scienze,  dando  maggior  impulso  alla  continua  elaborazione  del¬ 
le  proprie  forme  di  culto  e  di  religiosità  laica,  intervenendo  quo¬ 
tidianamente,  con  meticolosità  quasi  ossessiva,  in  materia  di  com¬ 
portamento,  di  costume,  di  morale  civile,  di  stile,  per  accelerare 
il  processo  di  trasformazione  del  carattere  nazionale  attraverso 
l’azione  pedagogica  dello  Stato,  onnipresente  e  dominante  in 
ogni  momento  della  vita  del  cittadino.  Per  tutto  il  periodo  del  re¬ 
gime,  soprattutto  nei  momenti  di  particolare  tensione,  il  fasci¬ 
smo,  governo  e  partito,  condusse  contro  la  Chiesa  e  le  associa¬ 
zioni  cattoliche  una  serrata  «guerra  dei  simboli»,  vietando  ai  cat- 
tohci  l’uso  di  bandiere,  stendardi  o  insegne  con  i  colori  della  ban¬ 
diera  pontificia,  o  rivaleggiò  con  i  simboli  della  Chiesa  come  nel 
caso  della  diffusione  della  campana  civica  sulla  «torre  littoria» 
delle  Case  del  Fascio.  Il  regime,  insomma,  non  rinunciava  a  pro¬ 
pagandare  la  «sua»  religione.  E  ciò  lasciava  inevitabilmente  aper¬ 
ta  la  via  a  potenziah  conflitti  fra  Stato  totahtario  e  Chiesa.  Risulta 
particolarmente  impegnativo  quanto  veniva  dichiarato  in  propo- 


124 


Il  culto  del  littorio 


sito  dal  Dizionario  di  politica  del  PNF.  La  Chiesa,  scriveva  uno 
dei  principali  curatori  del  dizionario,  «operando  sulle  coscienze 
per  tradurre  in  esse  il  proprio  patrimonio  ideale  come  conti¬ 
nuità»  viene  «inevitabilmente  [...]  ad  incontrarsi  con  l’azione  del¬ 
lo  Stato,  che,  quando  abbia  un  contenuto  morale  da  tradurre  in 
atto,  deve  esso  pure  agire  profondamente  sulle  coscienze.  Il  dis¬ 
sidio,  dunque,  fra  la  Chiesa  e  lo  Stato,  quando  questo  sia  anima¬ 
to  da  una  propria  volontà  morale,  è  nella  realtà  stessa  delle  co¬ 
se».  E  tale  dissidio  può  esser  risolto  o  con  compromessi  che  ri¬ 
conoscano  i  valori  reciproci  e  le  specifiche  sfere  di  azione  o  con 
una  convergenza,  quando  entrambi  «siano  espressione  diversa  di 
un’identica  coscienza  umana  storicamente  determinata,  quale  si 
manifesta  su  due  piani  diversi».  In  questo  caso  «la  religione  as¬ 
sume  nel  quadro  della  politica  e  dello  Stato  come  forma  concre¬ 
ta  di  questa»,  un  valore  come  «un  mezzo  di  elevamento  spirituale 
delle  masse»  ed  «elemento  essenziale  della  nazione»,  per  le  for¬ 
me  storiche  in  cui  si  è  determinata:  «le  forme  concrete  della  re¬ 
ligione,  l’organizzazione  della  Chiesa,  i  riti,  l’etica  dell’azione  ter¬ 
rena,  riflettono  la  storia  del  popolo  in  cui  si  sono  create»*^. 

Per  la  sua  natura  totalitaria,  affermando  il  primato  della  poli¬ 
tica  come  una  esperienza  di  vita  integrale,  il  fascismo  era  spinto 
a  confondere  i  confini  fra  dimensione  politica  e  dimensione  reli¬ 
giosa.  Esso  poneva  così  un  grave  dilemma  al  connubio  tra  fasci¬ 
smo  e  cattolicismo,  per  l’inevitabile  ambiguità  insita  nel  rappor¬ 
to  fra  due  fedeltà,  che  investivano,  ciascuna  nella  sua  dimensio¬ 
ne,  il  significato  e  il  fine  ultimo  dell’esistenza.  Per  esempio,  non 
tutti  i  fascisti  erano  propensi  ad  interpretare  in  senso  radicale  il 
principio  totalitario  della  sacralizzazione  dello  Stato,  al  punto  da 
renderlo  incompatibile  con  la  fede  cattolica.  Alcuni,  pur  con¬ 
sentendo  a  considerare  il  fascismo  una  religione  politica  e  civile, 
ribadivano  il  primato  della  religione  cattolica.  Altri,  invece,  eb¬ 
bero  verso  questo  problema  atteggiamenti  contraddittori,  elusi¬ 
vi,  ambigui,  e  cercarono  di  conciliare  la  loro  sincera  fede  nel  fa¬ 
scismo  come  religione  politica  con  la  personale  devozione  al  cat¬ 
tolicismo.  Questi  ultimi  pensavano,  forse,  di  risolvere  il  dilemma 
insistendo  sulla  necessità  di  un’unione  simbiotica  tra  fascismo  e 

A.  Pagliaro,  Chiesa,  in  PNF,  Dizionario  dipolitica,  cit.,  voi.  IV,  pp.  39-40. 


IH.  L’ «arcangelo  mondano^ 


125 


cattolicismo,  considerati  entrambi  religioni,  a  loro  modo,  totali¬ 
tarie  e  italiane,  vagheggiando  un  congiungimento  delle  loro  for¬ 
ze  per  perseguire  il  comune  obiettivo  dell’affermazione  di  una 
«nuova  civiltà»  che  avesse  centro  nella  città  sacra  alla  antica  «re¬ 
ligione  dei  padri»  e  al  moderno  culto  del  littorio.  Tipica  in  que¬ 
sto  senso  la  posizione  di  Bottai.  Superato  un  giovanile  anticleri¬ 
calismo  mazziniano,  aveva  riscoperto  fin  dal  1922  che  «il  sostra¬ 
to  spirituale  di  nostra  razza,  nelle  sue  più  alte  espressioni  di  pen¬ 
siero  e  nelle  sue  più  umili  manifestazioni  di  vita»  era  «innegabil¬ 
mente  cattolico»,  il  che  rendeva  la  Chiesa  di  Roma  «fattore  di  vi¬ 
ta  nazionale  non  trascurabile  da  parte  di  chi  della  vita  nazionale 
voglia  farsi  rigeneratore»,  per  risolvere  «il  problema  d’una  più 
elevata  sistemazione  di  vita  singola  e  collettiva»,  che  la  «moralità 
nuova  nata  dalla  guerra»  aveva  «angosciosamente  riposto»  din¬ 
nanzi  alle  giovani  generazioni  italiane^^.  Nello  stesso  senso,  però, 
mirando  alla  rigenerazione  degli  italiani.  Bottai  sviluppò,  in  mo¬ 
do  coerente  con  la  sua  personale  visione  totalitaria,  una  conce¬ 
zione  religiosa  del  fascismo,  «che  non  è  solo  mera  azione  fisica, 
è  anche  qualche  cosa  di  più  di  una  dottrina.  E  una  religione  po¬ 
litica  e  civile,  che  non  esclude,  anzi  integra,  quella  ecclesiastica, 
conferendole  profonda  sostanza  di  vita,  continua  aderenza  alla 
vita  stessa,  in  tutto  quanto  questa  ha  di  più  degno  e  di  più  nobi¬ 
le.  Da  questo  punto  di  vista,  il  fascismo  è  semplice,  limpido,  li¬ 
neare;  è  la  religione  dell’Italia»^^. 


G.  Bottai,  Chiesa  e  risorgimento,  in  «Il  Popolo  di  Trieste»,  27  gennaio 
1922,  riportato  in  Id.,  ha  politica  delle  arti.  Scritti  1918-1943,  a  cura  di  A.  Ma- 
si,  Roma  1992,  pp.  66-67. 

G.  Bottai,  Il  pensiero  e  l’azione  di  Giuseppe  Mazzini,  discorso  pronun¬ 
ciato  a  Genova  il  4  maggio  1930,  riportato  in  Id.,  Incontri,  Milano  1943,  p.  124. 
I  complessi  rapporti  fra  Bottai  e  il  cattolicesimo  sono  stati  studiati,  con  perizia 
e  sensibilità,  da  R.  Moro  nella  sua  introduzione  a  G.  Bottai-don  G.  De  Luca, 
Carteggio  1940-1937,  a  cura  di  R.  De  Felice  e  R.  Moro,  Roma  1989.  Ci  sembra, 
tuttavia,  che  l’analisi  di  Moro,  pur  rilevando  talune  ambiguità  nell’atteggia¬ 
mento  di  Bottai,  non  dia  adeguato  rilievo  agli  aspetti  totalitari  del  suo  fascismo 
anche  in  merito  al  problema  della  religione.  Su  questo  aspetto,  ci  sia  consenti¬ 
to  rinviare  a  E.  Gentile,  Il  mito  dello  Stato  nuovo  dall’ antigiolittismo  al  fasci¬ 
smo,  Roma-Bari  1999^,  pp.  211-236.  Sui  rapporti  fra  totalitarismo  fascista  e  cat¬ 
tolicesimo,  cfr.  R.  De  Felice,  Mussolini  il  duce.  IL  Lo  Stato  totalitario  1936-1910, 
Torino  1981,  pp.  129  sgg.  Per  quanto  riguarda  l’atteggiamento  cattolico  verso 
l’antidemocrazia  fascista,  cfr.  P.G.  Zunino,  Interpretazione  e  memoria  del  fa¬ 
scismo.  Gli  anni  del  regime,  Roma-Bari  1991,  cap.  V. 


126 


Il  culto  del  littorio 


Sul  versante  del  cattolicesimo,  nonostante  compromessi,  in¬ 
tese,  sintonie  e  convergenze,  alla  sensibilità  delle  coscienze  cat¬ 
toliche  più  refrattarie  ai  corteggiamenti  del  fascismo  e  alle  sedu¬ 
zioni  del  connubio,  non  sfuggiva  affatto  l’insidia  essenziale  che 
si  celava  nelle  proposte  di  simbiosi  fra  totalitarismo  laico  e  tota¬ 
litarismo  religioso.  Fin  dal  1924  un  focoso  polemista  cattolico 
aveva  messo  in  guardia  contro  un  «cattolicismo»  inquadrato  nel¬ 
la  «religione  fascista»  e  contro  le  «capziose  suggestioni  e  mani¬ 
festazioni  manovrate»  per  far  credere  «l’esistenza  di  connubi 
tra  il  cristianesimo  universale  e  il  paganesimo  nazionalista»,  per¬ 
ché,  in  realtà,  il  fascismo,  per  «la  sua  anima  totalitaria,  egocen¬ 
trica,  assorbente,  non  tollera  forze  isolate,  incontrollate,  fuori  del 
suo  geloso  serraglio;  vede  di  malumore  una  Chiesa,  procedente 
libera  per  sue  chiare  tranquille  vie  protese  verso  l’eternità»,  e 
vuole  che  anche  «la  Chiesa  ha  da  cospirare  alla  rinascita,  all’èra, 
alle  parate  e  alle  sparate,  al  decoro  ducesco»^^.  Ed  ancora  qual¬ 
che  anno  dopo.  Luigi  Sturzo,  costretto  all’esilio  dal  fascismo,  am¬ 
monì  che  la  dottrina  fascista  era  «fondamentalmente  pagana  è  in 
contrasto  col  cattolicesimo.  Si  tratta  di  statolatria  e  di  deificazio¬ 
ne  della  nazione»,  perché  il  fascismo  «non  ammette  discussioni 
e  limitazioni:  vuole  essere  adorato  per  sé,  vuole  arrivare  a  creare 
lo  Stato  fascista»^^.  Al  vertice  stesso  della  Chiesa  restava  il  so- 


**  I.  Giordani,  Motivi  di  religione  fascista,  in  «Il  Popolo»,  10  maggio  1924, 
riportato  in  La  terza  pagina  de  «Il  Popolo»,  a  cura  di  L.  Bedeschi,  Roma  1973, 
pp.  207-211.  Per  alcuni  aspetti  di  questa  posizione  del  mondo  cattolico,  cfr.  R. 
Moro,  Afascisrno  e  antifascismo  nei  movimenti  intellettuali  di  Azione  Cattolica 
dopo  il  ’31,  in  «Storia  contemporanea»,  dicembre  1975,  pp.  733-799. 

L.  Sturzo,  Pensiero  antifascista,  Torino  1925,  pp.  7-16.  Un  giornale  an¬ 
tifascista  di  S.  Paolo  del  Brasile,  in  una  corrispondenza  da  Nizza,  riferiva:  «Si 
stanno  facendo  sforzi  in  Italia  perché  il  fascismo  prenda  l’aspetto  di  una  vera 
e  propria  religione.  A  tal  uopo,  nonostante  le  violente  proteste  del  clero  catto¬ 
lico  e  del  Vaticano,  un  ‘Credo’  è  insegnato  all’infanzia  ed  alla  gioventù  fasci¬ 
sta,  forzata  nelle  organizzazioni  dei  ‘Balilla’  e  delle  Avanguardie.  Il  ‘Credo  Fa¬ 
scista’  è  la  parodia  del  noto  credo  cristiano  di  Nicea.  Eccolo  riportato  inte¬ 
gralmente:  ‘D:  Che  cosa  significa  essere  fascista?  R:  Significa  obbedienza  cieca 
ai  comandamenti,  ai  principii  ed  ai  sacramenti  d’Italia.  D:  Che  cosa  è  il  Credo 
del  Fascismo?  R:  È  il  Credo  dato  dagli  Apostoli  d’Italia  e  del  Fascismo.  D:  Di 
quanti  articoli  consiste?  R:  Di  dodici  articoli,  come  segue:  Io  credo  in  Roma 
eterna,  madre  della  mia  Patria  -  E  nell’Italia  sua  primogenita  -  Che  nacque  dal 
suo  vergine  utero  per  la  grazia  di  Dio  -  Che  soffrì  sotto  i  barbari  invasori,  fu 
crocefissa,  morta  e  sepolta  -  Che  discese  nella  sepoltura,  risorse  ancora  dai  mor- 


111.  L’ «arcangelo  mondano> 


127 


spetto,  mai  fugato  neppure  nei  momenti  di  maggior  cordialità  dei 
rapporti,  che  la  rivendicazione  del  primato  totalitario  dello  Sta¬ 
to  e  il  sincretismo  politico  della  religione  fascista  comportassero 
potenziali  rischi  per  il  primato  religioso  della  Chiesa,  per  la  sua 
autonomia  e  per  la  sua  universalità.  Pio  XI  dovette  intervenire 
con  una  enciclica,  nel  1931,  per  esprimere  la  ferma  condanna 
contro  la  «religiosità»  fascista,  la  formula  del  giuramento  del  par¬ 
tito,  la  statolatria  del  regime,  la  pretesa  di  monopolio  dell’edu¬ 
cazione  delle  nuove  generazioni  e  del  dominio  delle  coscienze'^”. 

Muovendosi  nell’ottica  del  connubio  sincretico,  la  religione 
fascista  evitò  di  porsi  come  antagonista  diretta  della  religione  cat¬ 
tolica  -  salvo  che  nelle  posizioni  estreme  dei  fascisti  più  anticle¬ 
ricali  o  nei  fautori  di  una  religiosità  che  si  richiamava  ad  un  tra- 


ti  nel  secolo  decimonono  -  Che  salì  in  gloria  in  Cielo  nel  1918  e  nel  1922  - 
Che  siede  alla  destra  di  Roma  madre  -  Che  di  là  verrà  a  giudicare  i  cattivi  e  i 
morti  -  Io  credo  nel  genio  di  Mussolini  -  Nel  nostro  Santo  Padre  il  Fascismo 
e  nella  comunione  dei  martiri  -  Nella  conversione  degli  Italiani  e  -  Nella  re¬ 
surrezione  dell’Impero  -  Amen’. 

Le  date,  come  sarà  intuito,  del  1918  e  1922  sono  rispettivamente  quella  del¬ 
la  fondazione  dei  fasci  e  della  marcia  su  Roma»  («La  Difesa»,  San  Paolo,  27 
febbraio  1927). 

Non  abbiamo  bisogno  (20  giugno  1931),  in  Tutte  le  encicliche  dei  sommi 
pontefici,  a  cura  di  E.  Momigliano,  Milano  1959:  «Abbiamo  infatti  vista  in  azio¬ 
ne  una  religiosità  che  si  ribella  alle  disposizioni  della  superiore  Autorità  reli¬ 
giosa  e  ne  impone  o  ne  incoraggia  la  inosservanza:  una  religiosità  che  diventa 
persecuzione  e  tentata  distruzione  di  quello  che  il  Supremo  Capo  della  Reli¬ 
gione  notoriamente  più  apprezza  ed  ha  a  cuore;  una  religiosità  che  trascende 
e  lascia  trascendere  ad  insulti  di  parola  e  di  fatto  contro  la  Persona  del  Padre 
di  tutti  i  fedeli  fino  a  gridarlo  abbasso  ed  a  morte:  veri  imparaticci  di  parrici¬ 
dio.  Simigliante  religiosità  non  può  in  nessun  modo  conciliarsi  con  la  dottrina 
e  con  la  pratica  cattolica,  ma  è  piuttosto  quanto  può  pensarsi  di  più  contrario 
all’una  e  all’altra. 

La  contrarietà  è  più  grave  in  se  stessa  e  più  esiziale  nei  suoi  effetti,  quan¬ 
do  non  è  soltanto  quella  di  fatti  esteriormente  perpetrati  e  consumati,  ma  an¬ 
che  quella  di  principii  e  di  massime  proclamate  come  programmatiche  e  fon¬ 
damentali. 

Una  concezione  dello  Stato  che  gli  fa  appartenere  le  giovani  generazioni 
interamente  e  senza  eccezione  dalla  prima  età  fino  all’età  adulta,  non  è  conci¬ 
liabile  per  un  cattolico  con  la  dottrina  cattolica,  e  neanche  è  conciliabile  col  di¬ 
ritto  naturale  della  famiglia.  Non  è  per  un  cattolico  conciliabile  con  la  dottri¬ 
na  cattolica  pretendere  che  la  Chiesa,  il  Papa,  devono  limitarsi  alle  pratiche 
esterne  di  Religione  (Messa  e  Sacramenti)  e  che  il  resto  della  educazione  ap¬ 
partiene  allo  Stato»  (pp.  971-972).  Cfr.  P.  Scoppola,  La  Chiesa  e  il  fascismo, 
Roma-Bari  1976,  pp.  255  sgg. 


128 


Il  culto  del  littorio 


clizionalismo  pagano,  come  Julius  Evola^^  -  perché  valutava  tut¬ 
ti  i  rischi  che  un  simile  atteggiamento  avrebbe  comportato  per  la 
stabilità  del  regime,  ma  tentò  di  integrarla  nel  proprio  universo 
mitico.  Il  cattolicismo  poteva  essere  sincreticamente  innestato 
nella  religione  fascista  come  «religione  dei  padri»,  in  quanto, 
cioè,  creazione  e  componente  della  tradizione  della  «stirpe  ita¬ 
liana»,  e  non  in  quanto  universale  «religione  dell’uomo»  rivelata 
da  Dio.  Per  Mussolini,  il  cattolicesimo,  nato  come  setta  orienta¬ 
le,  aveva  acquistato  universalità  soltanto  trapiantandosi  a  Roma 
e  ponendo  le  basi  per  il  suo  sviluppo  sulla  tradizione  imperiale. 
A  Roma  si  era  «realizzato  uno  dei  miracoli  religiosi  della  storia, 
per  cui  una  idea  che  avrebbe  dovuto  distruggere  la  grande  forza 
di  Roma  è  stata  da  Roma  assimilata  e  convertita  in  dottrina  del¬ 
la  sua  grandezza»^^.  Forse  il  duce  si  augurava  di  veder  compie¬ 
re,  dalla  Roma  fascista,  lo  stesso  tipo  di  miracolo.  La  Chiesa  non 
era  venerata  dal  fascismo  in  quanto  depositaria  di  una  verità  di¬ 
vina  rivelata,  ma  era  riconosciuta  e  rispettata  come  una  ierofania 
della  romanità,  creazione  della  stirpe  italiana  e  patrimonio  es¬ 
senziale  della  sua  tradizione. 

Una  particolare  interpretazione  della  romanità  del  cattolice¬ 
simo,  in  questo  senso,  fu  proposta  da  Giovanni  Gentile  in  un  ar¬ 
ticolo  intitolato  Roma  eterna?^  scritto  in  forma  quasi  oracolare, 
ma  molto  significativo,  secondo  noi,  per  capire  il  posto  che,  nel¬ 
la  religione  dello  Stato,  il  fascismo  intendeva  assegnare  al  catto¬ 
licesimo,  per  trarre  da  questo  sostegno  e  conferma  nell’aspira¬ 
zione  a  conquistare,  come  religione,  un  frammento  di  eternità 
nella  storia  umana.  Universalità  e  eternità  erano  i  caratteri  della 
romanità,  spiegava  Gentile.  La  «prima  Roma  eterna»  era  la  Ro¬ 
ma  imperiale  «creatrice  dello  Stato  [...]  che  comincia  ad  essere 
lo  Stato,  come  il  Tutto  degli  uomini,  fuori  del  quale  l’uomo  nul¬ 
la  trova  che  abbia  valore».  A  «questa  Roma  dello  Stato  s’appog- 

Su  Evola,  si  vedano  in  particolare  gli  studi  di  M.  Rossi,  L’interventismo 
politico-culturale  delle  riviste  tradizionaliste  negli  anni  venti:  Atanòr  (1924)  e 
Ignis  (1925),  in  «Storia  contemporanea»,  n.  3,  1987,  pp.  457-504;  L’avanguar¬ 
dia  che  si  fa  tradizione:  l’itinerario  culturale  di  Julius  Evola,  dal  primo  dopoguerra 
alla  metà  degli  anni  trenta,  ivi,  n.  6,  1991,  pp.  1039-1090. 

Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XVII,  p.  292  (discorso  pronunciato 
alla  Camera  dei  deputati  il  1“  dicembre  1921). 

G.  Gentile,  Roma  eterna,  in  «Civiltà»,  21  giugno  1940. 


III.  L’ «arcangelo  mondano» 


129 


giò  e  ne  trasse  vigore  e  forma  una  nuova  Roma»,  quella  del  cri¬ 
stianesimo,  che  però  portò  alla  svalutazione  dello  Stato  e  alla  sua 
subordinazione  alla  Chiesa,  facendo  del  Vescovo  di  Roma  il  nuo¬ 
vo  Cesare  e  creando  un  «nuovo  impero:  che  è  politico  ma  è  an¬ 
che  e  soprattutto  religioso»  e  «crea  pertanto  una  religione  poli¬ 
tica  nell’atto  stesso  che  innalza  i  rapporti  politici  al  livello  della 
religiosità».  Per  questo  la  «nuova  Roma»  è  «la  stessa  Roma  im¬ 
periale,  spiritualizzata  e  innalzata  all’altezza  della  forma  religio¬ 
sa»,  confermando  la  sua  «effettiva  eternità»,  anche  se  la  Roma 
politica  decade  e  si  disgrega,  perché  la  civiltà  romana  continua¬ 
va  a  parlare  alle  genti  del  mondo,  diffondendo  nel  mondo  lo  spi¬ 
rito  della  romanità.  Il  risorgimento  politico  dell’Italia  si  trovò  di 
fronte  alla  necessità  di  abbattere  la  Roma  papale  per  creare  la 
nuova  Roma  dell’Italia  unita,  ma  sentì  nello  stesso  tempo  l’an¬ 
goscia  di  perdere  in  tal  modo  il  senso  di  universalità  di  Roma,  ri¬ 
dotta  «a  semplice  sede  del  Governo  di  uno  Stato  particolare»,  e 
perdendo  così  l’autorità  di  parlare  «e  farsi  ascoltare  da  tutti  i  po¬ 
poli  civili».  La  «terza  Roma  cercava  il  suo  verbo  per  salvare  Ro¬ 
ma  eterna,  e  salvare  se  stessa».  Solo  con  il  fascismo  questa  ricer¬ 
ca  fu  esaudita,  perché,  affermava  Gentile,  «Mussolini  ha  sentito 
la  grandezza  del  passato  immanente  ed  eterno  dell’Italia  romana 
e  cristiana»,  facendo  risorgere  e  ricongiungendo  il  culto  della 
«Roma  dello  Stato»  con  il  culto  della  «Roma  della  Chiesa»  con¬ 
ferendo  agli  italiani  una  missione  universale. 

Con  questa  visione  del  rapporto  fra  romanità,  cattolicesimo  e 
fascismo.  Gentile  indicava  al  fascismo  la  via  per  conquistare,  co¬ 
me  religione  dello  Stato,  eternità  e  universalità,  proponendogli  di 
fondere  in  sé  la  «Roma  dello  Stato»  con  la  «Roma  della  Chiesa», 
per  trarre  da  questa  sintesi  le  fondamenta  di  una  nuova  civiltà 
universale,  considerando  il  cattolicesimo  parte  costitutiva  e  inse¬ 
parabile  dell’identità  italiana,  nel  comune  richiamo  alla  romanità. 


1  romani  della  modernità 

L’ideale  fascista  di  religione  politica  si  richiamava,  in  realtà,  al 
modello  della  religione  della  «Città  antica»,  alla  religione  roma¬ 
na  soprattutto,  che  sacralizzava  l’ordine  politico  nel  culto  dello 
Stato,  consentendo  la  pratica  di  altri  culti  solo  a  patto  che  questi 


130 


Il  culto  del  littorio 


non  fossero  in  contrasto  con  la  religione  dello  Stato.  Il  mito  del¬ 
la  romanità,  prima  ancora  di  essere  esaltato  dal  fascismo  per  dar 
lustro  alle  sue  conquiste  coloniali,  si  era  introdotto  nella  cultura 
fascista  principalmente  per  legittimare  le  sue  aspirazioni  totalita¬ 
rie  a  istituire  una  nuova  religione  dello  Stato^"*.  Un  dotto  roma¬ 
nista,  e  principale  cultore  e  propagandista  del  mito  della  roma¬ 
nità  nel  fascismo,  spiegava  che  l’essenza  dello  Stato  romano  era 
«una  concezione  etico- religiosa  in  cui  sono  state  innalzate  a  sim¬ 
boli  di  fede  le  ragioni  essenziali  dell’esistenza  e  della  forza  dello 
Stato»*^^.  La  civiltà  romana  aveva  fondato  la  sua  grandezza  «sul¬ 
la  viva  consapevolezza  dell’esistenza  di  un  ordine  al  quale  deve 
sottomettersi  ogni  momento  dell’esistenza  ordine  in  cui  la 
preminenza  è  riservata  ai  valori  politici,  nel  senso  che  qualunque 
siano  gli  aspetti  della  vita  e  della  storia,  non  esclusi  quelli  della 
religione  e  dell’etica,  il  momento  dominante  il  fine  essenzia¬ 
le  è  quello  della  loro  organizzazione  in  vista  di  un  interesse  e  di 
una  elevazione  comune.  Precetti  religiosi,  norme  etiche,  principi 
giuridici  non  sono  che  lo  sviluppo  di  questo  motivo  politico,  ori¬ 
ginario  e  fondamentale»^^.  Il  fascismo  voleva  far  rivivere  «lo  spi¬ 
rito  della  potenza  creatrice  di  Roma  che  nella  famiglia,  nella  reli¬ 
gione,  nell’educazione  militare,  nelle  leggi  seppe  infondere  un  sa¬ 
cro  rispetto  al  principio  della  subordinazione  del  singolo  alla  col¬ 
lettività»^^,  per  ricreare  nello  Stato  totalitario  queIl’«intimo  nes¬ 
so  spirituale  fra  famiglia  e  stato,  fra  stato  e  religione,  in  perfetto 
equilibrio»,  che  aveva  dato  «alla  coscienza  romana  un  fondo  di 
virtù,  di  consapevolezza,  di  disciplina,  segreto  di  grandezza»^^. 

Il  mito  di  Roma  fu,  insieme  col  mito  del  duce,  la  credenza  mi¬ 
tologica  più  pervasiva  di  tutto  l’universo  simbolico  fascista^^. 
Quando  celebrò  il  «Natale  di  Roma»  come  festa  del  fascismo. 
Mussolini  esaltò  la  romanità  come  mito  che  doveva  animare  il  fa¬ 
scismo:  «Roma  è  il  nostro  punto  di  partenza  e  di  riferimento;  è 

Cfr.  Gentile,  Il  mito  dello  Stato  nuovo  cit.,  pp.  2òl-2(>%. 

P.  De  Francisci,  Civiltà  romana,  Roma  1939,  p.  48. 

Id.,  Roma,  in  PNF,  Dizionario  di  politica,  cit.,  voi.  IV,  p.  134. 

F.  Ciarlantini,  Il  Fascismo  e  la  Romanità,  in  «Augustea»,  21  aprile  1938. 

E.  Ciaceri,  Paganesimo,  in  Dizionario  di  politica,  cit.,  p.  340. 

SuUe  diverse  interpretazioni  storiografiche  del  mito  della  romanità  nel 
fascismo,  cfr.  R.  Vesser,  Fascisi  Doctrine  and  thè  Cult  of  thè  Romanità,  in  «Jour¬ 
nal  of  Contemporary  History»,  n.  1,  1992,  pp.  5-21. 


111.  L’ «arcangelo  monda no> 


131 


il  nostro  simbolo  o,  se  si  vuole,  il  nostro  mito»^°°.  Il  culto  fasci¬ 
sta  per  la  romanità  non  era  condizionato  dall’amore  e  dal  rispet¬ 
to  archeologico  per  una  originale  identità  del  passato  da  recupe¬ 
rare  e  da  restaurare.  La  stessa  passione  fascista  per  l’archeologia 
non  era  animata  dalla  scienza  né  rispettava  sempre  le  esigenze 
della  scienza,  non  arrestandosi  infatti  neppure  di  fronte  a  distru¬ 
zioni  ed  arbitrarie  restaurazioni  e  innovazioni,  come  nel  caso  del¬ 
la  costruzione  del  piazzale  Augusto  imperatore^°h  pur  di  «crea¬ 
re  la  monumentale  Roma  del  ventesimo  secolo» Il  fascismo 
praticò  una  archeologia  simbolica,  una  ricerca  attualizzante  delle 
vestigia  della  romanità,  ispirata  al  richiamo  mitico  del  «centro  sa¬ 
cro»,  per  entrare  in  comunione  con  la  «potenza  magica»  della  ro¬ 
manità,  al  fine  di  creare,  anche  arbitrariamente,  uno  scenario  ur¬ 
banistico  e  monumentale  tale  da  visualizzare  la  simbiosi  fra  ro¬ 
manità  e  fascismo-entro  nuovi  «spazi  sacri»,  misto  di  antico  e  mo¬ 
derno,  per  celebrare  il  culto  del  littorio  nella  città  eterna,  pre¬ 
sentando  il  fascismo  erede  e  culmine  della  tradizione  romana. 

Un  esempio  importante  del  culto  fascista  della  romanità,  usa¬ 
ta  a  beneficio  del  culto  del  littorio,  fu  la  mostra  realizzata  nel  1937 
nel  quadro  delle  celebrazioni  per  il  bimillenario  di  Augusto,  inau¬ 
gurata  da  Mussolini  il  23  settembre,  in  coincidenza  con  la  ria¬ 
pertura  della  mostra  dedicata  alla  rivoluzione  fascista come  a 
voler  sottolineare  la  simbiosi  fra  romanità  e  fascismo.  L’intento 
politico  della  mostra  augustea,  al  di  là  dell’accurata  organizza¬ 
zione  scientifica,  era  la  celebrazione  dell’eternità  e  della  univer¬ 
salità  di  Roma  «che  sotto  la  guida  del  duce  [...]  ha  ripreso  la  sua 
fatale  missione»  di  civiltà  nel  mondo  moderno^®"':  «in  tutta  la  mo¬ 
stra  -  disse  il  professor  Giulio  Quirino  Giglioli,  ideatore  e  orga¬ 
nizzatore,  il  giorno  dell’apertura  rivolgendosi  a  Mussolini  -  l’o¬ 
pera  Vostra  di  civis  romanus  è  presente  e  animatrice:  non  solo  in 


100  Mussolini,  Passato  e  avvenire,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  21  aprile  1922. 

Cfr.  S.  Kostof,  The  Emperor  and  thè  Duce:  thè  Planning  of  Piazzale  Au¬ 
gusto  Imperatore  in  Roma,  in  H.A.  Millon,  L.  Nochlin  (a  cura  di).  Art  and  Ar- 
chitecture  in  thè  Service  ofPolitics,  Cambridge  (Mass.)  1980,  pp.  270-325. 

Mussolini,  Opera  Omnia  cit.,  voi.  XX,  p.  335  (discorso  in  Campidoglio 
del  21  aprile  1924  per  il  conferimento  della  cittadinanza  onoraria  romana  a 
Mussolini). 

Infra,  pp.  189  sgg. 

La  Mostra  Augustea  della  Romanità,  Roma  1937. 


132 


Il  culto  del  littorio 


Vostri  detti,  ma  nello  spontaneo  inevitabile  riawicinamento  di 
tante  Vostre  azioni  a  quelle  dei  più  grandi  Romani  di  duemila  e 
più  anni  fa»,  e  soprattutto  a  Cesare  e  ad  Augusto,  simbolicamente 
ricongiunti  nella  figura  mussoliniana^®^.  I  visitatori  -  circa  un  mi¬ 
lione  fino  al  giorno  della  chiusura,  il  7  novembre  1938  -  compi¬ 
vano  «un  viaggio  attraverso  la  storia  della  civiltà  di  Roma»^“^,  il¬ 
lustrata  da  un’imponente  esibizione  documentaria  -  plastici,  fo¬ 
tografie,  riproduzioni  di  monumenti  e  statue,  modelli,  disegni, 
copie  di  pitture,  sculture  e  mosaici  -  accompagnati  da  iscrizioni 
di  autori  latini  alternate  con  iscrizioni  mussoliniane,  proseguen¬ 
do  poi  con  l’illustrazione  della  sua  eredità  nel  cristianesimo  e  nel 
medioevo  per  culminare,  a  conclusione  della  visita,  nel  fasci- 
smo^®"^. 

Il  fascismo,  in  tal  modo,  per  dirla  con  Bottai,  operava  una  tra¬ 
svalutazione  della  romanità  «nel  nostro  mondo  e  nel  nostro  tem¬ 
po»,  rendendola  idea  viva  ed  operante  «nel  tempo,  secondo  il  no¬ 
stro  tempo,  col  nostro  tempo»  e  non  «idea  cristallizzata  in  que¬ 
sta  o  in  quella  forma  tradizionale,  ma  viva  e  continua  [...]  ade¬ 
rente  alla  nostra  coscienza  attuale  della  storia  e  della  politica»: 
«Il  ritorno  a  Roma,  provocato  dalla  Rivoluzione  delle  Camicie 
Nere  è  [...]  un  rinnovarsi  dell’idea  di  Roma  nella  coscienza  del¬ 
l’italiano  moderno;  non  una  restaurazione,  ma  una  rinnovazione, 
una  rivoluzione  dell’idea  di  Roma»  imprimendo  «al  nome  eter¬ 
no  di  Roma  il  sigillo  ‘fascista’;  perché  ne  accettiamo  l’idea  rifa¬ 
cendola  nostra,  conferendole  nuova  originalità  nel  mondo  mo- 
derno»^^^. 

Il  fascismo  si  considerava  una  ripresa  della  romanità  nel  XX 
secolo,  ed  aspirava  a  conquistare,  come  la  «Roma  dello  Stato»  e 
la  «Roma  della  Chiesa»,  un  suo  frammento  di  eternità  lasciando 
nella  storia  le  vestigia  della  Roma  di  Mussolini.  La  mitologia  fa- 


Il  testo  del  discorso  inaugurale,  approvato  da  Mussolini,  è  in  ACS,  PCM, 
Gabinetto,  1937-1939,  fase.  14.1  n.  918/1. 

La  Mostra  Augustea  cit. 

Cfr.  L.  Quilici,  Romanità  e  civiltà  romana,  in  Dalla  mostra  al  museo.  Ro¬ 
ma  capitale  1870-1911,  Venezia  1983,  pp.  17-24,  e  A.M.  Liberati  Silverio,  La 
Mostra  Augustea  delle  Romanità,  ivi,  pp.  77-90.  Sulla  frequenza  e  sul  tipo  dei 
visitatori,  si  veda  la  relazione  al  Capo  del  governo  in  ACS,  PCM,  Gabinetto, 
1937-1939,  fase.  14.1  n.  918/7. 

G.  Bottai,  Roma  e  fascismo,  in  «Roma»,  ottobre  1937. 


Fig.  8.  Publio  Morbiducci,  La  storia  di  Roma  attraverso  le  opere  edi¬ 
lizie,  bozzetto  (Roma,  Collezione  A.M.  Morbiducci). 


134 


Il  culto  del  littorio 


scista  evocava  Teternità  di  Roma  a  garanzia  spirituale  per  l’Italia 
fascista,  collocando  la  romanità  all’inizio  della  sua  rappresenta¬ 
zione  mitica  della  storia  italiana,  dove  la  breve  storia  del  fascismo 
appariva  come  una  nuova  ierofania  della  romanità,  avvenuta  do¬ 
po  i  secoli  della  «eclissi  della  nostra  stirpe  che  si  squarcia  nel 
1915»^°^,  in  una  visione  ciclica  millenaristica  delle  stagioni  della 
civiltà  italiana,  proveniente  da  un  mitico  passato  di  grandezza  e 
di  potenza  per  proiettarsi,  con  il  fascismo,  verso  un  nuovo  futu¬ 
ro  di  grandezza  e  di  potenza.  Nella  religione  fascista,  il  mito  di 
Roma  assunse  la  funzione  dell’archetipo  paradigmatico,  rappre¬ 
sentava  il  tempo  della  stirpe  italiana,  continuamente  rie¬ 

vocato  e  rinnovato  attraverso  miti,  simboli  e  riti  per  attingervi  il 
modello  pedagogico  per  la  formazione  dell’«italiano  nuovo»: 
«tutta  la  pratica  delle  virtù  latine  mi  sta  dinanzi  -  dichiarava  Mus¬ 
solini  Esse  rappresentano  un  patrimonio  ch’io  cerco  d’utiliz¬ 
zare.  Il  materiale  è  lo  stesso.  E  là,  fuori,  è  sempre  ancora  Ro- 
ma»“b 

Il  culto  della  romanità  nasceva  dal  «mistero  della  continuità 
di  Roma»"^.  «Il  suolo  storico  sul  quale  si  agisce  -  asseriva  Mus¬ 
solini  riferendosi  al  fascino  che  su  di  lui  esercitava  Roma  -  ha  una 
potenza  magica»^^.  Le  vestigia  monumentali  conferivano  anco¬ 
ra  un’aura  di  sacralità  al  luogo  prediletto  dal  destino,  dove  per 
la  prima  volta  si  era  manifestato  il  miracolo  della  grandezza  del¬ 
lo  «spirito  latino»,  dove  si  era  nuovamente  verificato,  con  il  cat¬ 
tolicesimo,  il  miracolo  di  una  nuova  ierofania  della  romanità,  e 
dove  ancora,  con  il  fascismo,  si  compiva  il  terzo  miracolo  della 
«resurrezione  della  nostra  razza»^^'^.  Roma  era  «centro  d’ispira¬ 
zione,  fondamento  di  costruzioni,  suggestione  senza  intermitten¬ 
ze,  simbolo  creante  realtà  e  realtà  assurgente  a  simbolo,  com- 

Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XIX,  p.  94  (discorso  alle  medaglie 
d’oro,  8  gennaio  1923). 

““  Sul  significato  del  «tempo  mitico»  abbiamo  presente  soprattutto  M. 
Eliade,  Trattato  di  storia  delle  religioni,  trad.  it.  di  V.  Vacca,  Torino  1986,  pp. 
399  sgg. 

‘"E.  Ludwig,  Colloqui  con  Mussolini,  Milano  1932,  pp.  192-193. 

Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XX,  p.  234  (discorso  pronunciato  il 
21  aprile  1924  in  Campidoglio  per  il  conferimento  della  cittadinanza  di  Roma). 

Ludwig,  Colloqui  con  Mussolini,  cit.,  p.  106. 

'  Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XX,  p.  65  (discorso  pronunciato  il  28 
ottobre  1923  a  Milano). 


III.  L’ «arcangelo  mondano» 


135 


mercio  ininterrotto  con  una  divinità  terrestre,  mistero  che  si  ce¬ 
lebra  nel  più  intimo  della  coscienza  mussoliniana»^^^.  La  cele¬ 
brazione  del  «Natale  di  Roma»  era  interpretata  dai  fascisti  come 
un  rito  iniziatico  per  entrare  in  comunione  con  la  romanità:  at¬ 
traverso  questo  rito,  animato  «da  una  ‘volontà  solare’,  da  una  vo¬ 
lontà  imperiale,  da  una  volontà  di  potenza  [...]  l’Italiano  nuovo 
riprende  contatto  spiritualmente  con  il  romano  antico»“^.  Asso¬ 
ciato  al  mito  della  romanità,  quindi,  anche  il  mito  deIl’«uomo 
nuovo»  acquistava  significato  religioso,  simbolo  della  metanoia 
del  popolo  italiano  che  il  fascismo  voleva  forgiare  per  renderlo 
degno  erede  spirituale  dei  romani,  pronto,  come  i  romani,  a  sfi¬ 
dare  il  destino  per  costruire  una  «nuova  civiltà»,  modellata  sul¬ 
lo  spirito  dei  romani,  combattenti  invitti,  ma  anche  «costruttori 
formidabili  che  potevano  sfidare,  come  hanno  sfidato,  il  tem¬ 
po»  ^ 

Il  fascismo  aveva  l’ossessione  del  tempo.  La  religione,  ha  scrit¬ 
to  Mircea  Eliade,  è  un’aspirazione  all’immortalità  che  nasce  dal¬ 
la  «nostalgia  dell’eternità»,  dal  desiderio  di  poter  vivere  «me¬ 
diante  la  trasfigurazione  della  durata  in  un  istante  eterno»^ An¬ 
che  nel  fascismo  troviamo  tracce  consistenti  di  questa  aspirazio¬ 
ne,  tradotta  nei  termini  propri  di  una  cultura  che  identificava 
l’immortalità  di  un  popolo  con  il  mito  della  civiltà,  cioè  con  la 
sua  capacità  a  vincere  la  sfida  del  destino  imprimendo  il  suo  se¬ 
gno  nella  storia.  Il  comandamento  mussoliniano  «durare»,  più 
che  mettere  a  nudo  una  politica  opportunistica  che  viveva  alla 
giornata,  rivela  l’impulso  di  una  volontà  di  potenza  che  vuole  sfi¬ 
dare  il  tempo.  L’atteggiamento  verso  la  morte,  il  culto  dei  cadu¬ 
ti,  lo  slancio  futuristico  verso  l’azione  e  il  mito  della  «rivoluzio¬ 
ne  continua»  come  pure  la  stessa  smania  di  protagonismo  nella 
politica  del  mondo,  sono  altrettante  manifestazioni  di  una  vo¬ 
lontà  di  potenza  in  lotta  contro  il  tempo  e  di  un  desiderio  di  im¬ 
mortalità.  E  la  stessa  insistenza  del  fascismo  sulla  necessità  della 
fede  derivava  da  questa  volontà  di  sfida,  considerando  la  fede 
stessa  una  forza  contro  il  destino  e  una  scintilla  di  eternità. 


N.  PadeUaro,  Fascismo  educatore,  Roma  1938,  p.  18. 

“^M.  Scaligero,  Natale  di  Roma,  in  «Gioventù  fascista»,  21  aprile  1933. 
Mussolini,  Passato  e  avvenire,  cit. 

Eliade,  Trattato  di  storia  delle  religioni,  cit.,  p.  422. 


136 


Il  culto  del  littorio 


Il  «destino»  è  un’immagine  importante  nell’universo  simboli¬ 
co  del  fascismo:  nel  contesto  della  «storia  sacra»  della  religione 
fascista,  evoca  una  oscura  divinità  che  sovrasta  le  vicende  della 
storia,  mettendo  alla  prova  con  le  sue  sfide  cicliche  la  capacità 
dei  popoli  di  lasciare  una  impronta  duratura  nella  storia  dando 
vita  ad  una  civiltà.  La  storia,  per  il  fascismo,  era  una  perpetua 
lotta  fra  il  destino  e  la  volontà,  una  lotta  che  scandiva  il  ciclico 
sorgere  e  tramontare  delle  civiltà.  Il  destino  era  una  divinità  im¬ 
prevedibile  e  inesorabile,  ma  la  volontà  poteva,  in  straordinarie 
circostanze,  sostenere  la  sfida.  Il  duce,  intimamente  persuaso  di 
possedere  il  dono  di  indovinare  il  proprio  secolo,  era  convinto  di 
vivere  in  una  delle  cicliche  svolte  epocali,  in  cui  il  destino  offri¬ 
va  al  popolo  italiano  l’occasione  di  provare  ancora  la  sua  virtù. 
Dopo  una  eclissi  di  secoli  di  decadenza,  gli  italiani  avevano  l’oc¬ 
casione  di  creare  una  nuova  civiltà.  Ma  la  sfida  poteva  essere  vin¬ 
ta  solo  con  la  fede  nella  religione  fascista  e  con  la  totale  sotto- 
missione  alla  guida  del  duce,  che  plasmava  il  carattere  degli  ita¬ 
liani  per  creare  una  razza  di  dominatori  e  di  conquistatori: 

La  grande  ora  non  batte  a  tutte  le  ore  e  a  tutti  gli  orologi.  La  ruo¬ 
ta  del  destino  passa.  È  sapiente  colui  che,  essendo  vigilante,  la  affer¬ 
ra  nel  minuto  in  cui  trascorre  dinnanzi  a  lui.  [...]  Se  mi  riuscirà,  e  se 
riuscirà  al  Fascismo  di  sagomare  così  come  io  voglio  il  carattere  de¬ 
gli  italiani,  state  tranquilli  e  certi  e  sicuri  che  quando  la  ruota  del  de¬ 
stino  passerà  a  portata  delle  nostre  mani  noi  saremo  pronti  ad  affer¬ 
rarla  ed  a  piegarla  alla  nostra  volontà. 

Il  progetto  pedagogico  dello  Stato  totalitario  si  potrebbe  com¬ 
pendiare  nell’aspirazione  a  forgiare  gli  italiani  come  «romani  del¬ 
la  modernità»,  capaci  di  vincere  la  sfida  del  tempo  e  di  impri¬ 
mere  il  segno  del  littorio  sul  corso  degli  eventi.  Nella  visione  di 
questo  assurdo  esperimento  si  riassume  il  significato  e  la  funzio¬ 
ne  che  il  fascismo  attribuiva  alla  sacralizzazione  della  politica. 

E  per  realizzare  il  suo  esperimento  totalitario,  rigenerare  il  ca¬ 
rattere  degli  italiani  e  creare  un  «italiano  nuovo»,  integralmente 
fascista,  il  regime  non  esitò  ad  entrare  in  conflitto  con  la  Chiesa, 


Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XXII,  p.  100  (discorso  nel  VII  anni¬ 
versario  della  fondazione  dei  Fasci,  28  marzo  1926). 


III.  L’ «arcangelo  mondano> 


137 


come  accadde  prima  della  Conciliazione  e  subito  dopo  questa,  e 
ancora,  successivamente,  nel  1931  e  nel  1938.  Il  motivo  del  con¬ 
flitto  fu  sempre  lo  stesso:  lo  Stato  fascista  rivendicava  il  mono¬ 
polio  dell’educazione  delle  nuove  generazioni,  come  di  tutta  la 
coUettività,  secondo  i  valori  della  propria  etica  nazionalista  e 
guerriera,  e  non  ammetteva  condizionamenti  e  limiti  alla  totale 
fedeltà  e  dedizione  dei  cittadini  verso  lo  Stato 


'2"  Sulla  crisi  del  1931,  cfr.  R.  De  Felice,  Mussolini  il  duce.  I.  Gli  anni  del 
consenso  1929-1936,  Torino  1974,  pp.  246  sgg.;  sulla  crisi  del  1938,  cfr.  Id., 
Mussolini  il  duce.  II.  Gli  anni 4el  consenso  1936-1940,  cit.,  pp.  133  sgg. 


IV 

LITURGIA  DELL«ARMONICO  COLLETTIVO» 


Il  fascismo  è  il  massimo  esperimento  della 
nostra  storia  nel  fare  gli  italiani. 

Mussolini 

Il  problema  principale  di  ogni  Stato  come  di 
ogni  rivoluzione,  di  ogni  filosofia  degna  di 
questo  nome  come  di  ogni  civiltà,  è  il  pro¬ 
blema  dell’uomo,  che  è  quello  della  pedago¬ 
gia  politica,  cioè  della  formazione  del  perfet¬ 
to  cittadino  [...]  Formazione  fisica,  formazio¬ 
ne  spirituale,  formazione  politica  son  compi¬ 
ti  che  lo  Stato  non  può  lasciare  affidati  all’e¬ 
ventuale  buona  volontà  dell’iniziativa  priva¬ 
ta,  ma  che  rappresenta  la  sua  principale 
missione. 

Il  Fascismo  si  direbbe  che  prenda  gli  italiani 
uno  per  uno  allo  scopo  di  foggiarli  in  ogni  sen¬ 
so  secondo  l’imperativo  nazionale.  Essi  deb¬ 
bono  diventare  perfetti  strumenti  per  il  con¬ 
seguimento  dei  fini  dello  Stato,  come  accadde 
con  Roma  che  di  tale  pedagogia  fu  maestra  in¬ 
superata  perché  intorno  al  proprio  nome  sep¬ 
pe  creare  una  mistica,  ond’esso  non  era  più 
quello  di  una  città,  ma  di  una  entità  addirittu¬ 
ra  divina,  e  l’essere  cittadino  romano  signifi¬ 
cava  essere  partecipe  di  tale  divinità. 

E.  Bodrero 


Gran  parte  della  funzione  pedagogica  dello  Stato  fascista  si 
svolse  attraverso  una  costante,  crescente  e  capillare  opera  di  «pro¬ 
paganda  della  fede»,  per  mezzo  di  riti  e  manifestazioni  di  massa. 
Uno  degli  aspetti  principali  della  religione  fascista,  infatti,  fu  l’isti¬ 
tuzionalizzazione  di  una  liturgia  di  Stato  non  soltanto  per  i  mili¬ 
tanti  del  partito  ma  per  tutti  gli  italiani  coinvolti,  volenti  o  nolen¬ 
ti,  nella  periodica  celebrazione  dei  riti  del  regime.  Nell’istituire 
questa  liturgia,  il  fascismo  seguì  una  propria  logica  in  cui  risulta 
presente  una  realistica  consapevolezza  della  funzione  che  simboli 
e  riti  avevano  nella  moderna  politica  di  massa.  Durante  il  periodo 
fra  l’andata  al  potere  e  la  trasformazione  del  regime,  i  riti  del  fa¬ 
scismo,  come  abbiamo  visto,  avevano  assolto  a  diverse  funzioni, 
connesse  con  il  processo  di  consolidamento  del  nuovo  sistema  po¬ 
litico.  In  questa  fase  essi  sono,  innanzi  tutto,  atti  simbolici  di  con¬ 
sacrazione  della  irrevocabilità  del  potere  del  fascismo,  legittiman¬ 
dolo  come  salvatore  della  patria  e  unico  interprete  della  volontà 
generale  della  «nuova  Italia»  sorta  dalla  guerra.  Con  l’intensifica¬ 
zione  del  proprio  rituale,  prima  ancora  di  conquistare  l’effettivo 
monopolio  del  potere,  il  fascismo  occupa  e  monopolizza  gli  «spa¬ 
zi  sacri»  per  celebrare  il  culto  della  patria,  integrandolo  nel  culto 
del  littorio.  I  suoi  riti,  inoltre,  sono  sempre  uno  «spettacolo  della 
forza»  volto  a  terrorizzare  gli  avversari,  a  impressionare  gli  incer¬ 
ti,  e,  nello  stesso  tempo,  a  rafforzare  il  senso  di  identità,  di  coesio¬ 
ne  e  di  potenza  dei  fascisti  stessi,  in  un  periodo  in  cui  il  partito  era 
continuamente  scosso  da  crisi  interne. 

Alla  fine  degli  anni  Venti,  mentre  il  nuovo  regime  consolida  e 
sviluppa  le  strutture  del  suo  potere,  presidiato  da  un  efficace  ap¬ 
parato  poliziesco  di  controllo  preventivo  e  repressivo,  il  fascismo 
disciplina,  limita  e  coordina  l’attività  delle  manifestazioni  colletti¬ 
ve,  sottoponendole  ad  un  severo  controllo,  e  formalizza  il  culto  del 
littorio  entro  un  rigido  cerimoniale,  definito  dal  partito.  Ma  non 
per  questo  il  regime  si  mostra  meno  interessato  a  sviluppare  il  suo 


142 


Il  culto  del  littorio 


sistema  di  riti:  al  contrario,  lo  incrementa,  moltiplicandone  le  ma¬ 
nifestazioni  e  rivolgendosi  ora  soprattutto  al  coinvolgimento  delle 
masse  esterne  al  partito.  In  questa  nuova  fase,  simboli  e  riti,  men¬ 
tre  continuavano  a  svolgere  la  funzione  di  rafforzare  i  legami  al- 
Tinterno  del  fascismo  stesso,  proiettando  all’esterno  e  all’estero 
un’immagine  di  unità,  di  compattezza  e  di  potenza  del  partito  e  del 
regime,  servivano  a  magnificare  la  maestà  dello  Stato  totalitario,  a 
rivestire  di  sacralità  il  potere  del  duce  e  del  partito.  Simboli  e  riti 
erano  inoltre,  in  senso  lato,  mezzi  di  propaganda  e  strumenti  per 
influire  sull’opinione  pubblica  facendo  appello  ai  sentimenti,  alle 
emozioni,  alla  fantasia  e  all’entusiasmo.  Nei  periodi  di  crisi  eco¬ 
nomica,  i  riti  collettivi  compensavano  con  l’eccitazione  dell’entu¬ 
siasmo  privazioni  e  disagi;  celavano,  dietro  una  facciata  di  ordine 
ed  efficienza,  le  difficoltà  del  regime;  distraevano  periodicamente 
le  masse  dai  problemi  inquietanti  della  politica  estera,  rassicuran¬ 
dole  con  una  autoesaltante  esibizione  di  potenza. 

L’analisi  del  significato  e  della  funzione  della  liturgia  nel  regi¬ 
me  fascista  non  potrebbe  però  limitarsi  a  registrare  solo  queste 
funzioni  pragmatiche  e  utilitarie,  certamente  presenti  nei  proposi¬ 
ti  degli  organizzatori  della  liturgia  fascista,  perché  si  tratta  di  fun¬ 
zioni  che,  in  senso  generale,  non  possono  essere  considerate  tipi¬ 
che  ed  esclusive  della  liturgia  fascista,  dal  momento  che  sono  fun¬ 
zioni  che  riti  e  simboli  svolgono  in  qualsiasi  forma  di  liturgia  poli¬ 
tica,  democratica  o  autoritaria.  Per  comprendere  il  significato  spe¬ 
cifico  della  liturgia  fascista,  occorre  però  volgere  la  nostra  atten¬ 
zione  ad  un  altro  aspetto  dell’uso  del  simbolismo  e  del  rituale,  con¬ 
siderandoli  specificamente  come  espressioni  della  religione  fasci¬ 
sta.  La  liturgia  politica  funzionava  come  forma  di  legittimazione 
del  potere  e  come  mezzo  di  manipolazione  e  di  controllo  delle 
masse:  ma  esprimeva  anche,  e  in  modo  tutt’altro  che  marginale  e 
contingente,  credenze,  valori  e  fini  propri  della  cultura  fascista. 


Miti  politici  e  politica  dei  miti 

L’istituzione  di  una  liturgia  di  Stato  fu  conseguenza  della  con¬ 
cezione  fascista  delle  masse,  basata  sulla  convinzione  che  nella 
massa  predomina  il  sentimento,  non  la  ragione,  e  che  solo  fa¬ 
cendo  appello  ai  sentimenti,  suscitando  emozioni  ed  entusiasmo. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo> 


143 


attraverso  miti  che  danno  forma  ai  desideri  delle  masse  e  le  inci¬ 
tano  all’azione,  è  possibile  per  un  movimento  politico  organizza¬ 
re  ed  utilizzare  la  loro  energia  per  il  conseguimento  dei  suoi  fi¬ 
ni.  Rinunciando  ad  ogni  simulazione  demagogica,  il  fascismo  e  il 
suo  capo  non  avevano  mai  nascosto  la  loro  visione  della  massa: 

La  massa  -  affermava  il  duce  -  per  me  non  è  altro  che  un  gregge 
di  pecore,  finché  non  è  organizzata.  Non  sono  affatto  contro  di  essa. 
Soltanto  nego  che  essa  possa  governarsi  da  sé.  Ma  se  la  si  conduce, 
bisogna  reggerla  con  due  redini:  entusiasmo  e  interesse.  Chi  si  serve 
solo  di  uno  dei  due,  corre  pericolo.  Il  lato  mistico  e  il  politico  si  con¬ 
dizionano  l’un  l’altro.  L’uno  senza  l’altro  è  arido,  questo  senza  quel¬ 
lo  si  disperde  al  vento  delle  bandiere.^ 

Tuttavia,  pur  negando  alla  massa  la  capacità  e  la  possibilità  di 
autogovernarsi,  il  fasciamo  riconosceva  che  l’adesione  della  mas¬ 
sa  era  una  delle  grandi  forze  della  politica  moderna,  e  non  pote¬ 
va  essere  trascurata  per  il  consolidamento  del  suo  potere  e  so¬ 
prattutto  per  realizzare  lo  Stato  totalitario,  perché  la  «massa  è  di¬ 
ventata  un  elemento  attivo  della  vita  delle  comunità  moderne», 
e  il  rapporto  fra  governanti  e  governati  «in  nessun  modo  nelle 
condizioni  presenti  dello  spirito  dei  popoli  può  ridursi  alla  ‘do¬ 
minazione’;  ma  persegue  T'adesione’»,  attraverso  l’organizzazio¬ 
ne  e  la  formazione  di  una  unità  spirituale  collettiva^.  E  in  questa 
visione  della  politica  di  massa,  aveva  un  ruolo  di  primaria  im¬ 
portanza  il  mito,  che  è  un’idea  cardine  della  cultura  fascista,  pre¬ 
sente  nella  concezione  dello  Stato  totalitario  e  nell’idea  della 
«nuova  civiltà»  che  esso  ambiva  realizzare. 

Come  ideologia  che  rifiutava  esplicitamente  il  primato  della 
ragione  e  la  cultura  razionalista,  anche  se  non  rinunciava,  nella 
pratica  politica,  ad  avvalersi  di  un  uso  razionale  dell’irrazionali¬ 
smo,  il  fascismo  esaltava  il  pensiero  mitico  ed  elaborò  una  pro¬ 
pria  concezione  del  mito  politico  sulla  scia  della  definizione  di 
G.  SoreP,  interpretando  il  mito  principalmente  come  immagine 
e  simbolo  capace  di  suscitare  nelle  masse  emozioni,  entusiasmo, 

*  E.  Ludwig,  Colloqui  con  Mussolini,  Milano  1932,  pp.  121-122. 

^  C.  Costamagna,  Dottrina  del  Pascismo,  s.I.  1982,  p.  108. 

’  Cfr.  G.  Sorci,  Considerazioni  sulla  violenza,  trad.  it.  di  A.  Samo,  Roma- 
Bari  1974,  pp.  73,  177,  180-182. 


144 


Il  culto  del  littorio 


volontà  di  agire.  «Il  mito  è  una  fede,  è  una  passione  -  aveva  af¬ 
fermato  Mussolini  Non  è  necessario  che  sia  una  realtà.  È  una 
realtà  nel  fatto  che  è  un  pungolo,  che  è  una  speranza,  che  è  fe¬ 
de,  che  è  coraggio>d.  Questa  idea  del  mito  era  largamente  diffu¬ 
sa  nella  cultura  fascista,  era  un  punto  di  riferimento  quasi  obbli¬ 
gato  ogni  qual  volta  si  parlava  di  massa  e  di  educazione  delle  mas¬ 
se.  Attraverso  i  miti  -  scriveva  nel  1923  un  collaboratore  dell’or¬ 
gano  fascista  lombardo  -  «si  esprime  una  ragione  di  fierezza  e  di 
orgoglio  comune  a  tutta  la  stirpe  unificata  nel  ricordo  della  pas¬ 
sata  grandezza,  da  loro  si  esprime  un  esempio  di  virtù  che  inve¬ 
ste  direttamente  la  sensibilità,  più  pronta  della  persuasione»^.  Il 
mito  era  la  forma  di  pensiero  atta  a  plasmare,  come  affermava  un 
prefetto  agli  infzi  del  governo  fascista,  r«animo  eternamente 
bambino  delle  masse  [...]  l’anima  della  popolazione  [...]  facile 
materia  plastica  pronta  a  ricevere  l’impronta  e  il  suggello  di  una 
nuova  idea  e  di  un  nuovo  spirito»*^.  Su  un  livello  culturalmente 
più  alto,  il  problema  del  mito  era  oggetto  di  molte  riflessioni  da 
parte  dei  più  autorevoli  intellettuali  del  fascismo.  Giovanni  Gen¬ 
tile,  per  giustificare  l’antiintellettualismo  fascista  e  la  suggestione 
delle  formule  dogmatiche  che  esso  adoperava,  spiegava  che  «le 
formule  non  sono  idee  e  non  agiscono  come  tali.  Creano  miti,  su¬ 
scitano  consensi  e  adesioni  cieche,  globali,  mettono  in  moto  le 
forze  del  sentimento  e  della  volontà»,  e  per  questo  suscitano  e 
mettono  in  moto  «quei  grandi  fasci  d’uomini  che  rovesciano  po¬ 
sizioni  storiche  secolari,  strumenti  animati  dal  pensiero,  che  si  an¬ 
nida  e  vive  in  pochi  spiriti  guidatori,  anzi  in  uno,  che  è  il  Duce»^. 
Carlo  Curdo,  storico  delle  idee  e  impegnato  intellettuale  fasci¬ 
sta,  autore  di  un  saggio  sui  miti  politici,  scriveva  per  l’autorevo¬ 
le  Dizionario  di  politica  del  PNF,  che  «il  mito  rivela  una  sua  pre¬ 
senza  attiva  e  formidabile  nei  grandi  movimenti  di  masse,  specie 


Mussolini,  Opera  Omnia,  a  cura  di  E.  e  D.  Susmel,  44  voU.,  Firenze  1951- 
1963,  voi.  XVIII,  p.  457  (discorso  pronunciato  a  Napoli  il  24  ottobre  1922). 
Cfr.  E.  Gentile,  Il  mito  dello  Stato  nuovo  dall'antigiolittismo  al  fascismo,  Roma- 
Bari  19992,  pp.  2(>9-211. 

^  G.  Neri,  La  tradizione  mitica  che  ritorna,  in  «Il  Popolo  di  Lombardia», 
23  febbraio  1924. 

^  ACS,  Gabinetto  Pinzi,  b.  2,  fase.  72,  rapporto  del  prefetto  di  Pesaro,  10 
maggio  1923. 

2  G.  Gentile,  Fascismo  e  cultura,  Milano  1928,  pp.  48-49. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo> 


145 


a  sfondo  politico  e  sociale»  ed  «ha  un’importanza  decisiva  nella 
vita  dei  popoli».  Come  «una  rappresentazione,  talvolta  plastica 
talvolta  inconscia,  del  mondo,  o  per  lo  meno  di  alcuni  suoi  aspet¬ 
ti»,  che  sia  di  «contenuto  vero  o  falso,  utile  o  dannoso»,  il  mito, 
suscitato  da  un  uomo  o  sorto  da  un  movimento,  «quando  assur¬ 
ge  veramente  a  convinzione  di  larghi  strati  sociali,  a  fede  di  fol¬ 
le,  esprime  un’interpretazione  della  vita  e  della  storia,  incita  gli 
uomini,  che  credono  in  esso,  ad  azioni  talvolta  eroiche  e  sovru¬ 
mane.  In  nome  di  un  assoluto  che  non  consente  dubbi,  con  un 
linguaggio  facile  ma  imperativo,  il  mito  diventa  una  fede,  una  re¬ 
ligione,  una  forza  morale  che,  finché  dura,  è  capace  delle  più  au¬ 
daci  imprese».  Ma  per  aver  forza  trascinatrice,  il  mito  «deve  sem¬ 
pre  riferirsi  a  taluni  bisogni,  a  talune  esigenze  degli  uomini.  Es¬ 
so  è  intollerante,  minaccioso,  sicuro  di  sé;  e  tuttavia  plastico  e  tal¬ 
volta  anche  modificabile  nel  tempo.  Ha  una  sua  durata,  che  è 
spesso  relativa  all’intrinseca  portata  del  suo  valore  storico  e  cioè 
alla  sua  intransigenza  che  non  è  aliena  da  adattamenti»^.  Quan¬ 
do  diventano  credenze  e  convinzioni  «diffuse  e  dominanti»  i  mi¬ 
ti,  osservava  a  sua  volta  Rodolfo  De  Màttei,  storico  del  pensiero 
politico,  «creano  la  coscienza  collettiva  e  servono  ai  governanti 
per  condurre  gli  egoismi  nazionali  a  un’azione  di  massa»^. 

Seguendo  questa  linea  di  interpretazione,  il  mito  veniva  consi¬ 
derato  dai  fascisti  come  un  potente  e  indispensabile  motore  e  fat¬ 
tore  dell’azione  politica.  Il  mito,  scriveva  Carlo  Costamagna,  uno 
dei  più  integralisti  fra  i  giuristi  del  regime,  era  una  «rappresenta¬ 
zione  soggettiva  della  realtà  capace  di  promuovere  una  afferma¬ 
zione  dello  spirito  del  tutto  indipendente  dal  suo  contenuto  logi¬ 
co  sperimentale»;  miti  erano  le  idee  «suscitatrici  di  opinioni,  di 
sentimenti,  di  determinazioni  volitive»  che  «costituiscono  le  mo¬ 
trici  dell’azione  politica»^®.  Un  nuovo  Stato  e  una  nuova  civiltà  si 
fondano  e  si  perpetuano  attraverso  l’azione  di  miti  divenuti  fede 
collettiva  della  massa.  «Il  compito  dei  ‘fondatori’  è  quello  appun¬ 
to  di  portare  agli  uomini  le  rivelazioni,  che  suscitano  le  rivoluzio- 

®  C.  Curdo,  Mito,  in  PNF,  Dizionario  di  politica,  voi.  Ili,  Roma  1940,  p. 
186.  Cfr.  Id.,  Miti  della  politica,  Roma  1940. 

’  R.  De  Mattei,  Miti  politici  e  fatti  economici,  in  «Educazione  fascista»,  lu¬ 
glio  1928. 

C.  Costamagna,  Razza,  in  PNF,  Dizionario  di  politica,  cit.,  voi.  IV,  pp. 

23-29. 


146 


Il  culto  del  littorio 


ni,  promuovono  la  trasformazione  dei  regimi,  creano  gli  stati  e  ge¬ 
nerano  le  civiltà  mondiali»^.  Per  gli  ideologi  di  un  «misticismo» 
fascista,  i  quali  identificavano  l’essenza  del  fascismo  stesso  con  il 
mito  di  Mussolini,  tutti  i  grandi  avvenimenti  che  trasformano  la 
storia  sono  eventi  mitici  creati  sotto  l’impulso  della  fede^^. 

Il  mito,  dunque,  per  la  cultura  fascista,  non  era  una  forma 
mentale  confinabile  nel  mondo  arcaico  o  in  uno  stadio  primitivo 
della  mentalità,  ma  era  una  forma  strutturale  del  pensiero  uma¬ 
no,  quale  si  esprimeva  soprattutto  nelle  creazioni  artistiche  e  nei 
movimenti  religiosi,  ma  in  forma  altrettanto  rilevante  anche  nel 
mondo  della  politica.  Anzi  Bottai  vedeva  nella  tendenza  alla  crea¬ 
zione  di  miti  politici,  che  «investono  la  nostra  stessa  civiltà»,  una 
caratteristica  della  modernità.  C’era  una  «esigenza  di  miti»,  sen¬ 
tita  soprattutto  dalle  masse  e  in  funzione  delle  masse,  «per  dare 
e  chiarire  un  ideale  da  realizzare,  un’aspirazione  che  tocchi  e  uni¬ 
fichi  i  loro  sentimenti»,  ed  era  compito  dei  politici  eleborare  mi¬ 
ti  capaci  di  rispondere  all’esigenza  delle  masse^^. 

La  necessità  di  miti  politici,  per  i  «fondatori  di  civiltà»,  qua¬ 
li  si  consideravano  i  fascisti,  portava  con  sé,  inevitabilmente,  l’u¬ 
so  di  simboli  e  riti.  Mussolini  aveva  certamente  presente,  su  que¬ 
sto  tema,  la  lezione  di  Gustave  Le  Bon,  autore  che  egli  ammira¬ 
va  molto:  «Una  credenza  religiosa  o  politica  si  fonda  sulla  fede, 
ma  senza  i  riti  e  i  simboli  la  fede  non  potrebbe  durare» Il  fa¬ 
scismo  era  consapevole  della  circolarità  fra  mito,  rito  e  simbolo, 
come  condizione  necessaria  per  instillare  e  mantener  viva  una  fe¬ 
de  collettiva.  Sullo  spirito  umano,  affermava  Camillo  Pellizzi, 
aveva  maggior  peso  «un  bel  simbolo  che  non  una  mediocre  realtà 
di  fatto»’^^.  Una  rivoluzione,  aveva  scritto  nel  1927  un  dirigente 
del  PNF,  si  riconosce  «anche  dalla  potenza  dei  suoi  simboli  e  dal¬ 
la  bellezza  dei  suoi  riti»^''’.  Ma  l’importanza  politica  del  simboli- 

Id.,  Regime,  ivi,  pp.  31-35. 

Cfr.  D.  Marchesini,  La  scuola  dei  gerarchi,  Milano  1976,  p.  105. 

l  miti  moderni,  in  «Primato»,  15  febbraio  1942. 

G.  Le  Bon,  Aphorismes  du  temp  présent,  Paris  1919,  p.  96. 

C.  Pellizzi,  Problemi  e  realtà  del  fascismo,  Firenze  1924,  p.  116.  Pellizzi 
tornò  molti  anni  dopo  a  riflettere  da  sociologo  sul  problema  del  simbolo,  del 
mito  e  del  rito,  con  considerazioni,  per  certi  aspetti,  anticipatrici  dell’analisi 
scientifica  della  liturgia  politica,  ancora  degne  di  nota:  cfr.  Id.,  Rito  e  linguag¬ 
gio,  Roma  1964,  in  particolare  il  capitolo  Vili. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  19  marzo  1927. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo> 


147 


smo,  per  i  fascisti,  non  si  limitava  all’aspetto  estetico.  Forme  di 
visualizzazione  e  di  drammatizzazione  del  mito,  i  simboli  e  i  riti 
erano  necessari  per  rendere  accessibili  al  sentimento  delle  masse 
i  miti  della  «religione  fascista»  e  convertirle  alla  sua  fede.  Dalla 
necessità  di  concretizzare  in  segni  visibili  il  fascino  dell’autorità, 
insegnava  il  sociologo  fascista  Roberto  Michels,  ha  origine  il  sim¬ 
bolismo  politico,  «tratto  d’unione  tra  l’autorità  e  le  masse,  pres¬ 
so  le  quali  esso  ne  mantiene  il  prestigio» La  massa,  sosteneva 
l’autore  di  un  trattato  sulla  concezione  fascista  dello  Stato,  «ha 
bisogno  di  spiritualismo,  di  religiosità,  di  catechismo,  di  rito»*^. 

Muovendo  da  questi  presupposti  culturali,  al  di  là  di  quelle  che 
potevano  essere  le  loro  intime  convinzioni  e  credenze  in  materia,  i 
fascisti  riconoscevano  alla  religione  come  sistema  di  credenze,  di 
miti  e  di  riti,  una  funzione  sociale  predominante  nella  vita  colletti¬ 
va,  come  forza  di  unificazione  spirituale,  ancor  più  necessaria  in 
una  società  che  alle  antiche  fratture  storiche,  sociali,  culturali  della 
sua  plurisecolare  frammentazione  politica  e  geografica,  aveva  ag¬ 
giunto  le  più  recenti  fratture  della  lotta  di  classe  e  dei  conflitti  ideo¬ 
logici,  che  avevano  accompagnato  il  processo  di  industrializzazio¬ 
ne  e  di  modernizzazione,  e  l’entrata  delle  masse  sulla  scena  politi¬ 
ca.  La  reintegrazione  della  società  nell’ordine  presupponeva,  per  il 
fascismo,  l’imposizione  di  una  disciplina  autoritaria,  ma  esigeva  an¬ 
che  una  integrazione  culturale  attraverso  le  forme  più  idonee  a  eser¬ 
citare  un’influenza  sulle  masse,  per  realizzare  la  nazionalizzazione 
delle  masse.  Rispetto  alla  classe  dirigente  liberale,  il  fascismo  af¬ 
frontava  in  pratica  con  maggior  consapevolezza  e  sensibilità  demo¬ 
cratica  -  nel  senso  della  «democrazia  totalitaria»^^  -  il  problema 
della  formazione  dell’unità  morale  degli  italiani,  procedendo  riso¬ 
lutamente  all’opera  di  indottrinamento  e  di  conversione  con  meto¬ 
di  totalitari,  convinto  che  non  vi  fosse  alcuna  possibilità  realistica, 
nella  società  moderna,  di  nazionalizzare  le  masse  cercando  di  con¬ 
ciliare  la  libertà  dell’individuo  con  l’unità  morale  della  nazione:  so¬ 
lo  sacrificando  la  libertà  si  poteva  mirare  a  realizzare  l’unità,  attra¬ 
verso  la  conversione  collettiva  dell’individuo  e  delle  masse  alla  re- 

R.  Michels,  Studi  sulla  democrazia  e  sull’autorità,  Firenze  1933,  p.  75. 

G.  Bortolotto,  Lo  Stato  e  la  dottrina  corporativa,  Bologna  1930,  p.  35. 

Cfr.  J.  Talinon,  Le  origini  della  democrazia  totalitaria,  trad.  it.  di  M.L.  Iz- 
zo  Agnetti,  Bologna  1967. 


148 


Il  culto  del  littorio 


ligione  del  fascismo.  Lo  Stato  doveva  operare  a  tempo  pieno  come 
un  grande  istituto  di  rieducazione  collettiva,  dove,  alla  forzata  eli¬ 
minazione  delle  forme  di  cultura  di  massa  antagoniste,  contrarie  ad 
accettare  il  primato  dello  Stato,  si  accompagnava  la  sperimentazio¬ 
ne  di  nuove  forme  di  cultura  collettiva  per  una  integrazione  totali¬ 
taria  delle  masse,  secondo  i  valori  e  i  fini  propri  del  fascismo  e  del¬ 
la  sua  cultura.  Per  d  fascismo,  la  conversione  delle  masse  ai  suoi  mi¬ 
ti  era  condizione  indispensabile  e  necessaria  non  solo  per  consoli¬ 
dare  il  potere,  già  saldamente  presidiato  dal  sistema  poliziesco,  ma 
per  realizzare  il  suo  ambizioso  progetto  totalitario,  la  rigenerazio¬ 
ne  degli  italiani  per  creare  un  «armonico  collettivo».  Il  processo  di 
integrazione  totalitario  era  una  «rivoluzione  continua»,  che  richie¬ 
deva  una  capillare  organizzazione  della  collettività  nel  campo  del¬ 
la  politica,  della  produzione  e  del  «tempo  libero»,  e  la  costante  mo¬ 
bilitazione  delle  masse.  Era  un  fondamentale  postulato  della  peda¬ 
gogia  totalitaria  la  convinzione  che  «per  gli  uomini  assenti  dalla  vi¬ 
ta  politica  le  virtù  civili  si  deformano.  La  politica  fascista  vuole  es¬ 
sere  una  continua  mobilitazione»^”.  Solo  con  la  socializzazione  di 
un  proprio  sistema  di  miti  e  di  credenze,  facendo  diventare  la  reli¬ 
gione  fascista  abito  mentale,  etica  civile  e  stile  di  vita  della  colletti¬ 
vità  nazionale,  il  fascismo  riteneva  di  poter  conseguire  in  modo  at¬ 
tivo  e  duraturo  l’integrazione  delle  masse  entro  le  strutture  dello 
Stato  totalitario,  trasformando  la  massa  in  una  comunità  morale 
animata  da  una  unica  fede.  E  uno  dei  principali  veicoli  per  propa¬ 
gandare  fra  le  masse  i  miti  del  regime,  e  per  instillare  e  tener  viva  in 
esse  la  fede  nella  religione  fascista,  era  l’adozione  di  un  sistema  di 
simboli  e  riti  capaci  di  influire  sul  sentimento  della  massa,  secondo 
le  forme  tipiche  delle  religioni. 


I  tralignati  discepoli  di  Rousseau 

Ancora  una  volta,  i  fascisti  seguivano  i  precetti  dell’autore  del¬ 
la  Psicologia  della  folla: 

Le  feste  nazionali,  le  grandi  commemorazioni,  le  bandiere,  le  sta¬ 
tue,  le  pompe  ufficiali,  le  toghe  dei  magistrati,  l’apparato  della  giu- 


N.  Padellaro,  Fascismo  educatore,  Roma  1938,  p.  165. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo> 


149 


stizia  con  le  sue  bilance  simboliche,  sono  i  più  sicuri  sostegni  della 
tradizione  e  della  comunità  di  sentimenti  su  cui  si  fonda  la  forza  del¬ 
la  nazione.^^ 

La  liturgia  di  massa  era  necessaria  quanto  l’organizzazione  to¬ 
talitaria  per  promuovere  la  mobilitazione  delle  masse  e  conqui¬ 
stare  il  loro  consenso,  inteso  non  come  libera  e  critica  parteci¬ 
pazione,  ma  come  adesione  di  fede:  attraverso  la  pratica  dei  riti, 
con  la  costante  opera  di  indottrinamento  catechistico  da  parte 
del  partito  e  dello  Stato,  la  religione  fascista  doveva  divenire  com¬ 
ponente  essenziale  della  mentalità  e  del  carattere  degli  italiani, 
trasformarsi  in  tradizione  e  costume,  suscitando  e  alimentando 
l’entusiastica  partecipazione  delle  masse  alla  vita  del  regime.  A 
questo  scopo,  però,  la  liturgia  di  massa,  disse  Mussohni,  doveva 
avere  anche  un  «elemento  festoso»: 

Musica  e  donne  sono  il  lievito  della  folla  e  la  rendono  più  legge¬ 
ra.  Il  saluto  romano,  tutti  i  canti  e  le  formule,  le  date  e  le  commemo¬ 
razioni,  sono  indispensabili  per  conservare  il  pathos  ad  un  movimen¬ 
to.  Così  è  già  stato  nell’antica  Roma.^^ 

Mussolini  aveva  certamente  avuto  qualche  familiarità,  quanto 
meno  negli  anni  della  militanza  socialista,  con  la  storiografia  del¬ 
la  rivoluzione  francese,  e  probabilmente,  parlando  di  riti  e  sim¬ 
boli,  aveva  in  mente  le  suggestive  pagine  di  Michelet  sulle  feste 
e  i  culti  rivoluzionari,  ma  aveva  anche  presente  l’uso  di  simboli 
e  riti  nella  Russia  bolscevica.  Un  diplomatico  sovietico,  riferen¬ 
dosi  alle  relazioni  «persino  confidenziali»  fra  Stalin  e  Mussolini 
negh  anni  Trenta,  ha  rivelato  che  Mussolini  aveva  chiesto  e  ave¬ 
va  avuto  da  Stalin  la  sceneggiatura  delle  manifestazioni  nella  piaz¬ 
za  Rossa  per  il  Primo  maggio  e  l’anniversario  della  rivoluzione 
d’ottobre,  e  che  le  aveva  copiate,  come  aveva  constatato  lo  stes¬ 
so  diplomatico  assistendo  ad  una  manifestazione  fascista  con  la 
presenza  di  MussolinP^.  Riferendosi  probabilmente  a  queste 

G.  Le  Bon,  La  vie  des  vérités,  Paris  1920,  pp.  38-39. 

Ludwig,  Colloqui  con  Mussolini,  cit.,  p.  122. 

2^  Veterans  speak  of  thè  diplomatic  Service,  in  «International  Affairs»,  1989, 
n.  9,  p.  132.  Cfr.  R.  De  Felice,  Mussolini  l’alleato,  voi.  I,  tomo  II,  Torino  1990, 
p.  1281,  n.  1.  A  conferma  dell’interesse  di  Mussolini  per  i  rituali  sovietici,  ri- 


150 


Il  culto  del  littorio 


esperienze,  Mussolini  affermava  che  ogni  rivoluzione  deve  crea¬ 
re  nuove  forme,  nuovi  miti  e  nuovi  riti  per  dare  ordine,  ritmo, 
entusiasmo  alle  masse: 

allora  le  vecchie  tradizioni  si  devono  utilizzare  e  trasformare.  Nuove 
feste,  gesti  e  forme  si  devono  creare,  affinché  essi  stessi  divengano 
nuovamente  tradizione.  La  festa  degli  aeroplani,  che  abbiamo  istitui¬ 
ta,  è  oggi  nuova.  Fra  cinquant’anni  la  abbellirà  la  patina  della  tradi- 
zione.^"* 

Per  organizzare  la  sua  liturgia,  la  rivoluzione  fascista  non  eb¬ 
be  un  artista  come  Jacques-Louis  David,  il  grande  coreografo  del¬ 
le  feste  civili  della  rivoluzione  francese.  Non  è  tuttavia  arbitrario 
affermare  che,  per  certi  aspetti,  gli  organizzatori  del  culto  del  lit¬ 
torio,  con  i  loro  propositi  di  pedagogia  di  massa,  possono  essere 
considerati  i  continuatori,  per  quanto  spuri,  della  tradizione  ri¬ 
voluzionaria,  tralignati  discepoli  di  Rousseau  nell’applicazione 
dei  suoi  precetti  sulle  feste  civili  per  l’edificazione  di  una  «re¬ 
pubblica  della  virtù».  Come  per  la  sacralizzazione  dello  «Stato 
educatore»,  anche  nella  istituzione  della  liturgia  politica  il  fasci¬ 
smo  si  muoveva  sulla  via  aperta  dalla  rivoluzione  francese,  pur 
dileggiando  platealmente  gli  «immortali  principi  dell’89»  e  l’u- 
topismo  razionalista  ed  egualitarista  dei  giacobinP^.  Ai  culti  del¬ 
la  Francia  rivoluzionaria,  in  effetti,  aveva  fatto  esplicito  riferi¬ 
mento,  nel  1922,  un  collaboratore  della  rivista  di  Mussolini: 

Pochi  dogmi  valgono  a  ciò  meglio  di  prolisse  dissertazioni.  E  più 
efficace  d’ogni  dogma  è  per  esaltare  il  sentimento,  la  coreografia  ester¬ 
na,  il  cerimoniale,  il  rito.  Un  forte  sentimento  si  manifesta  irresisti¬ 
bilmente  in  atti  esterni  [...]  Durante  la  rivoluzione  francese,  l’esalta¬ 
zione  religiosa  del  popolo  si  manifestò  in  un  pittoresco  rituale  laico. 
Qualcosa  di  simile  si  produce  oggi  nelle  file  fasciste.^^ 

sulta  che  nel  1927  egli  chiese  al  ministero  degli  Esteri  informazioni  sull’uso  del 
«gran  pavese»  nelle  feste  sovietiche,  cfr.  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1927,  fase. 
15.19  n.  2446. 

Ludwig,  Colloqui  con  Mussolini,  cit.,  p.  72. 

Cfr.  G.L.  Mosse,  Fascism  and  thè  French  Revolution,  in  «Journal  of  Con- 
temporary  History»,  24,  1989,  pp.  5-26. 

Volt,  Vilfredo  Pereto  e  il  fascismo,  in  «Gerarchia»,  ottobre  1922. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo» 


151 


Il  richiamo  alla  rivoluzione  francese  non  appariva,  allora,  in¬ 
giustificato  o  blasfemo.  Un  giornalista  francese,  presidente  del¬ 
l’associazione  della  stampa  straniera  a  Roma,  esaminando  con  no¬ 
tevole  acume  il  misticismo  e  il  simbolismo  politico  dei  fascisti  al¬ 
la  fine  del  1924,  riscontrò  varie  analogie  fra  rivoluzione  francese 
e  rivoluzione  fascista,  fino  a  parlare  di  una  «filiazione»  del  fasci¬ 
smo  dal  giacobinismo.  Come  i  giacobini,  scriveva  De  Nolva,  il  fa¬ 
scismo  vuole  creare  un  mondo  virtuoso,  e  per  compiere  la  sua 
missione  proclama  la  necessità  e  la  legittimità  della  dittatura  ri¬ 
voluzionaria,  consacrandola  con  il  culto  della  patria^"^. 


Riti  della  comunione  di  massa 

Dopo  aver  posto  il  suo  potere  su  solide  basi,  il  fascismo  con¬ 
tinuò  a  dedicarsi  alla  elaborazione  di  una  liturgia  nazionale,  coe¬ 
rente  con  le  sue  idee  sui  miti,  sui  riti  e  sui  simboli,  come  parte 
fondamentale  nel  suo  progetto  totalitario  di  creazione  dell’«ita- 
liano  nuovo».  La  sua  azione,  in  questo  campo,  si  sviluppò,  come 
abbiamo  visto,  con  l’istituzione  di  un  organico  sistema  di  riti,  fe¬ 
ste  e  manifestazioni  collettive,  per  celebrare  il  culto  del  littorio 
durante  tutto  l’arco  deU’«anno  fascista»  secondo  il  ritmo  fissato 
dal  «calendario  del  regime».  Ma  ai  riti  periodici  delle  feste  del¬ 
l’unità,  della  monarchia  e  della  Grande  guerra,  degli  anniversari 
della  rivoluzione  e  del  Natale  di  Roma,  di  volta  in  volta  si  ag¬ 
giungevano  altre  manifestazioni  di  massa,  dalle  sagre  alle  mostre, 
dalle  parate  alle  grandi  adunate  organizzate  in  occasione  di  even¬ 
ti  straordinari,  come  per  esempio  le  manifestazioni  per  la  cam¬ 
pagna  d’Etiopia,  gli  incontri  del  duce  con  la  foUa  durante  i  suoi 

R.  De  Nolva,  Le  mysticisme  et  l’esprit  révolutionnaire  du  fascisme,  in 
«Mercure  de  France»,  1°  novembre  1924:  «La  Rivoluzione  aveva  l’altare  della 
patria,  la  coccarda  tricolore,  le  tavole  della  costituzione,  la  colonna  dei  diritti 
dell’uomo,  gli  alberi  della  libertà,  i  fasci  dell’unità,  i  riti  funebri  e  le  feste  com¬ 
memorative  in  forma  di  cortei,  di  cerimonie,  di  giuochi  simbolici  e  di  diverti¬ 
menti  educativi.  Il  fascismo  ha  l’altare  della  patria,  il  fascio  dei  littori,  le  tavo¬ 
le  della  legge  (che  sono  le  decisioni  del  Gran  Consiglio),  gli  alberi  della  ri¬ 
membranza,  i  battaglioni  degli  scolari  fascisti,  i  gruppi  femminili,  una  fraseo¬ 
logia  brutale  e  minacciosa,  le  processioni  civili,  divise  grossolane,  il  teschio  cu¬ 
cito  sulla  camicia  nera,  e  la  ‘Santa  Milizia’,  al  posto  della  ‘Santa  Montagna’». 


152 


Il  culto  del  littorio 


viaggi  per  l’Italia,  le  sue  innumerevoli  apparizioni  al  balcone  di 
palazzo  Venezia  per  esaudire  le  invocazioni  della  folla.  L’inesau¬ 
ribile  e  spettacolare  orchestrazione  dell’entusiasmo  collettivo,  nel 
regime  fascista,  coinvolse  milioni  di  italiani,  uomini,  donne  e 
bambini,  e  affascinò  viaggiatori  stranieri  simpatizzanti  del  fasci¬ 
smo  e  anche  disincantati  osservatori,  che  non  erano  prigionieri 
della  sua  retorica  e  neppure  soggiogati  dal  mito  del  duce.  Uno 
studioso  americano  definì  i  riti  e  le  cerimonie  del  fascismo  «la 
nuova  arte  fascista  delle  celebrazioni  secolari»^^.  Un  altro  scrisse 
che  le  manifestazioni  di  massa  erano  la  principale  industria  del¬ 
l’Italia  fascista,  ed  era  ingiusto,  nei  confronti  dei  suoi  organizza¬ 
tori  e  realizzatori,  non  includerla  nelle  statistiche  della  produ¬ 
zione^ 

La  celebrazione  di  massa  del  culto  del  littorio  si  svolgeva  sot¬ 
to  la  regia  del  partito  fascista  e  sotto  un  occhiuto  controllo  del¬ 
l’apparato  poliziesco,  che  ne  assicurava  lo  svolgimento  al  riparo 
di  eventuali  pericoli  di  turbamento,  specialmente  nelle  grandi 
città.  Alla  vigilia  di  ogni  manifestazione  venivano  adottate  le  op¬ 
portune  misure  preventive  «perché  cerimonie  stabilite  non  siano 
turbate  da  manifestazioni  sovversive  aut  incidenti»,  procedendo¬ 
si  al  «tempestivo  et  largo  rastrellamento  individui  o  comunque 
sospetti»,  alla  stretta  vigilanza  sugli  stranieri,  alla  intensificazio¬ 
ne  «servizi  frontiera  per  speciali  misure  da  attuarsi  per  sicurezza 
via  ferrate  opere  d’arte,  ponti,  viadotti,  opere  comunque  interes¬ 
santi  difesa  militare  et  vita  economica  nazionale»^”. 

Le  forme  essenziali  dei  riti  del  littorio  possono  essere  descrit¬ 
te  riferendoci,  come  esempio,  all’anniversario  della  «marcia  su 
Roma»  nel  1926,  celebrato  «dalla  grande  massa  del  popolo  ita¬ 
liano,  inquadrata  nei  Fasci,  nella  Milizia,  nei  sindacati,  nelle  or¬ 
ganizzazioni  giovanili»,  con  la  partecipazione  dei  decorati,  dei 
mutilati,  dei  combattenti  e  di  «tutte  le  altre  organizzazioni  che 
muovono  nell’orbita  del  Regime».  La  celebrazione  aveva  una  «se¬ 
vera  impronta  militare»  per  dare  a  tutti  «l’idea  della  formidabi¬ 
le  compagine  di  forze  che  stanno  alla  base  della  Rivoluzione  Fa- 

H.W.  Schneider,  Making  thè  Fascist  State,  New  York  1928,  p.  222. 

H.  Finer,  Mussolini’ s  Italy,  London  1935,  p.  404. 

ACS,  MI,  DGPS,  1930-1931,  cat.  C4,  b.  373,  disposizioni  della  questu¬ 
ra  di  Roma,  23  ottobre  1929. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo>. 


153 


scista  e  ne  garantiscono  contro  chiunque  la  vita  e  lo  sviluppo»^  L 
Nei  cortei  il  posto  d’onore  era  assegnato  alle  madri  vedove  e  agli 
orfani  dei  caduti,  ai  decorati,  ai  mutilati.  Dopo  l’omaggio  ai  ca¬ 
duti  della  guerra  e  della  rivoluzione,  i  cortei  si  recavano  ad  ap¬ 
porre  il  simbolo  del  fascio  alle  opere  pubbliche  compiute.  Il  par¬ 
tito  stabilì  inoltre  che  tutte  le  cerimonie  dovevano  essere  «im¬ 
prontate  alla  massima  severità  e  sobrietà.  Sono  esclusi  pertanto  i 
banchetti  e  i  ricevimenti  fastosi».  Anche  la  parte  oratoria  dove¬ 
va  essere  limitata  alla  lettura  simbolica  del  messaggio  del  duce  e 
alla  illustrazione,  da  parte  del  segretario  federale,  delle  opere 
compiute  dal  fascismo,  «senza  abbandonarsi  a  sfoghi  retorici»^^. 
I  fascisti  avevano  l’obbligo  di  indossare  la  camicia  nera  e  la  sera 
dovevano  riunirsi  nelle  loro  sedi  per  «manifestazioni  intime  di 
fraternità  fra  i  gregari»  nel  ricordo  dei  caduti  fascisti.  Per  esalta¬ 
re  la  figura  del  duce,  avviato  ormai  a  diventare  un  mito  vivente, 
venne  diffuso  un  film  a  lui  dedicato,  «proiettato  simultaneamen¬ 
te»  in  tutti  i  capoluoghi  e  nelle  colonie,  presentando  Mussolini 
«in  una  visione  luminosa  e  viva,  che  infonderà  un  amore  sempre 
più  profondo  per  l’Italia»^^.  Tutto  il  rituale  dell’anniversario  era 
interpretato  come  rinnovamento  del  «giuramento  di  fedeltà  al¬ 
l’Idea»:  «Così  tutto  un  popolo,  in  perfetta  fusione  con  la  mente 
e  la  passione  del  suo  Capo,  ha  celebrato  l’inizio  di  un  nuovo  an¬ 
no  di  fatiche  e  di  speranze»,  commentava  il  «Foglio  d’ordini»  del 
7  novembre  1926. 

Negli  anni  successivi,  il  rituale  non  subì  modifiche  sostanzia¬ 
li.  Alla  vigilia  di  ogni  anniversario  il  partito  dava  disposizioni  per 
la  celebrazione,  divisa  nei  due  tempi  del  rito  e  della  festa  per  di¬ 
stinguere  il  «sacro»  dal  «profano».  Il  rito,  che  si  celebrava  gene¬ 
ralmente  la  mattina,  comprendeva  le  cerimonie  religiose  e  mar¬ 
ziali:  la  messa  in  memoria  dei  caduti  della  guerra  e  della  rivolu¬ 
zione,  la  sfilata  di  tutte  le  organizzazioni  del  regime  e  delle  asso¬ 
ciazioni  combattentistiche  davanti  alle  autorità  civili  e  militari, 
l’omaggio  ai  monumenti  dei  caduti  fascisti  e  dei  caduti  della 
Grande  guerra,  la  lettura  del  messaggio  del  duce,  l’ascolto  nelle 
piazze  del  suo  discorso  radiodiffuso.  La  festa  si  svolgeva  nelle  ore 

PNF,  «Foglio  d’ordini»,  n.  10,  9  ottobre  IV  (1926). 

PNF,  «Foglio  d’ordini»,  n.  11,  15  ottobre  IV  (1926). 

«Il  Popolo  d’Italia»,  27  ottobre  1926. 


154 


Il  culto  del  littorio 


pomeridiane,  e  comprendeva  gite  campestri,  balli,  canti,  tratte¬ 
nimenti  musicali.  La  scenografia  per  le  cerimonie  mescolava  sim¬ 
boli  tradizionali  e  moderni:  imbandieramento  e  illuminazione 
degli  edifici  pubblici,  suono  a  distesa  per  mezz’ora  delle  campa¬ 
ne  delle  torri  civiche,  luminarie  nelle  piazze  e  nelle  strade,  lumi¬ 
nosi  simboli  del  fascio  e  iscrizioni  inneggianti  al  duce,  fiaccolate 
e  fuochi  accesi  la  sera  «sui  picchi  delle  Alpi  e  degli  Appennini». 
Sintesi  simbolica  di  antico  e  moderno  era  la  coreografìa  rituale 
delle  cerimonie  nella  capitale,  con  parate  militari  nello  scenario 
dei  monumenti  romani,  stormi  di  aerei  in  volo  e  adunate  nel  Co¬ 
losseo.  Negli  anniversari,  inoltre,  per  i  fascisti  erano  prescritte  la 
camicia  nera,  l’uniforme  dell’organizzazione  di  appartenenza,  le 
decorazioni.  La  sera,  tutti  i  fascisti  dovevano  riunirsi  nelle  loro 
sedi  «in  fraternità  di  ricordi  e  di  propositi»^"’.  Per  la  celebrazio¬ 
ne  del  23  marzo,  a  partire  dal  1932,  un  posto  d’onore  era  riser¬ 
vato  ai  «sansepolcristi»,  insigniti  di  uno  speciale  brevetto  dal  du¬ 
ce.  Fra  le  cerimonie  del  28  ottobre  divenne  tipico  il  rito  d’inau¬ 
gurazione  delle  opere  pubbliche  compiute  nella  provincia,  cari¬ 
cando  di  significato  simbolico  l’idea  del  costruire,  che  nella  mi¬ 
tologia  fascista  evocava  la  romanità,  l’attivismo  vitalistico,  la  con¬ 
cretezza  realizzatrice,  la  volontà  del  «durare»  in  una  continua 
sfida  al  tempo,  la  fede  nel  futuro. 

Le  celebrazioni  più  solenni  del  culto  del  littorio  si  svolgeva¬ 
no  naturalmente  nella  capitale  alla  presenza  di  Mussolini,  in  piaz¬ 
za  Venezia,  di  fronte  all’Altare  della  patria  e  al  palazzo  Venezia 
divenuto  dal  1929  residenza  di  lavoro  del  duce.  Il  fascismo,  scri¬ 
veva  un  esaltato  cantore  del  mito  mussoliniano,  aveva  riabilitato 
la  piazza  come  luogo  di  culto:  piazza  Venezia,  collocata  fra  i  tem¬ 
pli  antichi  della  romanità  e  i  templi  dell’italianità,  era  il  «centro 
sacro»  della  religione  fascista,  la  «piazza  della  Rivoluzione,  sin¬ 
tesi  di  tutte  le  piazze  d’Italia»,  meta  di  continui  pellegrinaggi  e 
adunate  oceaniche  di  folle  che  «invocano  l’apparizione  del  Du¬ 
ce  e  la  sua  parola  che  opera  l’elevazione  alle  più  alte  tensioni»^^. 
Nelle  cerimonie  della  capitale,  alla  rituale  parata  marziale  delle 
forze  del  regime  e  al  discorso  del  duce,  si  aggiungevano  talvolta 
altri  atti  rituali  come,  nel  1928,  il  rogo  compiuto  dal  duce,  come 

PNF,  «Foglio  d’ordini»,  n.  11,  15  ottobre  IV  (1926). 

O.  Dinaie,  \m  rivoluzione  che  vince,  Foligno  1934,  pp.  57-69. 


Fig.  9.  L’illuminazione  notturna  in  piazza  del  Duomo  a  Milano  in  oc¬ 
casione  del  28  ottobre  1933  («La  Rivista  illustrata  del  Popolo  d’Ita¬ 
lia»,  novembre  1933). 


156 


Il  culto  del  littorio 


«simbolo  dell’offerta  del  Popolo  italiano  al  pubblico  Erario»^^, 
di  140  milioni  di  titoli  del  debito  pubblico  in  due  are  romane, 
appartenenti  alle  Terme  di  Diocleziano,  innalzate  davanti  all’Al¬ 
tare  della  patria.  Le  grandi  adunate  per  la  campagna  d’Etiopia, 
e  in  particolare  la  «giornata  della  fede»,  furono  probabilmente  il 
momento  della  maggiore  unità  di  sentimenti  fra  il  regime  e  gli 
italiani,  l’attimo  più  prossimo  allo  stato  di  mistica  comunione  che 
il  fascismo  avrebbe  voluto  trasformare  in  condizione  permanen¬ 
te  della  vita  collettiva  della  nazione. 

L’orchestrazione  della  liturgia  di  massa  non  si  limitava  sol¬ 
tanto  ai  riti  politici  del  regime,  ma  abbracciava  tutte  le  manife¬ 
stazioni  organizzate  della  vita  collettiva:  dalle  sagre  popolari  allo 
sport,  alle  mostre.  Il  fascismo  si  appropriò  delle  feste  tradiziona¬ 
li  inserendole  nel  proprio  sistema  di  miti,  simboli  e  riti,  come  fe¬ 
ce,  per  esempio,  con  la  «Befana  fascista»,  istituita  dal  partito  nel 
1928  con  la  distribuzione  di  doni  ai  bambini  poveri  per  far  sen¬ 
tire  «attraverso  il  sorriso  di  un  dono  gentile,  l’affettuosa  premu¬ 
ra  della  Patria  fascista»^"^.  Nel  1931,  la  «Befana  fascista»  a  Mila¬ 
no  fu  distribuita  il  giorno  di  Natale,  in  nome  del  duce,  e  fu  per 
questo  ribattezzata  «Natale  del  Duce»,  come  parte  di  «un  vasto 
programma  di  assistenza  invernale»^^.  Lo  zelo  staraciano  per  la 
riforma  delle  abitudini  borghesi,  non  consone  con  il  culto  del  lit¬ 
torio,  si  spinse,  alla  fine  degli  anni  Trenta,  fino  ad  emanare  cir¬ 
colari  che  vietavano  gli  scambi  d’auguri  il  primo  dell’anno,  es¬ 
sendo  l’inizio  dell’«anno  fascista»  il  29  ottobre,  e  circolarono  per¬ 
sino  voci  sulla  possibile  abolizione  del  Capodanno,  sulla  scia,  si 
diceva  della  «Germania  anticattolica,  che  sposta  e  snatura  il  Na¬ 
tale  cristiano  con  la  sua  nuova  religione  della  natura»’^.  In  realtà, 
il  fascismo  non  si  spinse  mai,  nonostante  le  sollecitazioni  degli 
ammiratori  della  Germania  nazista,  verso  questa  direzione,  an¬ 
che  se,  col  suo  metodo  di  assimilazione  sincretica,  incorporò  nel 
culto  del  littorio  tutto  il  complesso  delle  manifestazioni  di  vita 
collettiva  già  esistenti,  veicolando  i  miti  della  religione  fascista  per 
vie  meno  politicamente  caratterizzate,  e  per  questo  più  adatte  ad 

Il  rogo  simbolico,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  28  ottobre  1928. 

Una  circolare  di  S.E.  Turati,  in  «Il  Popolo  d’Italia»  15  gennaio  1929. 

Cfr.  «Il  Popolo  d’Italia»,  12  dicembre  1931. 

ACS,  MI,  Divisione  polizia  politica  1927-1944,  b.  220,  rapporto  da  Ro¬ 
ma,  2  gennaio  1939. 


JV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo» 


157 


influire  sulla  mentalità  delle  masse  diffidenti  o  recalcitranti  ai 
messaggi  sfacciatamente  ideologici. 

Di  simbolismo  fascista  furono  permeate  anche  le  sagre  tradizio¬ 
nali  della  vita  rurale,  come  la  «festa  dell’uva»,  che  si  celebrava  l’ulti¬ 
ma  domenica  di  settembre,  rilanciata  dal  regime  per  «propaganda- 
re  fra  le  masse  il  consumo  dello  squisito  e  saluberrimo  frutto  della 
vite»"^®,  in  favore  della  produzione  nazionale.  La  sagra  dell’uva  di¬ 
venne  un’occasione  per  esaltare  la  romanità  del  fascismo,  che  re¬ 
staurava  l’italianità  delle  «feste  dei  raccolti»  rievocando,  con  spirito 
di  identità,  «le  tradizioni  sane  della  terra  e  della  fecondità»,  che  «vin¬ 
cono  il  tempo  e  ricongiungono  le  nuove  razze  che  creano  e  rico¬ 
struiscono  a  quelle  antiche  del  Mediterraneo,  la  cui  legge  fu  appun¬ 
to  di  costruire  e  produrre  nella  realtà»:  la  festa  dell’uva,  secondo 
l’organo  dei  giovani  fascisti,  era  «molto  simile  a  quella  dei  Romani  i 
quali  non  ammettevano  mescolanze  barbariche  nei  loro  riti  e  non 
volevano  che  contaminazioni  orgiastiche  guastassero  le  gioiose  feste 
della  vendemmia»'’^  Nella  rappresentazione  fascista,  questa  festa, 
come  altre  manifestazioni  legate  alla  produzione  agricola  e  al  lavoro 
contadino,  non  era  solo  «una  colorita  e  gioconda  dimostrazione  fol¬ 
cloristica,  ma  l’espressione  sana  e  vigorosa  della  vita  dei  campi,  del¬ 
la  serena  gioia  del  lavoro  agricolo,  della  feracità  lussureggiante  dei 
nostri  vigneti»"^^.  Promossa  dal  regime  come  «rito  gioioso  e  solen¬ 
ne»,  che  aggiungeva  un  «alto  valore  simbolico»  alla  sua  importanza 
mercantile,  abbattendo  le  barriere  «tra  officina  e  vigna,  tra  vivere 
cittadino  e  vita  rustica»,  anche  la  sagra  dell’uva  portava  il  suo  con¬ 
tributo  alla  liturgia  per  r«armonico  collettivo»,  come  «grande  festa 
autunnale  di  tutta  la  nazione»  celebrata  collettivamente  aU’aperto"^^. 

Il  fascismo  alimentava  il  culto  delle  tradizioni  legate  alla  na¬ 
tura  e  alla  vita  dei  campi,  ma  non  ebbe,  come  il  misticismo  ro¬ 
mantico  nazista,  una  «religione  della  natura»"***:  la  natura,  nel  cul- 

L’uva,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  27  settembre  1931. 

M.S.,  Spirito  rurale,  in  «Gioventù  fascista»,  30  settembre  1932. 

Il  Duce  alla  festa  dell’uva  a  Roma,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  29  settembre 

1931. 

Rustico,  'Vendemmia  in  città,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  21  settembre  1932. 

Cfr.  G.L.  Mosse,  Le  origini  culturali  del  Terzo  Reich,  trad.  it.  di  F.  Saba- 
Sardi,  Milano  1968,  pp.  27  sgg.;  R.A.  Pois,  Nationalsocialism  and  thè  Religion 
of  Nature,  London  1986.  Sul  «mito  della  terra»  nel  fascismo,  cfr.  P.G.  Zunino, 
L’ideologia  del  fascismo,  Bologna  1985,  pp.  300-309. 


158 


Il  culto  del  littorio 


to  del  littorio,  è  la  natura  domata,  redenta  e  fecondata  dal  lavo¬ 
ro  dell’uomo.  Nella  sfilata  di  207  carri  per  la  «festa  dell’uva»  del 
1931  a  Roma,  alla  presenza  del  duce,  passò  tra  i  primi  un  grup¬ 
po  di  carri  della  bonifica  di  Maccarese,  che  simbolizzavano  be¬ 
ne  questa  idea  della  natura,  rappresentando  r«opera  di  reden¬ 
zione»:  il  primo  carro  riproduceva  un  frammento  della  palude, 
irta  di  canneti  e  giunchi,  insidiata  dalla  malaria;  gli  altri  raffigu¬ 
ravano  le  varie  fasi  di  progresso  nei  lavori  di  bonifica,  fino  al¬ 
l’ultimo  «che  offre  la  visione  stupenda  di  una  vendemmia  allie¬ 
tata  dall’opulenza  dei  grappoli  e  dalla  festosità  delle  pingui  bot¬ 
ti»'*^.  La  natura,  in  quanto  tale,  non  era  parte  della  religione  fa¬ 
scista,  ma  vi  era  presente  come  uno  degli  scenari  per  la  celebra¬ 
zione  dei  suoi  riti:  «La  vita  nuova  della  nuova  Italia  deve  essere 
tolta  al  chiuso  in  cui  ammuffiva  ed  immiseriva  quella  di  un  tem¬ 
po  e  portata  nelle  aperte  vie  arieggiate  e  soleggiate.  Muoversi  fi¬ 
sicamente  vuol  dire,  per  molti,  muoversi  spiritualmente»'^^. 

L’esaltazione  fascista  delle  forme  di  vita  collettiva  all’aperto 
incoraggiava  la  intensa  e  diffusa  promozione  delle  attività  ginni¬ 
che  e  sportive,  poste  anch’esse  al  servizio  della  «propaganda  del¬ 
la  fede»  perché,  come  spiegava  nel  1926  la  commissione  incari¬ 
cata  di  elaborare  un  progetto  per  l’educazione  fisica  e  per  la  pre¬ 
parazione  militare  del  paese,  il  «culto  del  vigore  fisico  si  connet¬ 
te  sempre  con  quello  della  patria,  e  dove  sorge  ideale  di  riscatto, 
di  redenzione  nazionale,  subito  si  manifesta  l’amore  per  gli  eser¬ 
cizi  fisici»*’^.  Il  regime  impiegò  cospicue  risorse  per  incrementa¬ 
re  la  pratica  della  ginnastica  e  dello  sport,  finanziando  la  costru¬ 
zione  di  palestre,  stadi,  colonie,  che  divennero,  anche  questi,  luo¬ 
ghi  dove  si  praticava  il  culto  della  sanità  fisica  come  parte  inte¬ 
grante  del  culto  del  littorio  nell’opera  di  educazione  delle  masse 
e  di  formazione  deir«italiano  nuovo»,  preparando  il  fisico  e  tem¬ 
prando  il  carattere  del  cittadino  virile  e  virtuoso,  credente  e  com¬ 
battente  per  la  patria.  Uno  dei  primi  esempi  di  stadio  fascista  fu 
il  «Littoriale»  di  Bologna,  sorto  nel  1927  per  iniziativa  di  Lean¬ 
dro  Arpinati,  capo  fascista  locale,  al  quale  «Il  Popolo  d’Italia»  at- 

Il  Duce  alla  festa,  cit. 

A.  Toni,  Il  Littoriale  polisportivo,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  28  agosto  1926. 

Commissione  per  lo  studio  di  un  progetto  relativo  all’ordinamento  del¬ 
l’educazione  fisica  e  della  preparazione  militare  del  Paese,  Relazione  e  Propo¬ 
ste,  Roma  1926,  p.  8,  cit.  in  P.  Ferrara,  L’Italia  in  palestra,  Roma  1992,  p.  214. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  colle ttivo>. 


159 


tribuiva  un  temperamento  di  «visionario  e  di  pratico  che  è  in  ogni 
propiziatore  e  propugnatore  di  religioni  laiche  e  chiesastiche»**^. 
Una  statua  equestre  del  duce  campeggiava  aU’interno  dell’anfi¬ 
teatro  bolognese  per  eternare  l’evento  del  discorso  che  nel  1926, 
dall’alto  di  un  cavallo.  Mussolini  aveva  rivolto  a  cinquantamila 
camicie  nere  raccolte  «nel  nudo  vaso  ellittico  del  Littoriale,  ap¬ 
pena  tracciato,  come  popolazione  romana  entro  il  solco  della 
città  disegnata  nel  futuro».  Nel  più  grandioso  complesso  archi- 
tettonico  sportivo  costruito  dal  fascismo,  il  Foro  Mussolini,  un 
alto  monolite  di  marmo  su  cui  era  inciso  il  nome  del  duce,  do¬ 
minava  il  vasto  piazzale  dell’ingresso,  per  «proiettare  nel  futuro 
l’epoca  e  il  nome  di  Mussolini»*^.  Renato  Ricci,  presidente  del- 
rÓNB,  aveva  concepito  anche  più  grandiosi  progetti  di  esalta¬ 
zione  del  culto  del  littorio,  come  una  grande  statua  del  fascismo, 
in  bronzo,  che  avrebbe  fatto  «impallidire  il  ricordo  del  leggen¬ 
dario  Colosso  di  Rodi»,  come  scrisse  egli  stesso  al  duce.  La  sta¬ 
tua,  tre  volte  più  alta  della  statua  della  Libertà,  doveva  sorgere 
su  un’area  vasta  cinque  volte  piazza  Venezia,  denominata  «Aren¬ 
go  della  nazione»  esteso  su  120.000  mq.  e  capace  di  contenere 
300.000  persone.  Il  progetto,  già  messo  in  opera  di  realizzazio¬ 
ne,  fu  però  abbandonato  per  il  sopraggiungere  della  guerra  d’E¬ 
tiopia  e  delle  sanzioni^^. 

Incoraggiando  lo  sport,  che  mirava  a  «creare  la  passione  nelle 
masse  e  non  già  a  creare  esclusivamente  i  campioni»^*,  il  fascismo 
inquadrava  anche  questa  attività  nel  progetto  totalitario  di  mobi¬ 
litazione  collettiva,  per  vincere  la  mentalità  dell’isolamento  priva¬ 
to  ed  infondere  nelle  masse  il  senso  della  «comunione  umana»^^, 
pur  incoraggiando,  nello  stesso  tempo,  l’agonismo  sportivo  come 
preparazione  al  conseguimento  del  primato  nelle  competizioni  in¬ 
ternazionali.  Per  il  fascismo,  lo  sport  era  «da  esaltarsi  quale  auten¬ 
tico  servizio  e  dovere  civico»  che  doveva  praticare  «il  buon  citta- 

Toni,  Il  Littoriale  polisportivo,  cit. 

C.R.  Maccaroni,  La  «colonna  del  Duce»  verso  il  mare  di  Roma,  in  «Il  Car¬ 
lino  della  sera»,  16  gennaio  1929,  cit.  in  S.  Setta,  Renato  Ricci,  Bologna  1986, 
p.  159. 

Cfr.  Setta,  Renato  Ricci,  cit.,  pp.  159-165. 

PNF,  Atti  1931-1932,  Roma  1932,  circolare  del  16  maggio  1932. 

P.L.,  La  coscienza  della  collettività  e  lo  sport,  in  «Bibliografia  fascista», 
febbraio  1933. 


160 


Il  culto  del  littorio 


dino  fascista»  per  «essere  veramente  parte  integrante  di  quel  po¬ 
polo  che  il  DUCE  ha  proclamato  essere  ‘corpo  dello  stato’  e  coef¬ 
ficiente  dinamico  di  quello  stato  che  è,  per  la  stessa  alta  definizio¬ 
ne,  ‘spirito  del  corpo’»^^.  L’educazione  fisica  e  le  attività  sportive 
ebbero  una  parte  preponderante  nel  progetto  totalitario  di  rifor¬ 
ma  del  carattere,  mirando  principalmente  alla  preparazione  del 
cittadino-soldato.  Ma  le  grandi  manifestazioni  ginniche,  special- 
mente  quelle  che  si  svolgevano  periodicamente  nella  capitale  alla 
presenza  del  duce,  in  piazza  di  Siena  e  al  Foro  Mussolini,  erano  al¬ 
trettante  occasioni  di  celebrazione  del  culto  del  littorio.  La  coreo¬ 
grafia  dei  saggi,  il  movimento  di  massa,  le  sfilate,  i  canti  corali,  il 
discorso  del  duce  costituivano  il  complesso  simbolico  e  rituale  di 
un  evento  cultuale,  in  cui  si  compiva  l’autoesaltazione  dell’unità 
morale  e  della  vigoria  fisica  del  «corpo  dello  Stato»,  si  proiettava 
l’immagine  di  ordine,  di  bellezza,  di  potenza,  di  stile  deir«armo- 
nico  collettivo»  e  si  contribuiva  a  diffondere,  con  la  suggestione 
spettacolare,  la  propaganda  dei  miti  fascisti  fra  le  masse  dei  parte¬ 
cipanti  e  degli  spettatori. 

Nessuna  manifestazione  collettiva  del  regime  si  sottraeva  al 
compito  di  essere  veicolo  di  indottrinamento  e  di  pratica  del  cul¬ 
to  del  littorio.  Persino  esposizioni  e  mostre  di  qualsiasi  tipo,  or¬ 
ganizzate  dal  regime,  furono  arruolate  per  la  propaganda  della 
fede  fascista,  come  avvenne  specialmente  durante  le  celebrazio¬ 
ni  del  Decennale,  che  videro  il  più  vasto  spiegamento  di  attività 
rituali  e  cerimonie  di  massa  per  esaltare  i  primi  dieci  anni  di  po¬ 
tere  fascista  -  ed  anche  per  intensificare  la  propaganda  fra  le  mas¬ 
se  sulle  quali  gravava  il  peso  della  «grande  crisi»,  che  produceva 
sintomi  di  crescente  malcontento.  Nel  corso  del  1932  furono  or¬ 
ganizzate  numerose  mostre,  dalla  meccanica  agraria  alla  bonifi¬ 
ca,  dalla  frutticultura  alla  panificazione,  dalla  celebrazione  del 
cinquantenario  della  morte  di  Garibaldi  alla  mostra  della  rivolu¬ 
zione  fascista,  tutte  ispirate  però,  spiegava  «Il  Popolo  d’Italia», 
ad  un  criterio  unico,  «intonandole  tutte  ad  una  sana  funzione 
educativa»,  trasformandole  da  manifestazioni  di  «gruppi,  di  ce¬ 
nacoli,  di  piccole  accademie  straniate  dalla  vita  del  popolo  e  vi¬ 
ziate  daH’inteUettualismo  e  dal  dilettantismo»,  con  scopi  di  ca- 


R.  Nicolai,  Sport,  in  PNF,  Dizionario  di  politica,  cit.,  voi.  IV,  p.  343. 


IV.  Liturgia  dell' «armonico  collettivo>. 


161 


ratiere  «esclusivamente  commerciale  e  pubblicitario»  -  in  «ma¬ 
nifestazioni  integrative  del  compito  di  educazione  nazionale  che 
lo  Stato  fascista  si  è  assunto  e  che  va  svolgendo,  dalle  scuole  ài 
campi  sportivi,  dalle  organizzazioni  giovanili  a  quelle  dopolavo¬ 
ristiche,  alle  iniziative  più  varie,  come,  per  dirne  una  d’attualità, 
quella  dei  treni  popolari»^*^. 


L italiano  nuovo  per  la  nuova  civiltà 

Con  i  loro  riti  collettivi,  i  fascisti  si  vantavano  di  aver  rinno¬ 
vato  quella  che  potremmo  definire  V estetica  della  massa:  «Prima 
del  fascismo,  le  pubbliche  manifestazioni  erano  sommamente  an¬ 
tiestetiche.  Il  Fascismo  ha  riportato  nella  città  d’Italia  quell’‘arte 
del  movimento  e  dell’aggruppamento  umano’  di  cui  si  parla  ne¬ 
gli  Statuti  di  Fiume.  I  nostri  cortei,  quando  si  snodano  per  le  vie, 
passano  sotto  gli  archi,  fanno  quadrato  nelle  piazze,  a  piè  dei 
campanili  e  delle  torri,  sono  degni  delle  nostre  città,  e  la  loro  bel¬ 
lezza  accresce  la  bellezza  delle  pietre  e  dei  marmi»,  dando  al  po¬ 
polo  «l’amore  affratellante  delle  ‘feste  civiche’,  che  è  poi  amore 
della  città,  della  tradizione,  e  quindi  della  patria»,  risvegliando 
nel  popolo  «l’amore  della  canzone  improvvisa  e  del  canto  cora¬ 
le».  Le  celebrazioni  fasciste  sono  «grandi  celebrazioni  corali»^^. 
La  propaganda  era  solita  rimarcare,  ad  ogni  rito  di  anniversario 
e  ad  ogni  festa  collettiva,  la  differenza  di  stile  e  di  spirito  rispet¬ 
to  ai  riti  del  regime  liberale,  caratterizzati  da  un  patriottismo  abu¬ 
lico  e  dal  terrore  della  foUa,  con  un  cerimoniale  commemorativo 
rivolto  al  passato.  I  fascisti  sostenevano  che  i  loro  riti  erano  ce¬ 
lebrazioni  proiettate  verso  il  futuro,  riti  che  scandivano  le  tappe 
e  le  conquiste  di  una  «rivoluzione  continua»,  che  stava  gettando 
le  fondamenta  di  una  «nuova  civiltà»:  il  fascismo  non  era  «in¬ 
tento,  come  le  vecchie  democrazie,  a  commemorare  il  passato» 
ma  continuava  la  marcia  «con  lo  sguardo  rivolto  verso  l’avveni¬ 
re»;  «Tutt’intorno  una  vecchia  civiltà  individualistica  e  libertaria 
va  crollando  e  l’Italia  è  chiamata  a  dare  nuovi  ordinamenti  di  vi- 

Lettere  romane,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  6  luglio  1932. 

Le  opinioni  degli  altri  sul  Fascismo,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  5  maggio  1922. 


162 


Il  culto  del  littorio 


ta  alle  nazioni  che  vorranno  salvarsi»^^’.  Lo  scenario  dei  riti  fasci¬ 
sti  si  presentava  con  piazze  colme  di  gente  plaudente,  uomini 
donne  e  bambini  d’ogni  classe,  che  celebrano  all’unisono,  in  una 
mistica  esaltazione,  la  gloria  del  fascismo  e  del  suo  capo.  La  stes¬ 
sa  festa  del  lavoro,  che  aveva  visto  per  anni  protagoniste  «le  folle 
minacciose»  ed  era  stata  «l’incubo  della  classe  dirigente»,  era  sta¬ 
ta  trasformata  da  «festa  partigiana»  in  «festa  nazionale»,  espres¬ 
sione  del  «tessuto  connettivo  nuovo  che  tiene  saldamente  unito 
l’organismo  del  nostro  consorzio  civile»^^. 

Il  fascismo  sosteneva  di  aver  redento  la  folla  trasformandola 
in  una  massa  liturgica  che  partecipava  con  gioia  e  con  fede  alla 
celebrazione  dei  riti  del  regime: 

Con  il  Fascismo  -  scriveva  «Gioventù  fascista»  a  conclusione  del¬ 
le  celebrazioni  del  Decennale  -  la  folla  è  divenuta  armonia  di  anime: 
inquadramento  perfetto  di  cittadini  e  partecipazione  attiva  di  essi  al¬ 
la  grande  vita  dello  Stato  [...]  Le  vie  di  Roma  erano  traboccanti  di 
questa  folla  nuova:  nel  suo  ondeggiare  pareva  che  si  sollevasse  l’am¬ 
pio  respiro  del  Fascismo.  Appariva  in  una  figurazione  simbolica  co¬ 
me  la  vasta  e  solida  base  di  una  piramide  al  cui  vertice,  come  forma 
unica  e  dominante,  fosse  Mussolini.  [...]  E  non  era  folla  trascinata  da 
allucinazioni  di  carattere  demagogico-romantico,  ma  quella  consape¬ 
vole  di  sé,  del  suo  ubbidire,  del  suo  credere  e  del  suo  combattere;  fol¬ 
la  dallo  sguardo  sicuro  e  sereno,  fiduciosa  ormai  in  un  Capo,  in  uno 
Stato  e  in  una  nobile  passione  ogni  dì  sempre  più  viva:  il  Fascismo. 
Non  collettività  senza  volto,  maschera  ordinata  di  spiriti  educati  al¬ 
l’epica  dei  nuovi  tempi:  non  massa  amorfa,  ma  amalgama  di  valori  e 
di  fresche  intelligenze.^^ 

NeU’esaltazione  del  rituale  e  del  simbolismo,  come  manife¬ 
stazione  della  fede,  rientra  anche  la  mania  fascista  per  lo  stile  e 
la  riforma  del  costume,  che  imperversò  dalla  fine  degli  anni  Ven¬ 
ti,  soprattutto  sotto  la  segreteria  di  Starace,  e  persino  negli  ulti¬ 
mi  giorni  di  agonia  del  fascismo,  prima  del  crollo.  Il  regime,  con 
tutte  le  sue  organizzazioni  e  a  tutti  i  livelli  della  gerarchia,  si  de¬ 
dicò  con  meticolosa  pignoleria  alla  campagna  per  la  riforma  del 

Ritorno  ideale,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  23  ottobre  1931. 

”  A.  Mussolini,  La  celebrazione,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  23  aprile  1925. , 
M.  Scaligero,  La  folla,  in  «Gioventù  fascista»,  10  novembre  1932. 


Fig.  IO.  Discorso  di  Mussolini  a  Bologna,  il  24  ottobre  1936  (ACS). 


164 


Il  culto  del  littorio 


costume.  Oltre  agli  aspetti  indiscutibilmente  risibili,  la  questione 
dello  stile  aveva  motivazioni  complesse,  riconducibili  all’impor¬ 
tanza  che  il  fascismo  attribuiva  alla  liturgia  nella  creazione 
dell’«uomo  nuovo».  Alla  vigilia  della  «marcia  su  Roma»  Musso¬ 
lini  aveva  accusato  la  democrazia  di  aver  «tolto  lo  stile  alla  vita 
del  popolo»  mentre  «il  fascismo  riporta  lo  ‘stile’  nella  vita  del  po¬ 
polo,  cioè  una  linea  di  condotta;  cioè  il  colore,  la  forza,  il  pitto¬ 
resco,  l’inaspettato,  il  mitico»^‘^.  «Senza  simbolo»,  ripetè  dieci  an¬ 
ni  dopo,  «la  vita  sarebbe  casuale,  indifferenziata»^®.  Il  fascismo, 
spiegava  un  pedagogo  del  regime,  proprio  per  la  sua  natura  di 
movimento  religioso,  aveva  ridato  lustro  e  vigore  ai  miti,  ai  sim¬ 
boli,  ai  riti,  riportando  lo  stile  nella  politica  di  massa.  Lo  stile,  co¬ 
me  espressione  di  ordine  e  disciplina  animati  da  una  fede,  era  un 
segno  di  vittoria  sul  caos  e  sull’incertezza,  in  un  mondo  uscito 
profondamente  sconvolto  dalla  tragedia  della  guerra,  sospeso  fra 
un’epoca  in  crisi  e  una  nuova  epoca,  che  stentava  a  definirsi,  tra¬ 
vagliato  da  gravi  crisi  economiche  e  morali,  sovrastato  dall’in¬ 
combente  incubo  di  precipitare  nuovamente  nel  caos:  «Lo  stile 
mette  le  anime  sotto  l’influenza  della  nobilita  dello  spirito»^h  Lo 
stile,  così  inteso,  era  concepito  come  una  espressione  della  reli¬ 
gione  fascista:  era,  si  può  dire,  la  religione  tradotta  in  costume, 
testimonianza  vivente  della  sua  etica,  regola,  «ascesi»,  perché 
«quando  parliamo  di  stile  fascista  tutti  intendiamo  una  vittoria 
dello  spirito  [...]  Che  cos’è  infatti  lo  stile  fascista  se  non  la  defi¬ 
nizione  rigorosa  data  con  i  fatti  della  dottrina  fascista?».  Ancora 
una  volta,  i  fascisti  seguivano  nella  loro  politica  il  modello  della 
Chiesa:  «Una  cerimonia  religiosa,  la  celebrazione  di  un  rito,  so¬ 
no  essenzialmente  definizioni;  ossia  attaccamento  visibile  alla 
propria  fede  e  pubblica  professione  di  essa  [...]  Con  lo  stile,  con 
le  cerimonie,  con  i  riti  fascisti  la  politica  passa  dal  definitorio  al¬ 
l’umano,  al  vivente,  e  diviene  dispcnsatrice  di  gioia»®^. 

Nell’organizzazione  del  culto  del  littorio,  l’orchestrazione  de¬ 
magogica  e  il  fanatismo  missionario  dei  fascisti  si  coniugavano 
con  quella  che  potremmo  definire  una  «passione  per  la  foUa»,  in 


Mussolini,  Opera  Omnia,  cit.,  voi.  XVIII,  p.  438  (discorso  pronunciato 
a  Milano  il  4  ottobre  1922). 

Ludwig,  Colloqui  con  Mussolini,  cit.,  p.  190. 

Padellaro,  Fascismo  educatore,  cit.,  p.  154. 

62  Ivi,  pp.  156-157. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo» 


165 


cui  la  manipolazione  dell’opinione  pubblica,  la  ricerca  del  con¬ 
senso,  il  gusto  estetico  per  «l’arte  delle  grandi  parate  collettive»®^, 
appaiono  ispirate  da  una  volontà  di  potenza  protesa  ad  agire  sul 
corpo  sociale  per  plasmarlo,  trasformarlo  e  creare  da  esso,  come 
opera  d’arte,  un  «armonico  collettivo»,  secondo  la  formula  mus- 
soliniana,  per  farne  cioè  un  corpo  politico  con  una  sola  fede  e 
una  sola  morale,  tutto  interamente  dedito  allo  Stato  divinizzato. 
Questa  volontà  di  potenza  volta  a  plasmare  la  massa,  che  era  al¬ 
la  base  della  politica  totalitaria  fascista,  aveva  origine  dalla  cul¬ 
tura  politica  rivoluzionaria  e  dall’esperienza  della  guerra:  «Ognu¬ 
no  di  noi  -  scriveva  Bottai  nel  1918  -  è  stato  o  duce  o  gregario, 
plasmatore  di  vita,  adunatore  di  energie  piane,  mature»®"*.  Mus¬ 
solini  amava  paragonare  la  politica  all’arte  e  definiva  il  politico 
un  artista  che  plasma  la  materia  umana.  In  ogni  fascista,  da  Gio¬ 
vanni  Gentile  ad  Achille  Starace,  dal  duce  all’ultimo  dirigente 
nella  scala  della  gerarchia  di  partito,  vibrava  l’ambizione  di  un 
«plasmatore  di  vita».  L’idea  di  «plasmare  la  massa»,  versione  fa¬ 
scista  del  mito  rivoluzionario  della  rigenerazione  morale,  era  os¬ 
sessivamente  presente  nella  politica  di  Mussolini  e  dei  fascisti: 

L’epoca  del  Fascismo  sarà  veramente  iniziata  il  giorno  in  cui  avrà 
plasmato  tutto  il  popolo,  esaltandolo  nella  sua  fede  e  ingigantendolo 
nelle  sue  speranze. 

Perché  ciò  sia  possibile,  perché  il  Fascismo  conquisti  e  prenda,  si¬ 
no  nel  profondo,  le  coscienze  e  la  volontà  degli  Italiani,  è  necessario 
che  esso  crei  la  sua  atmosfera  ed  il  suo  ambiente,  è  necessario  che  po- 
tenzii,  sino  nelle  più  riposte  energie,  tutte  le  forze  della  nazione  [...] 

E  opera  di  titani,  ma  è  opera  da  compiere,  quella  che  tocca  agli 
uomini  migliori  della  Rivoluzione  fascista:  bisogna  vagliare  alla  lente 
del  fascismo  tutte  le  opere  artistiche  e  le  correnti  culturali  del  passa¬ 
to,  bisogna  ricreare,  con  la  religione  politica  e  nella  religione  politica 
che  pratichiamo  ogni  giorno,  il  mondo  come  lo  sentiamo  noi  e  come 
lo  viviamo  noi,  bisogna  piegare  le  realtà  dei  tempi  che  furono  alla 
realtà  del  nostro  tempo:  più  alta,  più  chiara  e  più  vera  perché  parte 
di  noi  e  più  vicina  a  noi,  perché  noi  stessi!®^ 

6^  Toni,  Il  Littoriale  polisportivo,  cit. 

^  G.  Bottai,  Fine  della  guerra,  in  «Mei»,  28  novembre  1918,  riportato  in  Id., 
La  politica  delle  arti.  Scritti  1913-1913,  a  cura  di  A.  Masi,  Roma  1992,  p.  59. 

6’  S.  Gatto,  Di  fronte  al  passato,  in  «Il  Raduno»,  maggio  1928,  riportato  in 
Id.,  1925.  Polemiche  del  pensiero  e  dell’azione  fascista,  Roma  1934,  pp.  61-62. 


166 


Il  culto  del  littorio 


Ancora  una  volta,  senza  rendersene  probabilmente  conto,  i  fa¬ 
scisti  calcavano  le  orme  della  rivoluzione  francese,  ripetendo  for¬ 
mule  di  pedagogia  politica  ispirate  all’idea  della  rigenerazione  mo¬ 
rale  del  popolo,  alla  concezione  dello  Stato  educatore,  al  mito 
dell’«uomo  nuovo»,  alla  sacralità  della  patria,  alla  «passione  del¬ 
l’unità»,  secondo  l’efficace  espressione  di  A.  Mathiez,  traducendo 
la  religione  civile  di  Rousseau  nella  versione  di  un  moderno  totali¬ 
tarismo,  che  non  credeva  nella  bontà  naturale  dell’uomo  e  nella 
sua  perfettibilità,  nel  senso  di  una  progressiva  emancipazione  ver¬ 
so  una  coscienza  libera  e  razionale,  ma  credeva  nella  plasticità  del 
carattere,  come  espressione  di  tradizione  storica,  costume,  cre¬ 
denze  e  moralità  di  un  popolo.  Lo  Stato,  con  la  suggestione  del  mi¬ 
to,  la  forza  morale  di  una  fede  e  l’influenza  pedagogica  della  litur¬ 
gia,  aveva  il  potere  di  agire  sul  carattere  dell’uomo  e  trasformarlo. 
Il  fascismo,  ereditando  l’assillo  dei  padri  fondatori  dell’Unità  per 
il  problema  di  «fare  gli  italiani»,  era  determinato  a  compiere  l’im¬ 
presa,  convinto  di  possedere  gli  strumenti  per  operare  questa  tra¬ 
sformazione,  a  cui  esso  legava  il  suo  stesso  futuro,  riformando  il  ca¬ 
rattere  degli  italiani,  rigenerandoli  dai  loro  difetti,  forgiando  un 
popolo  nuovo,  virtuoso  e  virile,  di  «cittadini  soldati».  Nel  proget¬ 
to  visionario  di  una  «metanoia»  collettiva,  che  il  regime  perseguì 
con  sempre  più  ostinata  determinazione  e  intransigente  fanatismo 
negli  anni  Trenta,  il  fascismo  si  presentava  non  più  come  interpre¬ 
te  della  nazione,  ma  come  creatore  di  una  nazione  nuova:  «Sotto  il 
regime  nasce  la  nazione  [.,.]  il  Fascismo  crea  il  costume,  dal  quale 
nasce  la  nazione,  la  nazione  fascista»^^.  E  tutte  le  organizzazioni 
del  regime,  dal  partito  all’Opera  nazionale  dopolavoro,  alle  orga¬ 
nizzazioni  giovanili,  come  l’Opera  nazionale  Balilla  e  i  Fasci  gio¬ 
vanili,  fuse  nel  1937  in  un’unica  organizzazione,  la  Gioventù  ita¬ 
liana  del  littorio,  si  applicarono  con  zelo  nell’opera  di  indottrina¬ 
mento  delle  masse  e  delle  nuove  generazioni  secondo  gli  ideali,  i 
dogmi  e  l’etica  della  religione  fascista  per  realizzare  la  riforma  del 
carattere.  Anche  la  cultura  fu  mobilitata  per  l’impresa,  perché  la 
«cultura  fascista  deve  essere  vita  ed  espressione  di  vita;  deve  crea- 

Il  divenire  del  Regime,  in  «Il  Legionario»,  organo  dei  Fasci  italiani  all’e¬ 
stero,  10  settembre  1927.  Sull’idea  fascista  di  nazione,  cfr.  Gentile,  Le  origini 
dell’ideologia  fascista  cit.,  pp.  149-154;  Zunino,  L’ideologia  del  fascismo  cit.,  pp. 
192-202. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo> 


167 


re  un  tipo  d’uomo,  l’uomo  nuovo,  l’uomo  intero:  simile  nella  fa¬ 
miglia,  nella  società,  nello  Stato»^"^.  E  la  scuola  fu,  naturalmente, 
uno  dei  campi  dove  più  intensamente  e  assiduamente  si  esercitò  la 
«propaganda  della  fede»  attraverso  l’indottrinamento  catechisti- 
co  della  religione  fascista,  che  impregnava  di  sé  tutte  le  materie  di 
insegnamento,  e  la  continua  pratica  liturgica  per  celebrare  riti  del¬ 
la  patria  e  della  rivoluzione: 

le  aule  scolastiche  sono  una  esposizione  variopinta  di  tutta  la  chinca¬ 
glieria  fotografica  e  simbolica  del  regime  -  scriveva  un  informatore 
del  partito  comunista  in  un  rapporto  sul  problema  della  scuola  all’i¬ 
nizio  degli  anni  Trenta  -.  Studiare  non  importa,  importano  le  parate, 
le  divise,  i  distintivi,  i  campi  ufficiali.  1  maestri  seri  e  dignitosi  fre¬ 
mono  e  sono  travolti  [...]  Il  regime  dichiara  di  volere  pochissimi  «uf¬ 
ficiali  della  cultura»,  alcuni  sergenti  e  caporali  indispensabili,  e  vuo¬ 
le  rendere  impossibile  l’elevazione  culturale  e  l’avvenire  delle  grandi 
masse  popolari,  per  cui  la  scuola  primaria  è  ridotta  ad  una  palestra  di 
propaganda  addormentatrice  di  coscienze  [...] 

Così  per  effetto  della  vietata  discussione  e  del  sospetto  politico 
che  incombe  sugli  spiriti  nella  scuola,  è  andato  sommerso  anche  quel 
poco  di  buono  che  la  riforma  [Gentile]  poteva  contenere.  Oggi  un 
problema  solo  domina  l’indirizzo  educativo:  la  fascistizzazione  della 
scuola.  Non  importa  se  questo  problema  è  espresso  dagli  uomini  del 
regime  con  i  vocaboli:  «plasmare,  sagomare,  forgiare»,  in  aperto  con¬ 
trasto  con  il  concetto  che  dell’educazione  dice  di  professare  l’attuali¬ 
smo  gentiliano;  importa  che  la  scuola  sia  strumento  di  propaganda 
politica,  di  dominio  politico.^* 

Il  regime  cercò  di  intensificare  sempre  più  il  suo  intervento 
plasmatore  sulle  masse,  escogitando  sempre  nuove  forme  di  mo¬ 
bilitazione  e  di  propaganda.  Nel  1932  furono  istituiti  i  «raduni 
domenicali»  dove  gli  oratori  incaricati  dal  partito  esercitavano  in 
ogni  paese  r«apostolato  propagandistico»^’^,  esponendo  alle  mas¬ 
se  «idee  e  fatti  sull’etica  fascista»^®,  vantando  i  meriti  della  poli- 

S.  Gatto,  Della  cultura  fascista,  in  «Bibliografia  fascista»,  maggio  1926, 
riportato  in  Id.,  l^25  cit.,  pp.  63-65. 

APC,  907/2. 

Ritorno  all’apostolato,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  24  giugno  1932. 

Entusiastica  partecipazione  di  popolo  ai  raduni  di  propaganda,  in  «Il  Po¬ 
polo  d’Italia»,  24  maggio  1932. 


168 


Il  culto  del  littorio 


dea  del  regime,  ascoltando  i  lamenti  dei  lavoratori  per  le  ristret¬ 
tezze  economiche,  e  lasciando  loro  la  promessa  che  avrebbero 
«fatto  presente  a  chi  di  dovere  in  Roma  [...]  le  varie  necessità  del 
paese»^h  Nel  1935  venne  istituito  il  «sabato  fascista»,  in  relazio¬ 
ne  alla  applicazione  della  settimana  lavorativa  di  40  ore:  il  po¬ 
meriggio  del  sabato  rimasto  libero  doveva  essere  dedicato  «all’e¬ 
ducazione  politica  e  all’addestramento  militare  delle  organizza¬ 
zioni  del  Regime»^^.  In  tal  modo  le  due  principali  attività  peda¬ 
gogiche  per  la  formazione  deir«uomo  nuovo»  avevano  il  loro 
giorno  di  celebrazione,  acquistando  così,  come  affermava  l’orga¬ 
no  dei  giovani  fascisti,  «un  crisma  di  religiosità,  i  cui  influssi  non 
potranno  non  riverberarsi  nella  concezione  ch’ogni  fascista  deve 
avere  della  sua  vita»:  si  sarebbe  così  debellato  «qudV analfabeti¬ 
smo  politico  ch’era  tutt’uno  con  V analfabetismo  fisico.  Si  comin¬ 
cia  a  comprendere  che  italiano  vuol  dire  fascista,  e  che  fascista 
vuol  dire  uomo  integraleyp^ . 

E  più  che  probabile  che  la  crescente  invadenza  della  pedago¬ 
gia  totalitaria  nella  vita  degli  italiani  suscitasse  resistenze  e  rea¬ 
zioni  contrarie,  specialmente  fra  i  ceti  che  meno  si  identificava¬ 
no  con  i  miti  del  fascismo  e  meno  erano  disposti  a  lasciarsi  inte¬ 
grare  nella  comunità  totalitaria.  Da  più  parti  pervenivano  al  ver¬ 
tice  del  potere  le  segnalazioni  di  malcontento  e  di  insofferenza. 


ACS,  MI,  DGPS,  cat.  Gl,  b.  60,  riassunto  del  discorso  pronunziato  dal- 
l’on.  Mario  Jannelli  nel  raduno  di  propaganda  a  Monti,  il  29  maggio  1932.  La 
prova  di  questi  «raduni»  non  sembra  abbia  dato  gli  effetti  sperati,  a  giudicare 
dai  commenti  degli  informatori  del  partito:  «Non  vi  è  dubbio  -  riferiva  per 
esempio  un  fiduciario  da  Roma  il  6  luglio  1932  -  che  ai  ‘raduni’  svoltisi  in  tut¬ 
ta  Italia,  vi  abbiano  partecipato  immense  folle,  ma  tali  ‘raduni’,  per  i  risultati 
ottenuti,  erano  necessari?  Con  questi  ‘mezzi’  i  dirigenti  credono  di  poter  pe¬ 
netrare  nel  popolo?  o  i  dirigenti  del  Partito  si  credono  soddisfatti  solamente 
per  l’esteriorità  e  cioè  del  concorso  delle  folle  ai  ‘raduni’?»  (ACS,  PNF,  SPEP, 
b.  19,  fase.  «Roma»).  Simile  il  commento  della  federazione  fascista  di  Pistoia: 
«I  raduni  di  propaganda  svoltisi  nel  corrente  mese  sono  stati,  come  i  prece¬ 
denti,  contrassegnati  da  scarso  concorso  di  popolo,  un  po’  per  difetto  di  orga¬ 
nizzazione  da  parte  dei  gerarchi  locali  ed  un  po’  perché  le  conferenze  a  base 
di  elevate  argomentazioni  politiche  destano  nei  centri  rurali  scarso  interesse  e 
sono  ordinariamente  poco  accessibili  alla  mentalità  delle  masse  degli  agricol¬ 
tori,  sull’animo  dei  quali  incombe  il  problema  della  vita  quotidiana,  che  U  tem¬ 
po  va  sempre  più  inasprendo  per  il  perdurare  della  crisi»  (ACS,  PNF,  SPEP, 
b.  15,  fase.  «Pistoia»,  relazione  del  giugno  1932). 

72  D.l.  20  giugno  1935,  n.  1010. 

7^  R.N.,  Sabato  fascista,  in  «Gioventù  fascista»,  30  marzo  1935. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo> 


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dovuti  anche  al  peggioramento  della  situazione  economica  e  alla 
crescente  ansia  e  al  timore  per  le  minacce  di  guerra  in  Europa, 
verso  l’accelerazione  totalitaria  che  il  regime  aveva  impresso  alla 
mobilitazione  di  massa: 

Si  critica  da  molti,  sento  dire  -  riferiva  un  informatore  della  poli¬ 
zia  da  Firenze  il  5  gennaio  1939  -,  che  il  Regime  Fascista  abbia  in¬ 
quadrato  in  organizzazioni  varie  tutte  le  categorie  di  cittadini  e  ten¬ 
da  sempre  più  a  ridurli  e  controllarne  ogni  attività.  Si  rileva  che  que¬ 
sto  voler  inquadrare  l’attività  degli  individui  in  ogni  campo  ne  sop¬ 
prime  ogni  libertà  e  ne  soffoca  ogni  iniziativa  e  perciò  gli  individui 
stessi  mal  tollerano  le  limitazioni  che  loro  vengono  imposte  e  l’inge¬ 
renza  del  Regime  in  tutti  i  campi,  specialmente  in  quelli  nei  quali  non 
ritengono  tale  ingerenza  giustificata.  Onde  si  dice  che  questo  è  un  si¬ 
stema  di  compressione  che  diventa  sempre  più  insopportabile. 

Ora  tutti  sopportano  e  non  manifestano  apertamente  la  loro  con¬ 
trarietà  per  timore;  ma  si  pensa  che  in  caso  di  eventuale  insuccesso 
che  dovesse  scuotere  la  saldezza  del  Regime  si  potrebbe  avere  una 
violenta  reazione  a  questa  compressione.’^* 

E,  tuttavia,  non  mancano  neppure  segni  diversi,  i  quali  mo¬ 
strano  come  la  politica  totalitaria  riuscisse  anche  a  veicolare  fra 
le  masse  la  sua  ideologia:  «Il  fascismo  -  riferiva  un  militante  co¬ 
munista  alla  fine  del  1932  -  è  riuscito  a  influenzare  buona  parte 
della  massa  colla  sua  ideologia  e  solo  combattendo  nei  suoi  or¬ 
ganismi  e  ivi  smascherandolo,  noi  riusciremo  a  far  comprendere 
agli  operai  che  essi  sono  stati  ingannati»’^.  Alla  influenza  fasci- 


7^  ACS,  MI,  Divisione  polizia  politica  1927-1944,  b.  220.  Sugli  effetti  nega¬ 
tivi  di  questa  continua  mobilitazione  un  fiduciario  del  PNF  nel  1932,  riferiva  il 
commento  di  uno  scrittore  definito  «profondo  osservatore»,  il  quale  riteneva  tra¬ 
montata  l’epoca  dei  discorsi:  «ormai  si  sente  nell’aria  una  stanchezza  significati¬ 
va  perché  i  ‘raduni’  e  ‘i  comizi’  hanno  un  vizio  d’origine  e  non  noto  forse  ai  diri¬ 
genti  del  Partito  e  cioè  quello  della  coercizione,  dell’improv\àsazione,  della  mi¬ 
naccia,  che  i  piccoli  ras  della  provincia  fanno  per  poter  presentare  sempre  una 
folla,  una  grandiosa  folla  pronta  ad  applaudire  al  primo  segnale  del  piccolo  ras. 
Si  abusa  troppo  di  queste  adunate,  commemorazioni,  raduni,  comizi:  ogni  anni¬ 
versario,  ogni  piccolo  avvenimento  si  sfrutta  con  parate  d’obbligo,  ed  è  questo 
che  annoia,  stanca  e  provoca  recriminazioni.  Fin  che  si  tratta  di  giovani  le  para¬ 
te  militari  possono  piacere;  ma  agli  uomini,  ai  veri  lavoratori?»  (ACS,  PNF, 
SPEP,  b.  19,  fase.  «Roma»,  rapporto  del  6  luglio  1932). 

75  APC,  1028/3. 


170 


Il  culto  del  littorio 


Sta  erano  esposti  soprattutto  i  giovani:  «forza  fresca  dei  popoli, 
fermento  di  nuova  vita,  speranza  del  domani  [...]  sono  assediati, 
accaparrati  dal  regime,  che  si  [sic!]  li  manipola  a  piacimento,  pri¬ 
ma  nei  balilla,  poi  negli  avanguardisti,  poi  nella  milizia,  con  gli 
esercizi  ginnici,  con  tutti  gli  sports,  con  le  gare,  le  gite,  i  campeggi, 
con  conferenze  bellicose  e  religiose»,  crescendoli  così  «in  lieta, 
beata,  animalesca  incoscienza,  incuranti  dell’avvenire,  strafotten¬ 
ti,  nemici  di  padri,  di  fratelli,  di  compagni  di  lavoro»^^.  La  con¬ 
tinua  mobilitazione  collettiva  per  i  riti  del  regime  poteva  ingene¬ 
rare  sentimenti  di  sazietà  e  di  insofferenza  in  alcuni,  ma  suscita¬ 
va  anche  in  altri,  idealmente  più  motivati,  entusiasmo  di  parteci¬ 
pazione  o  quanto  meno  un  sentimento  di  attrazione  per  queste 
forme  di  vita  collettiva: 

Il  sabato  pomeriggio  -  scriveva  nel  suo  diario  Giaime  Pintor  -,  in 
uniforme  da  militi  si  facevano  istruzioni  pratiche  nel  giardino  dell’u¬ 
niversità.  Tutte  queste  ore  perdute  e  quelle  che  ci  prendevano  per 
tanti  altri  servizi  speciali  erano  un  motivo  di  recriminazioni.  Tuttavia 
non  rappresentavano  soltanto  uno  spreco:  furono  un  primo  esempio 
di  vita  collettiva  e  servirono  a  stringere  qualche  legame.  I  maggiori  fa¬ 
stidi  durante  l’anno  furono  delle  mobilitazioni  indette  per  lo  studio 
del  «passo  romano»  (era  l’epoca  in  cui  sotto  Starace  il  regime  si  era 
preparato  per  «incidere  sul  costume»)  per  la  venuta  di  Hitler  a  Ro¬ 
ma.  Per  giornate  intere  fummo  sequestrati  alla  vita  civile  e  condotti  a 
esercitazioni  nei  sobborghi  di  Roma.  Lunghissime  attese,  controordi- 
ni,  tutto  il  complesso  di  inerzia  e  di  fatica  delle  organizzazioni  si  ri¬ 
velò  in  quei  giorni  e  contribuì  a  creare  la  prima  leggenda.  Quelle  par¬ 
tenze  da  casa  all’alba  con  i  lattai  che  giravano  per  Roma  e  un  freddo 
chiarore  su  Villa  Glori,  e  i  pomeriggi  nei  quartieri  popolari  in  cui  non 
restava  che  scherzare  con  le  serve  e  mangiare  gelati  furono  un  moti¬ 
vo  assai  pittoresco  di  educazione.  Ma  soprattutto  penetrammo  inti¬ 
mamente  nel  complesso  spettacolare  dei  regimi  totalitari:  imparam¬ 
mo  a  scomparire  nelle  decine  di  migliaia  di  uomini  che  prendevano 
parte  alle  riviste,  a  camminare  al  suono  di  musiche  tradizionali  e  a  go¬ 
dere  della  impersonalità  che  procura  l’uniforme. 

Durante  il  soggiorno  di  Hitler  a  Roma  non  perdemmo  una  sola 
parata.^^ 

APC,  1138/1,  lettera  da  Alessandria,  19  aprile  1933. 

G.  Pintor,  Doppio  diario  1936-1943,  a  cura  di  M.  Serri,  Torino  1978,  p.  38. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo> 


171 


Attraverso  la  rete  dei  suoi  informatori,  il  regime  era  quoti¬ 
dianamente  messo  al  corrente  sulle  reazioni  della  popolazione  di 
fronte  alla  costante  e  insistente  attività  di  mobilitazione  rituale,  e 
certamente  non  ignorava  gli  effetti  negativi  che  questa  provoca¬ 
va.  Non  per  questo  però  fu  indotto  a  desistere,  a  concedere  tre¬ 
gua  e  respiro,  evitando  così  di  far  salire  la  marea  dello  sconten¬ 
to  e  dell’irritazione.  Per  la  sua  logica  totalitaria,  e  per  la  sua  na¬ 
tura  di  religione  politica,  il  fascismo  in  realtà  non  poteva  rinun¬ 
ciare  a  proseguire,  e  persino  ad  intensificare,  la  sua  opera  di  pro¬ 
paganda  e  di  mobilitazione,  soprattutto  per  combattere  V indiffe¬ 
renza  e  la  fuga  nella  vita  privata,  sempre  convinto  che  fosse 
necessaria  una  lunga  e  pressante  opera  di  ortopedia  del  caratte¬ 
re,  come  potremmo  definirla,  per  poter  formare  r«italiano  nuo¬ 
vo».  Il  fascismo,  scrisse  dopo  la  caduta  del  regime  un  deluso  cre¬ 
dente  nella  «mistica  fascista»,  condannava  gli  italiani  all’entusia¬ 
smo^®.  E  ciò  avveniva,  a  dispetto  d’ogni  reazione  contraria,  non 
solo  per  amore  dello  spettacolo  ma  per  poter  attuare  il  progetto 
totalitario  di  conversione  dell’individuo  e  delle  masse  al  culto  del 
littorio.  Riti,  feste,  sagre,  adunate,  manifestazioni  sportive,  radu¬ 
ni  erano  concepiti  come  strumenti  di  formazione  graduale  ma 
continua  del  senso  dell’«armonico  collettivo»  nelle  masse:  «Le 
grandi  manifestazioni  periodiche  [...]  sono  utilissime,  indispen¬ 
sabili  proprio  allo  scopo  di  instillare  in  tutti  il  senso  di  questo 
moto  progressivo,  la  necessità  dello  sviluppo  di  quelle  virtù  civi¬ 
li  che  il  Fascismo  ha  creato  nella  Nazione»"^^.  I  riti  austeri  e  mar¬ 
ziali  degli  anniversari  rivoluzionari  erano  simboli  di  forza  e  di¬ 
sciplina;  le  sagre  della  produzione  celebravano  la  laboriosità  del¬ 
la  stirpe  e  la  collaborazione  delle  classi;  le  feste  di  solidarietà  era¬ 
no  la  prova  della  cura  del  regime  per  i  poveri;  le  grandi  adunate 
consacravano  l’unione  del  popolo  col  regime  e  col  duce;  le  ceri¬ 
monie  funebri  per  i  caduti  facisti  e  per  gli  uomini  rappresentati¬ 
vi  del  regime  erano  la  testimonianza  della  immortalità  del  cre¬ 
dente  fascista  nella  vita  perenne  dello  Stato  totalitario.  Ma  il  mo¬ 
tivo  ispiratore  di  tutto  il  rituale  fascista  era  il  mito  della  comu¬ 
nità  totalitaria  di  un  popolo  unito  da  una  fede.  La  «fede»  veniva 

M.  Rivoire,  Vita  e  morte  del  fascismo,  Milano  1947,  p.  141. 

Il  Duce  assiste  al  saggio  ginnico  degli  avanguardisti,  in  «Il  Popolo  d’Ita¬ 
lia»,  10  settembre  1932. 


172 


Il  culto  del  littorio 


ad  assumere  così  il  valore  di  unico  fattore  egualitario  in  una  so¬ 
cietà  che  manteneva  le  sue  divisioni  sociali,  pur  proclamando  il 
regime  di  voler  «accorciare  le  distanze»,  in  un  sistema  politico 
che  si  fondava  sul  principio  della  gerarchia.  Simbolo  di  questo 
egualitarismo  della  fede  voleva  essere  l’uniforme,  la  camicia  ne¬ 
ra,  la  partecipazione  comune  d’ogni  ceto  alla  celebrazione  del 
culto  del  littorio.  In  questo  modo,  il  fascismo  presumeva  di  ri¬ 
solvere  l’antitesi  fra  l’individuo  e  la  massa,  integrando  l’individuo 
nella  comunità  totalitaria,  trasformando  la  massa  stessa  con  «la 
pratica  di  un  costume  di  vita  che  sia  realizzatore  di  una  coscien¬ 
za  della  collettività»,  attuando  «forme  di  vita  coesiva,  destinate  a 
generare  stati  d’animo  collettivi,  che  da  momentanei  debbono 
trasmutarsi  in  permanenti»,  attraverso  manifestazioni  di  massa 
che  «costituiscono  una  catena  di  forme  di  vita  che  propaganda¬ 
no  il  senso  collettivo  della  vita  e  lo  rendono  substrato  psicologi¬ 
co  del  nostro  popolo»^®: 

Le  adunate  di  popolo,  lo  sport  di  massa,  la  folla  vivente  nello  sta¬ 
dio,  il  canto  corale,  il  teatro  di  massa,  i  campeggi  e  le  colonie  sono 
tutte  espressioni  di  una  vita  collettiva,  dirette  a  dare  alla  nazione  un 
senso  di  esistenza  unitaria.  Perché  si  può  ritenere  l’unitarismo  come 
risultato  definitivo  -  nazionale  nel  senso  collettivo  della  vita,  senso 
anche  diretto  a  bruciare  il  regionalismo. 

Onde  si  possa  costruire  un  arco  di  gente  italiana,  plasmata  entro 
i  confini  come  una  sola  anima  e  pronta  ad  una  azione  di  universalità, 
ad  un’azione  d’impero. 

Per  conseguire  questo  fine,  era  necessario  intensificare  in  ogni 
aspetto  della  vita,  specialmente  delle  nuove  generazioni,  un  si¬ 
stema  pedagogico  collettivistico  «che  abbia  per  oggetto  imme¬ 
diato  la  massa  e  non  l’individuo,  che  tenda,  più  che  alla  creazio¬ 
ne  di  una  pleiade  di  genialoidi,  a  dare  una  compagine  di  elementi, 
dotati  di  equilibrio  morale,  tutti  portati  ad  un  grado  di  prepara¬ 
zione  sia  pure  mediocre,  ma  tutti  atti  a  servire  la  rivoluzione  e 
coscienti  di  essere  cellule  operanti  dell’organismo  rivoluziona¬ 
rio».  E  i  riti  del  culto  del  littorio  cooperavano  con  l’azione  pe¬ 
dagogica  dello  Stato  e  l’irreggimentazione  organizzativa  del  regi- 


U.  Bernasconi,  Vita  di  masse,  in  «Gioventù  fascista»,  1”  maggio  1934. 


IV.  Liturgia  dell’ «armonico  collettivo> 


173 


me,  per  «instillare  nella  massa  e  soprattutto  nell’intimo,  l’inscin- 
dibile  e  dinamica  unità  dell’individuo  col  gruppo  ed  in  ultima 
analisi  collo  Stato,  che  rappresenta  il  gruppo  per  eccellenza,  in 
quanto  esso  non  risponde  soltanto  a  motivi  economici,  ma  anche 
sociali,  politici,  morali,  rehgiosi». 

Con  la  pedagogia  deU’«armonico  collettivo»,  fondata  sul  pre¬ 
supposto  che  la  conversione  alla  fede  comune  nella  religione  fa¬ 
scista  avrebbe  unito  moralmente,  al  di  là  della  diversità  di  con¬ 
dizioni  sociali,  di  possibilità  economiche,  di  differenze  di  sesso  e 
di  età,  tutti  gli  italiani,  il  fascismo  riteneva  di  aver  trovato  la  for¬ 
mula  per  risolvere,  come  asseriva  Bottai,  «il  problema  del  popo¬ 
lo  italiano  [...]  non  certo  in  una  formula  economica,  ma  proprio 
nell’esaltazione  delle  masse  affratellate  e  fuse  in  una  sola  volontà, 
in  una  sola  passione,  in  un  solo,  altissimo  scopo»^h  e  pretende¬ 
va  di  realizzare,  sacrificando  la  libertà  dell’individuo  alla  comu¬ 
nità  totalitaria,  anche  «i  sogni  più  affascinanti  degli  utopisti  che 
immaginavano  il  popolo  lieto  nel  lavoro,  bello  e  gioioso  nello  sva- 
go»^^.  In  una  comunità  siffatta,  secondo  la  logica  totalitaria  fa¬ 
scista,  rifiutava  di  integrarsi  solo  chi  non  credeva  nella  sacralità 
della  patria  e  dello  Stato,  chi  non  aveva  fede  e  non  era  quindi  di¬ 
sposto  a  sacrificare  il  proprio  «particolare»  per  il  bene  comune: 
non  solo,  quindi,  l’antifascista,  ma  anche  il  borghese  dalla  mora¬ 
lità  individualistica,  scettica,  materialistica.  La  polemica  antibor¬ 
ghese,  che  aveva  sempre  fatto  da  sottofondo  alla  predicazione 
della  religione  fascista  e  che  divampò  nella  seconda  metà  degli 
anni  Trenta,  trova  la  sua  motivazione,  più  che  in  una  improba¬ 
bile  volontà  di  abolizione  delle  differenze  di  classe,  nell’ideale  del 
«buon  cittadino»  dello  Stato  fascista  come  «individuo  sociale», 
mentre  r«egocentrismo  dell’individuo  determina  la  sua  segrega¬ 
zione  dalla  compagine  dello  Stato:  i  cattivi  cittadini  vanno  confi¬ 
nati  od  isolati»^^. 

Ciò  implicava  ulteriori  alterazioni  della  uguaglianza  di  tutti  i 
cittadini  di  fronte  alla  legge,  oltre  a  quelle  già  compiute  nella  le¬ 
gislazione  liberticida  che  aveva  sancito  il  trapasso  di  regime,  e  po- 

**  G.  Bottai,  Commemorazione  di  Francesco  Paolo  Michetti,  discorso  pro¬ 
nunciato  a  Francavilla  a  Mare  il  31  luglio  1938,  in  Id.,  Politica  fascista  delle  ar¬ 
ti,  Roma  1940,  pp.  153-162. 

“  Popolo  sano,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  5  luglio  1933. 

R.  Pavese,  Appunti  di  etica  fascista,  in  «Critica  fascista»,  15  giugno  1933. 


174 


Il  culto  del  littorio 


neva  le  premesse  per  qualsiasi  forma  di  discriminazione  fra  cit¬ 
tadini  «buoni»  e  cittadini  «cattivi»,  riservandosi  il  fascismo  Te- 
sclusivo  privilegio  di  definire  i  criteri  della  discriminazione.  A 
rafforzamento  e  salvaguardia  della  comunità  totalitaria  dei  «buo¬ 
ni  cittadini»,  il  fascismo  non  escludeva  per  il  futuro,  come  affer¬ 
mava  nel  1927  il  giornale  di  Mussolini,  «la  prospettiva  più  in¬ 
transigente  di  una  nuova  legislazione  la  quale,  accogliendo  gli  im¬ 
perativi  morali  della  nuova  età,  determini  sanzioni  radicali  per 
chi  insista  nel  mantenersi  estraneo  ai  motivi  elementari  del  vive¬ 
re  fascista»''^'^.  In  questa  prospettiva,  apparirà  del  tutto  coerente 
con  la  logica  totalitaria  del  fascismo,  la  radicalizzazione  del  prin¬ 
cipio  di  discriminazione,  fino  all’adozione  della  legislazione  an¬ 
tisemita,  nel  quadro  delle  nuove  leggi  per  la  «difesa  della  razza», 
nel  senso  di  una  maggiore  fanatizzazione  del  culto  del  littorio. 

G.  Pini,  Valore  della  fede,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  29  luglio  1927. 


V 

I  TEMPLI  DELLA  FEDE 


Ma  di  che  cosa  dispone  la  Chiesa,  per  for¬ 
mare  il  Santo  dei  Santi  e  intorno  ad  esso  la 
Casa  di  Dio? 

Di  alcune  sublimi  verità  dello  Spirito,  e  del¬ 
la  divina  semplicità  quotidiana  del  pane  e  del 
vino.  Nel  caso  più  raro  e  più  prezioso,  di 
qualche  frammento  di  reliquia,  che  non  è 
esposta  visibilmente,  ma  la  cui  presenza  invi¬ 
sibile  è  rivelata  da  un  alone  di  più  visibile  glo¬ 
ria,  disposto  intorno  al  luogo  che  la  custodi¬ 
sce. 

Il  fascismo  -  con  tutta  la  distanza  che  separa 
l’umano,  anche  eroico,  dal  Divino  ed  eterno 
-  è  risalito  a  questi  grandi  esempi.  Come  la 
Chiesa,  esso  ha  affidato  all’arte  il  compito  di 
tradurre  e  glorificare  in  immagini  fisiche,  e 
pur  spirituali,  i  fatti  dello  spirito.  Il  compito 
di  concretare  nella  realtà  questo  simbolo  del 
mito,  toccò  come  era  giusto,  all’architettura, 
la  più  concreta  e  insieme  la  più  simbolica  del¬ 
le  arti. 


M.G.  Sarfatti 


Anche  l’arte  fu  chiamata  a  celebrare  il  mito  di  Mussolini  e 
il  culto  del  littorio.  Il  fascismo  riconosceva  agli  artisti,  che  non 
fossero  ovviamente  militanti  antifascisti,  libertà  di  ricerca  e  di 
espressione  nel  campo  propriamente  estetico,  e  si  distinse  dal 
bolscevismo  e  dal  nazismo  perché  non  volle  imporre  un’«arte 
di  Stato»:  «Dichiaro  che  è  lungi  da  me  -  aveva  detto  Mussoh- 
ni  visitando  la  Mostra  del  Novecento  il  26  marzo  1923  -  di  in¬ 
coraggiare  qualche  cosa  che  possa  somigliare  all’arte  di  Stato» 
perché  l’arte  «rientra  nella  sfera  deirindividuo»h  Questa  posi¬ 
zione  agnostica  fu  però  modificata  dopo  l’istaurazione  del  re¬ 
gime,  non  con  l’adozione  di  canoni  estetici  ufficiali  per  un’«ar- 
te  di  Stato»,  ma  con  l’appello  agli  artisti  per  la  creazione  di  una 
«arte  fascista»:  ora  che  l’Italia  era  moralmente  unita,  disse  Mus¬ 
solini  a  Perugia  il  5  ottobre  1926,  il  terreno  è  preparato  per  far 
«rinascere  una  grande  arte  che  può  essere  tradizionalista  ed  al 
tempo  stesso  moderna.  Bisogna  creare,  altrimenti  saremo  gli 
sfruttatori  di  un  vecchio  patrimonio;  bisogna  creare  l’arte  nuo¬ 
va  dei  nostri  tempi,  l’arte  fascista»^.  E  pur  continuando  a  non 
canonizzare  ufficialmente  un’estetica  di  Stato,  il  fascismo  pre¬ 
cisò  che  solo  un’arte  integrata  nello  Stato  totalitario  per  colla¬ 
borare  alla  funzione  educativa  delle  masse  poteva  essere  consi¬ 
derata  arte  fascista.  Per  il  fascismo,  nel  campo  dell’arte,  come 
nel  campo  della  politica,  il  nemico  era  l’individualismo  che  si 
sottraeva  alla  fusione  neIl’«armonico  collettivo»  e  generava  ne¬ 
gli  artisti  scetticismo,  neutralità,  indifferenza  verso  lo  Stato  e  la 
religione  fascista. 


^  Mussolini,  Opera  Omnia,  a  cura  di  E.  e  D.  Susmel,  4  voli.,  Firenze  1951- 
1963,  voi.  XIX,  pp.  187-188. 

^  Ivi,  voi.  }ÒQI,  p.  230. 


178 


Il  culto  del  littorio 


Lanista  militante  per  1’ «armonico  collettivo» 

Gli  artisti  erano  esortati  a  disertare  la  torre  d’avorio  di  un  este¬ 
tismo  chiuso  nel  culto  dell’arte,  a  convertirsi  alla  fede  nel  fascismo, 
a  divenire  propagandisti  del  culto  del  littorio,  partecipando  alla  vi¬ 
ta  deir«armonico  collettivo»,  dando  il  loro  contributo,  nel  campo 
specifico  dell’arte,  alla  rappresentazione  mitica  dell’epopea  fasci¬ 
sta  e  alla  creazione  dei  simboli  e  dei  monumenti  della  «nuova  ci¬ 
viltà».  Gli  individualismi  «hanno  vita  breve  -  affermava  Bottai,  di¬ 
scorrendo  sull’‘artista  nello  Stato’  -  perché  muoiono  presto  d’iso¬ 
lamento,  mentre  uno  Stato  più  omogeneo,  più  attrezzato  alla  sto¬ 
ria,  li  coordina  nel  fascio  delle  energie  collettive»^.  Bottai,  uno  dei 
più  convinti  e  attivi  sostenitori  del  «compito  sociale»  dell’arte  in¬ 
tegrata  nella  politica  dello  Stato  totalitario,  spiegava  chiaramente 
che  cosa  il  fascismo  chiedeva  agli  artisti: 

Noi  chiediamo  all’artista  dei  fatti,  il  cui  impegno  morale  non  sia 
inferiore  a  quello  che  ogni  fascista  porta  nell’adempimento  del  suo 
compito.  Non  gli  chiediamo  la  cronaca  illustrata  dei  fatti  eroici  del 
Fascismo:  sappiamo  che  la  nostra  realtà  è  anche  la  sua  realtà  e  vo¬ 
gliamo  che  l’artista  legga,  non  nelle  pagine  dei  quotidiani,  ma  nel¬ 
l’interno  della  propria  anima  umana.  Questo  soltanto  noi  chiediamo 
agli  artisti:  di  essere  attori  e  non  spettatori,  protagonisti  e  non  coro 
nella  vicenda  epica,  drammatica,  religiosa  di  quest’Italia  antichissima 
e  nuova.  Solo  attraverso  un  atto  di  fede,  doveroso  per  tutti,  artisti  e 
critici,  arte  e  politica  cesseranno  di  essere  attività  incongruenti  per 
conciliarsi  finalmente  sul  piano  epico  della  storia,  per  suggellare  più 
saldamente  quella  totalitaria  unità  di  ideali,  che  molti  poeti  e  molti 
artisti  hanno  sognato  come  utopia  e  che  il  Duce  ha  definitivamente 
fondata."* 

La  libertà  concessa  nel  campo  della  ricerca  estetica  era  però 
drasticamente  richiamata  all’ortodossia  della  religione  fascista 
dallo  stesso  Bottai  quando  affermava:  l’artista  che  «voglia  essere 

’  G.  Bottai,  L’artista  dello  Stato,  discorso  per  l’inaugurazione  della  III  Qua¬ 
driennale  d’arte,  5  febbraio  1939,  riportato  in  Id.,  La  politica  fascista  delle  ar¬ 
ti,  Roma  1940,  pp.  179-184. 

Id.,  Modernità  e  tradizione  dell’arte  italiana  di  oggi,  in  «Le  Arti»,  febbraio 
1939,  riportato  in  Id.,  La  politica  fascista  delle  arti,  cit.,  pp.  89-90. 


V.  1  templi  della  fede 


179 


coscientemente  partecipe  della  ideale  vita  italiana,  riveda  alla  lu¬ 
ce  della  dottrina  e  della  prassi  fascista  le  proprie  idee,  ricostrui¬ 
sca  su  direttive  di  quelle  la  propria  storia  mentale.  Condizione 
essenziale,  è  che  in  questo  esame  non  si  sostituisca  una  conce¬ 
zione  personale  a  quella  affermata  nella  politica  fascista»^.  Un  ri¬ 
chiamo  all’ortodossia,  che  risuonava  anche  d’una  eco  sinistra  con 
il  riferimento  fatto  da  Bottai,  nel  pieno  della  campagna  antise¬ 
mita,  agli  «inquinamenti»  subiti  dall’arte  italiana  nell’ultimo  tren¬ 
tennio,  a  «certi  artisti  [...]  colpiti  da  infezione  ebraica»,  a  «certe 
curiosità  provvisorie  [...]  per  il  dadaismo,  il  surrealismo»,  da  cui 
erano  naturalmente  immuni  i  «veri  artisti»:  degli  altri,  aggiunge¬ 
va  Bottai,  non  valeva  la  pena  occuparsi  perché  i  «vari  Cagli  non 
hanno  mai  impegnato  seriamente  il  giudizio  della  gente  onesta»^. 

L’idea  della  funzione  politica  dell’arte  si  trova  nelle  origini 
stesse  del  fascismo.  Dovere  dell’artista  «in  quest’ora  di  resurre¬ 
zione  nazionale»,  aveva  proclamato  un  giovane  scrittore  fascista 
nel  1924,  era  di  penetrare  «la  coscienza  e  la  subcoscienza  delle 
masse,  ricercar  di  esse  lo  spirito,  farlo  affiorare  dal  complesso 
della  materia  di  cui  per  tanta  vicenda  di  anni  fu  prigioniero»"^. 
Nei  fautori  della  mobilitazione  politica  degli  artisti  ricorreva 
continuamente  il  riferimento  alle  masse  come  principali  desti¬ 
natarie  della  funzione  pedagogica  dell’arte.  L’artista  deir«era  fa¬ 
scista»,  scriveva  Valentino  Piccoli,  doveva  sentire  «la  grandezza 
spirituale  e  la  funzione  politica  dell’arte»  traendo  ispirazione, 
come  tutti  i  grandi  artisti  della  storia  italiana,  «dall’anelito  di 
perfezione  di  un  popolo  intero,  dalla  coscienza  della  missione 
storica  di  questa  nostra  sacra  Italia»**.  La  «stirpe»  era  la  fonte 
dalla  quale  l’artista  doveva  attingere  ispirazione  per  essere  «nel¬ 
lo  stesso  tempo  lo  storico  e  il  profeta  del  popolo  dal  quale  na¬ 
sce»,  perché  l’artista  «è  il  solo  che  con  la  caratteristica  sensibi¬ 
lità  del  proprio  essere,  attinge  vitalità  dalle  sorgenti  vive  della 
stirpe  e  che  può  additare  luminosamente  le  vie  del  futuro  alla 
nazione.  Quando  l’animo  dell’artista  e  l’anima  del  popolo  sono 

5  Ivi,  p.  80. 

^  G.  Bottai,  L’arte  moderna,  in  «Critica  fascista»,  P  dicembre  1938,  ripor¬ 
tato  ivi,  pp.  63-67. 

^  S.  Gotta,  Mistica  patria,  Milano  1924,  p.  79. 

*  V.  Piccoli,  I  valori  civili  del  Fascismo,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  5  giugno 
1932. 


180 


Il  culto  del  littorio 


una  cosa  sola,  allora  viene  sostanzialmente  realizzata  dell’arte 
nazionale»^. 

L’appello  fascista  agli  artisti  non  rimase  inascoltato.  Si  può  di¬ 
scettare  sull’esistenza  di  un’«arte  fascista»,  ma  certamente  ci  fu¬ 
rono  artisti  che  operarono,  in  quanto  artisti,  per  dar  forma  ai  mi¬ 
ti  del  fascismo,  come  essi  lo  interpretavano  e  vivevano,  almeno 
fino  al  momento  in  cui,  di  fronte  al  crollo  dei  miti  in  cui  aveva¬ 
no  creduto,  si  appartarono  delusi  o  passarono  nel  campo  del¬ 
l’antifascismo.  Fu  questo,  per  esempio,  il  caso  di  Giuseppe  Pa¬ 
gano,  un  architetto  che  fu  in  continua  polemica  con  il  tradizio¬ 
nalismo  romanistico  imperante  in  molta  architettura  del  regime: 
fascista  dal  1920,  squadrista  e  docente  fino  al  1941  nella  scuola 
di  Mistica  fascista,  passato  all’antifascismo  alla  fine  del  1942  e 
morto  in  un  campo  di  concentramento  nazista  dopo  aver  rifiu¬ 
tato  di  aderire  alla  Repubblica  sociale Ci  furono  probabilmente 
artisti  che  risposero  all’appello  per  opportunismo,  ma  altri,  e  non 
furono  certo  fra  i  minori  artisti  del  loro  tempo,  non  solo  aderi¬ 
rono  al  fascismo  perché  ne  accettavano  l’ideologia  politica,  ma 
perché  lo  interpretarono  come  un  nuovo  senso  religioso  dell’ita¬ 
lianità,  accettando  con  entusiasmo  la  concezione  della  funzione 
politica  dell’arte  nella  creazione  dello  Stato  nuovo.  Alcuni  dei 
principali  protagonisti  dell’avanguardia  modernista  furono  fra  i 
primi  fascisti  e  continuarono  ad  esserlo  anche  negli  anni  del  re¬ 
gime,  perché  considerarono  il  movimento  mussoliniano  un’a¬ 
vanguardia  che  realizzava,  partendo  dalla  politica,  il  loro  ideale 
di  rivoluzione  totale,  intesa  come  «rivoluzione  spirituale»,  per  far 
sorgere  non  solo  una  nuova  arte,  ma  un  nuovo  stile  di  vita,  un 
«uomo  nuovo»*  h  I  miti,  i  simboli,  i  riti  del  fascismo  apparvero 
ad  Ardengo  Soffici  manifestazione  della  nuova  «religiosità  fasci¬ 
sta»*^,  in  cui  si  realizzava  finalmente  la  religione  secolare  a  lun¬ 
go  agognata  per  la  «nuova  Italia».  E  questi  artisti  non  disdegna¬ 
rono  di  teorizzare  e  praticare  una  estetica  della  propaganda  rivol- 

^  O.  Taddeini,  L.  Mercante,  Arte  fascista  arte  per  le  masse,  Roma  1935,  p.  46. 

Cfr.  ACS,  SPD,  CO,  fase.  515.115;  G.  Pagano,  Architettura  e  città  du¬ 
rante  il  fascismo,  a  cura  di  C.  De  Seta,  Roma-Bari  1976. 

'  ^  Una  nuova  prospettiva  per  l’analisi  dei  rapporti  fra  avanguardia  moder¬ 
nistica  e  cultura  politica  totalitaria  è  proposta  da  I.  Golomstock,  Arte  totalita¬ 
ria,  trad.  it.  di  A.  Giorgetta,  Milano  1990. 

A.  Soffici,  Fritto  misto,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  7  novembre  1922. 


V.  I  templi  della  fede 


181 


ta  alla  diffusione  dei  miti  fascisti  per  l’educazione  delle  masse: 
«In  ogni  tempo  -  spiegava  al  duce  il  pittore  Basilio  CasceUa  in 
una  sua  Relazione  intorno  all’arte  quale  mezzo  di  penetrazione  po¬ 
litica  -  fino  alla  soglia  della  nostra  epoca,  l’Arte,  aU’infuori  e  al 
di  sopra  di  ogni  discussione,  ha  servito  esclusivamente  con  tutti 
i  suoi  mezzi  alla  esaltazione  del  Trono  e  dell’Altare  [...]  La  Chie¬ 
sa  ha  saputo  sempre  servirsene  per  i  suoi  fini  né  mai  fino  ad  og¬ 
gi  ha  derogato  dalla  sua  tradizione;  lo  Stato  invece  ha  trascurato 
questo  potente  mezzo,  lasciando  l’Arte  in  balia  di  se  stessa,  per 
un  malinteso  scrupolo  di  libertà».  Occorreva  invece  servirsi  del¬ 
l’arte  «come  di  una  Religione,  che  superi  anche  le  divisioni  di 
principii  e  simpatie.  Istituire,  mi  si  perdoni  il  paragone,  una  spe¬ 
cie  di  [organizzazione]  parallela  alla  Propaganda  Fide  papale»*^. 

Gli  artisti  erano  chiamati,  come  nelle  grandi  epoche  della  Chie¬ 
sa,  ad  illustrare  ed  esaltare  i  miti  della  religione  fascista.  Questa 
funzione  non  era  attribuita  soltanto  alle  arti  figurative,  ma  a  tutte 
le  forme  d’arte  che  coinvolgevano  un  pubblico  di  massa,  come,  in 
primo  luogo,  il  teatro.  Spettava  all’Italia  fascista,  secondo  Rosso  di 
San  Secondo,  restituire  «il  valore  civile  religioso  poetico  al  teatro 
inteso  come  elevata  espressione  d’un  popolo»*"*,  come  era  stato 
nella  civiltà  greca.  Per  Anton  Giulio  Bragaglia,  alla  civiltà  che  il  fa¬ 
scismo  voleva  creare  non  poteva  mancare  «un  alto  fervore  spiri¬ 
tuale  religioso  morale,  e  però  anche  estetico  e  artistico»,  perché  «la 


ACS,  PCM,  Gabinetto,  1928-1930,  fase.  3.2.2  n.  10227.  Il  progetto,  pre¬ 
sentato  il  14  febbraio  1930  a  Mussolini,  proponeva  di  istituire  una  Mostra  trien¬ 
nale  e  un  premio  reale  per  saggi  di  disegno  riservati  ai  figli  di  italiani  all’estero  fra 
i  sei  e  i  dodici  anni;  «accertando  noi  il  temperamento  artistico  ove  esso  si  trovi  - 
concludeva  CasceUa  -  otterremo  automaticamente  la  penetrazione  politica  del¬ 
l’Idea  Italiana,  che  si  espanderà  irresistibilmente,  poiché  l’Arte  grande  e  piccola 
è  amore  e  passione,  che  ha  fatto  sempre  ai  giovani  persino  abbandonare  le  case 
paterne.  Ond’è  che  senza  alcuno  sforzo  nel  seno  di  qualsiasi  famiglia  o  scuola  noi 
avremo  il  nostro  piccolo  amico,  il  nostro  concittadino  spirituale  che  sarà  poi  il 
nostro  più  fedele  soldato  [...]  Questo  movimento  sarà  anche  naturalmente  l’ini¬ 
zio  di  un  rinnovamento  neUe  Arti,  le  quali  cominceranno  così  ad  avere  con  un 
unico  indirizzo,  anche  un  nuovo  stile  di  educazione  per  farle  servire  poi  degna¬ 
mente  aUa  loro  funzione  politica  di  Propaganda  ed  esaltazione  deU’ERA  FA¬ 
SCISTA».  Mussolini  diede  parere  favorevole  alla  proposta,  che  fu  presa  in  con¬ 
siderazione  da  Balbino  Giuliano,  ministro  deU’Educazione  nazionale,  ma  non  ci 
risulta  che  il  progetto  sia  stato  poi  realizzato. 

Rosso  di  San  Secondo,  Il  teatro  di  domani,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  12 
febbraio  1932. 


182 


Il  culto  del  littorio 


religione  della  bellezza  può  bene  accompagnarsi  alla  religione  di 
Dio  e  dello  Stato»,  per  rispondere  all’esigenza  del  popolo  di  «es¬ 
sere  guidato  alla  luce  di  grandi  ideali,  che  agiscano  sugli  animi  co¬ 
me  fede  ed  entusiasmo  virile».  Evocando  il  modello  del  teatro  gre¬ 
co  e  romano,  Bragaglia  riteneva  che  spettasse  al  teatro  «assumere 
questo  compito  meraviglioso  di  formare  una  sensibilità  ed  una  co¬ 
scienza  estetica  nelle  foUe»^^,  A  tale  opera  di  sensibilizzazione 
estetica  collettiva  si  dedicò  l’attività  teatrale  dei  «Carri  di  Tespi», 
istituiti  nel  1929  dall’Opera  nazionale  dopolavoro,  che  giravano 
l’Italia  tenendo  spettacoli  per  «elevare  il  senso  artistico  delle  clas¬ 
si  inferiori  e  delle  masse  operaie»^^.  Nel  1936,  il  ministero  della 
Cultura  popolare  istituì  il  «sabato  teatrale»,  sempre  affidato  al- 
rOND,  per  favorire  con  particolari  agevolazioni  economiche  la 
partecipazione  delle  masse  rurali  e  operaie  alle  manifestazioni  tea- 
trali^^,  mirando  a  realizzare,  anche  attraverso  questa  forma  di  spet¬ 
tacolo  sociale,  «quell’unità  di  pubblico,  sulla  quale  si  basò  la  gran¬ 
dezza  dell’antico  teatro»,  costruendo  «un  nuovo  pubblico,  traen- 
dolo  dagli  strati  più  diversi  del  popolo»,  coinvolgendoli  nella  fu¬ 
sione  di  una  passione  collettiva,  come  avveniva  negli  spettacoli 
sportivi^^.  In  questo  senso  però  vi  era,  specialmente  fra  i  giovani, 
chi  sollecitava  un  maggior  contenuto  politico  per  il  «teatro  di  mas¬ 
se».  La  funzione  propagandistica  del  teatro  poteva  intendersi  in  un 
duplice  senso:  come  «azione  educativa  rivoluzionaria,  diretta  a 
creare  nel  pubblico  sentimenti  e  concetti  che  non  sono  quelli  del¬ 
la  società  in  cui  l’autore  teatrale  agisce»  oppure  come  «un’opera 
di  rivoluzione  che  tenda  non  a  creare  nel  pubblico  la  coscienza  di 
un  ordine  nuovo»  ma  a  far  comprendere  al  pubblico  i  valori  di  un 
nuovo  «ethos  universale»,  che  esso  ha  già  «creato  empiricamen¬ 
te».  La  «fede  negli  dei  nell’antica  Grecia,  la  religiosità  medievale, 
il  culto  dell’Onore  nel  Gran  Secolo  Francese,  costituiscono  nei  se¬ 
coli  i  vincoli  da  cui  restava  legato  e  unificato  il  popolo»,  e  «dalla  ri- 

A.G.  Bragaglia,  Arte  fascista,  in  «Bibliografia  fascista»,  marzo  1933;  cfr. 
A.C.  Alberti,  Il  teatro  nel  fascismo,  Roma  1974. 

F.  Sapori,  Il  fascismo  e  l’arte,  Milano  1934,  pp.  34-66.  Cfr.  V.  De  Gra¬ 
zia,  Consenso  e  cultura  di  massa  nell’Italia  fascista,  trad.  it.  di  P.  Negri,  Roma- 
Bari  1981,  pp.  188-190. 

R.d.l.  28  dicembre  1936,  n.  2470;  r.d.l.  15  dicembre  1938,  n.  2207. 

1*  G.  Bottai,  Popolo  a  teatro,  radioconversazione  dell’8  gennaio  1937,  ri¬ 
portato  in  Id.,  La  politica  fascista  delle  arti,  cit.,  pp.  211-216. 


V.  I  templi  della  fede 


183 


velazione  e  dalla  esaltazione  di  queste  forze  nacquero  il  teatro  gre¬ 
co,  il  teatro  sacro  medievale,  il  teatro  di  Corneille  e  Bacine».  Se  con 
il  fascismo  si  era  formato  nel  popolo  un  nuovo  ethos,  spettava  dun¬ 
que  al  «teatro  di  masse»  «la  funzione  politica  di  rivelare  al  popolo 
stesso  la  sua  essenza»^^.  Dando  per  certo  che  il  fascismo  aveva  rea¬ 
lizzato  una  «fusione  di  animi,  della  quale  i  millenni  non  conobbe¬ 
ro  l’eguale»,  un  altro  esegeta  della  formula  mussoliniana  del  «tea¬ 
tro  di  masse»  spiegava  che  ora  l’autore  poteva  «attingere  l’uniso¬ 
no  delle  masse  [...]  rievocando  al  popolo  il  sublime  spettacolo  del¬ 
l’emotiva  rivoluzione»  avvenuta  con  il  fascismo^‘\  A  questi  criteri 
di  politicità  si  ispirarono  di  fatto  gli  autori  di  testi  per  un  teatro  fa¬ 
scista,  in  cui  rievocavano  l’epopea  rivoluzionaria  e  drammatizza¬ 
vano  i  miti  del  fascismo,  presentandolo  come  una  vera  e  propria 
religione.  Erano,  in  larga  parte,  opere  prive  di  valore  artistico,  nel¬ 
le  quali  predominava  la  rappresentazione  delle  vicende  del  fasci¬ 
smo  come  movimento  di  fede,  fondato  e  guidato  da  un  capo  ge¬ 
niale,  che  aveva  salvato  l’Italia  dal  disordine  e  dal  caos,  combat¬ 
tendo  contro  le  fazioni  che  avevano  lacerato  l’unità  della  patria  e 
contro  la  degradazione  materialistica  del  socialismo,  e  aveva  re¬ 
dento  gli  italiani,  unendoli  come  una  sola  famiglia,  nell’armonia 
della  comune  patria  fascista,  guidandoli  verso  un’era  di  luminosa 
grandezza,  al  ritmo  di  marcia  di  un  popolo  guerriero  e  civilizzato- 
re.  L’Italia  del  primo  dopoguerra,  le  gesta  squadriste,  la  rivoluzio¬ 
ne  fascista,  la  politica  sociale  del  regime,  le  imprese  militari  in  ter¬ 
ra  d’Africa  o  in  Spagna  costituivano  generalmente  lo  scenario  sto¬ 
rico  di  questi  drammi,  in  cui  i  fascisti,  spesso  rappresentati  come 
socialisti  pentiti,  redenti  e  convertiti  dal  «verbo»  mussoliniano, 
erano  l’incarnazione  del  Bene,  uomini  puri  e  idealisti,  eredi  e  con¬ 
tinuatori  del  volontarismo  risorgimentale,  animati  solo  dalla  fede 
nel  fascismo  e  nel  duce,  pronti  ad  immolarsi  per  la  salvezza  e  la 
grandezza  della  patria  nel  segno  del  littorio.  Qualcuno  di  questi  la¬ 
vori  si  concludeva  con  la  visione  del  duce  che  si  stagliava  contro  il 
cielo  alla  guida  delle  «camicie  nere»  o  con  l’apparizione  di  un  lu¬ 
minoso  fascio  littorio,  nunzio  radioso  dell’alba  di  una  nuova  era.  I 

A.  Zapponi,  Funzione  politica  del  teatro,  in  «Battaglie  fasciste-Conquiste 
dell’Impero»,  gennaio-febbraio  1936. 

K.C.,  Concezione  mussoliniana  del  teatro,  in  «Bibliografia  fascista»,  no¬ 
vembre  1933. 


184 


Il  culto  del  littorio 


titoli  più  frequenti  di  queste  opere  sono  di  per  sé  indicativi  dello 
spirito  epico  e  parenetico  che  ispirava  il  «teatro  fascista»:  Alba  fa¬ 
scista,  Aurora,  Martin  fascisti.  Luce  nelle  tenebre.  Verso  la  luce.  Ri- 
generazione,  Un  popolo  in  marcia,  Lltalia  in  cammino.  Redenzione 
era  il  titolo  di  uno  dei  primi,  brutti  esempi  di  «teatro  fascista»,  un 
dramma  scritto  da  Roberto  Farinacci  e  portato  sulle  scene  nel 
1927^b  Vi  era  narrata  la  vicenda  di  un  socialista  che,  dopo  essersi 
reso  conto  del  materialismo,  della  mancanza  di  fede  religiosa  e  del¬ 
la  viltà  dei  suoi  compagni,  si  pente  e  si  converte  al  fascismo;  ma  so¬ 
lo  quando  viene  ferito  mortalmente  durante  la  mobilitazione  per 
la  «marcia  su  Roma»,  versando  il  suo  sangue  per  la  rivoluzione  fa¬ 
scista,  riceve  dal  capo  degli  squadristi  la  tessera  del  partito,  e  vie¬ 
ne  accolto  come  eroe  e  martire  nella  comunione  squadrista.  Anche 
Mussolini  si  dilettò  a  comporre,  in  collaborazione,  drammi  storici 
che  avevano  per  protagonisti  Cesare,  Napoleone,  Cavour,  raffigu¬ 
rati  come  eroi  solitari  in  lotta  con  il  destino,  fra  l’incomprensione 
e  il  tradimento,  per  conseguire  la  loro  meta  di  grandezza^^. 

Motivi  analoghi  di  mitologia  fascista  ispirarono  gli  artisti  che 
operavano  nel  campo  delle  arti  figurative.  Dalle  polemiche  fra  le 
diverse  correnti  di  pittori,  scultori  e  architetti  che  reclamavano 
di  essere  riconosciuti  quali  autentici  interpreti  dello  «stile  fasci¬ 
sta»,  emerge  come  motivo  comune  il  richiamo  alla  funzione  so¬ 
ciale  e  politica  dell’arte.  E  quale  che  fosse  il  loro  orientamento 
estetico,  volto  alla  ripetizione  dei  modelli  classici  della  romanità 
più  tradizionale  o  volto  alla  ricerca  di  una  «modernità  fascista», 
questi  artisti  si  impegnarono  con  le  loro  opere  nel  propaganda- 
re  la  religione  fascista.  Lo  scenario  figurativo  e  architettonico  che 
essi  costruirono  per  la  celebrazione  del  culto  del  littorio,  ispira¬ 
to  a  contrastanti  e  persino  opposti  indirizzi  estetici,  può  essere 
oggi  variamente  giudicato  dal  punto  di  vista  propriamente  arti¬ 
stico,  ma  esso  era  comunque  coerente  con  il  proposito  di  realiz¬ 
zare  una  monumentalità  religiosa  ispirata  ai  miti  del  fascismo. 

Fra  gli  artisti  impegnati  nella  costruzione  dell’universo  sim¬ 
bolico  della  religione  fascista  forse  il  caso  di  Sironi  è  il  più  rap- 


Cfr.  P.  Cavallo,  Immaginario  e  rappresentazione.  Il  teatro  fascista  di  pro¬ 
paganda,  Roma  1990. 

Cfr.  R.  De  Felice,  Mussolini  il  duce.  1.  Gli  anni  del  consenso  1929-1936, 
Torino  1974,  pp.  31-32. 


V.  I  templi  della  fede 


185 


presentativo^^.  La  sua  lunga  attività  di  illustratore  del  giornale  di 
Mussolini,  di  affrescatore,  di  architetto  di  mostre  e  di  critico  d’ar¬ 
te,  produsse  la  più  originale  e  vasta  rappresentazione  estetica  dei 
miti  e  della  epopea  fascista,  espressione  di  una  fede  tormentata 
ma  convinta  e  cosciente,  che  lo  portò  ad  aderire  anche  alla  Re¬ 
pubblica  sociale.  Alla  fine  del  1942,  nel  ringraziare  Mussolini  per 
avergli  inviato  una  foto  dedicata  «al  camerata  del  vecchio  e  nuo¬ 
vo  tempo»,  Sironi  professava  la  sua  fedeltà:  «nulla  poteva  darmi 
maggior  gioia  del  ’Vostro  ricordo  del  mio  ‘tempo  antico’  -  che 
vuol  dire  della  mia  lontana,  immacolata  ardentissima  e  totale  fe¬ 
deltà.  E  tale  rimane  nel  ‘tempo  nuovo’,  poiché  se  in  essa  è  tutto 
il  mio  orgoglio,  per  essa  ho  vissuto  e  sofferto  e  in  essa  risorgono 
sempre  tutte  le  mie  più  grandi  speranze.  Che  Iddio  protegga  ’Voi 
e  con  Voi  tutti  noi»^"^.  Sironi  era  presentato,  da  chi  sollecitava 
Mussolini  a  nominarlo  membro  dell’Accademia,  non  solo  come 
«l’unico  artista  che  lascerà  una  traccia  profonda  della  Vostra  Era» 
ma  come  «un  devoto,  un  fedele  e  un  mistico»^^.  Sironi  era  dram¬ 
maticamente  affascinato  e  avvinto  dal  senso  mitico  del  fascismo, 
legato  alla  sua  idea  di  modernità,  «epoca  di  miti  grandiosi  e  di 
giganteschi  rivolgimenti»^'’,  e  sentiva  come  missione  il  compito 
che  era  assegnato  dal  fascismo  all’artista  nella  costruzione  della 
«nuova  civiltà»:  «Oggi  è  tempo  di  fede  -  scriveva  nel  1929  -.  E 
necessario  costruire»^^.  Per  Sironi,  il  fascismo  era  la  manifesta¬ 
zione  aurorale  di  una  nuova  epoca  di  grandezza  dell’arte  italia¬ 
na:  l’arte  fascista  doveva  «ricollegarsi  al  nostro  grande  passato  e 
[...]  riprenderne  il  primato»^^,  proseguire  «il  suo  grandioso  svol- 

SuUa  figura  di  Sironi,  per  gli  aspetti  qui  trattati,  rinviamo  in  particolare 
ai  saggi  di  E.  Braun,  Die  Gestaltung  eines  kollektiven  Willens,  in  J.  Harten,  J. 
Poetter  (a  cura  di),  Mario  Sironi  (1983-1961),  Cologne  1988,  pp.  40-49;  Id., 
Mario  Sironi  and  a  Fascisi  Art,  in  E.  Braun  (a  cura  di),  Italian  Art  in  thè  20'* 
Century,  London  1989,  pp.  173-180;  e  ai  saggi  di  E.  Pontiggia  e  F.  Benzi  in  Si¬ 
roni,  Il  mito  dell’architettura,  MUano  1990. 

24  ACS,  SPD,  CO,  fase.  545.895. 

2’  Ivi,  Appunto  per  il  duce,  MUano,  12  dicembre  1942. 

2*  M.  Sironi,  Pittura  murale,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  1”  gennaio  1932,  ri¬ 
portato  in  Id.,  Scritti  editi  e  inediti,  a  cura  di  E.  Camesasca,  MUano  1980,  pp. 
113-115. 

2^  Id.,  Pubblicazioni  d'arte,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  13  marzo  1929,  riporta¬ 
to  ivi,  pp.  42-44. 

2*  Id.,B^^^/fl.^  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  31  marzo  1933,  riportato  ivi,  pp.  143-148. 


Fig.  11.  Mario  Sironi,  Il  Duce  (Bergamo,  Collezione  Davide  Cugini). 


V.  I  templi  della  fede 


187 


gimento  di  toni  giganteschi,  quali  quello  classico,  quello  medie¬ 
vale,  quello  rinascimentale»^^,  per  far  rinascere  un  nuovo  stile  ita¬ 
liano,  monumentale  e  decorativo  come  la  grande  arte  religiosa 
delle  epoche  classiche,  espressione  di  miti  e  di  simboli  evocatori 
delle  «complesse  orchestrazioni  della  vita  moderna»^®:  e  tutto  ciò 
ridando  prestigio  e  vigore  alla  funzione  politica  ed  educativa  del¬ 
l’arte,  che  era,  per  Sironi,  funzione  tipica  della  tradizione  classi¬ 
ca  della  grande  arte  italiana.  L’Italia,  scriveva  Sironi,  «tra  le  altre 
insanzionabili  benemerenze,  ha  in  primo  luogo  questa  immensa 
esperienza  dell’arte,  condotta  attraverso  e  in  ferrea  dipendenza 
degli  eventi  e  della  vita  politica»^  b  E  poiché  il  fascismo  inaugu¬ 
rava  nella  politica  una  nuova  epoca  della  civiltà  italiana,  l’arte  do¬ 
veva  vivere  e  interpretare  questo  nuovo  senso  della  vita  e  propa¬ 
gandarlo  fra  le  masse,  attraverso  «l’unità  delle  arti  riconducenti 
pittura  e  scultura  alla  funzione  mediterranea  e  solare,  decorativa 
e  architettonica»^^,  nelle  forme  di  una  modernistica  arcaicità  ade¬ 
guata  ad  esprimere,  in  un’estetica  severa,  drammatica  ed  essen¬ 
ziale,  «la  primitività  pagana  e  costruttiva  dell’evo  moderno»”. 
Un  nuovo  stile,  spiegava  Sironi,  perché  più  che  «mediante  il  sog¬ 
getto  (concezione  comunista),  è  mediante  la  suggestione  del¬ 
l’ambiente,  mediante  lo  stile  che  l’arte  fascista  riuscirà  a  dare  nuo¬ 
va  impronta  all’anima  popolare»’*’.  Le  osservazioni  sironiane  sul 
problema  dello  stile  echeggiano  con  perfetta  sintonia  il  proble¬ 
ma  dello  stile  di  vita,  che  ricorre  in  tutte  le  forme  della  liturgia 
pegadogica  fascista: 

Il  Fascismo  è  stile  di  vita:  è  la  vita  stessa  degli  italiani.  Nessuna 
formula  riescirà  mai  a  esprimerlo  compiutamente  e  tanto  meno  a  con¬ 
tenerlo.  Del  pari,  nessuna  formula  riescirà  mai  a  esprimere  e  tanto 


Id.,  Antelami,  in  «Rivista  illustrata  del  Popolo  d’Italia»,  febbraio  1936, 
riportato  ivi,  pp.  210-213. 

Id.,  Pittura  murale,  cit. 

Id.,  Antelami,  cit.,  p.  211. 

Id.,  Ragioni  d’artista,  in  Dodici  tempere  di  Mario  Sironi,  Milano  1943,  ri¬ 
portato  ivi,  pp.  248-251. 

Id.,  Il  Maestro,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  13  marzo  193 1  (dedicato  allo  scul¬ 
tore  Adolfo  Wildt). 

M.  Campigli,  C.  Carrà,  A.  Funi,  M.  Sironi,  Manifesto  della  pittura  mu¬ 
rale,  in  «La  Colonna»,  dicembre  1933,  riportato  in  Sironi,  Scritti  editi  e  inedi¬ 
ti,  cit.,  pp.  155-157. 


188 


Il  culto  del  littorio 


meno  a  contenere  ciò  che  si  intende  qui  per  Arte  Fascista,  cioè  a  di¬ 
re  un’arte  che  è  l’espressione  plastica  dello  spirito  Fascista. 

L’Arte  Fascista  si  verrà  delineando  a  poco  a  poco,  e  come  risul¬ 
tato  della  lunga  fatica  dei  migliori.  Quello  che  fin  d’ora  si  può  e  si  de¬ 
ve  fare,  è  sgombrare  il  problema  che  si  pone  agli  artisti  dai  molti  equi¬ 
voci  che  sussistono. 

Nello  Stato  Fascista  l’arte  viene  ad  avere  una  funzione  sociale:  una 
funzione  educatrice.  Essa  deve  tradurre  l’etica  del  nostro  tempo.  De¬ 
ve  dare  unità  di  stile  e  grandezza  di  linee  al  vivere  comune.  L’arte  co¬ 
sì  tornerà  a  essere  quello  che  fu  nei  suoi  periodi  più  alti  e  in  seno  al¬ 
le  più  alte  civiltà:  im  perfetto  strumento  di  governo  spirituale. 

La  concezione  individualista  dell’«arte  per  l’arte»  è  superata.  De¬ 
riva  di  qui  una  profonda  incompatibilità  tra  i  fini  che  l’Arte  Fascista 
si  propone,  e  tutte  quelle  forme  d’arte  che  nascono  dall’arbitrio,  dal¬ 
la  singolarizzazione,  dall’estetica  particolare  di  un  gruppo,  di  un  ce¬ 
nacolo,  di  un’accademia.  La  grande  inquietudine  che  turba  tuttora 
l’arte  europea,  è  il  prodotto  di  epoche  spirituali  in  decomposizione. 
La  pittura  moderna,  dopo  anni  e  anni  di  esercitazioni  tecnicistiche  e 
di  minuziose  introspezioni  dei  fenomeni  naturalistici  di  origine  nor¬ 
dica,  sente  oggi  il  bisogno  di  una  sintesi  spirituale  superiore.’^ 

Per  Sironi,  il  fascismo  stava  realizzando  un  nuovo  stile  di  vi¬ 
ta  che  dava  forma  e  ordine  al  caos  della  modernità,  plasmando 
la  coscienza  delle  masse,  integrandole  in  una  vita  comune.  E  la 
sua  asserzione  del  principio  pedagogico  dell’arte,  nell’ambito  del¬ 
la  funzione  politica,  si  inserisce  coerentemente  nel  quadro  della 
politica  totalitaria,  secondo  il  motivo  ispiratore  della  volontà  di 
potenza  plasmatrice  di  coscienze,  e  nella  meta  della  creazione  di 
un  «armonico  collettivo»  di  una  coscienza  unitaria  e  corale  del¬ 
l’anima  popolare,  che  l’arte  doveva  contribuire  a  formare,  dive¬ 
nendone,  nello  stesso  tempo,  la  più  alta  espressione.  Abbando¬ 
nando  il  suo  egocentrismo,  l’artista  doveva  divenire  «militante», 
affermava  Sironi:  «un  artista  che  serve  un’idea  morale,  e  subor¬ 
dina  la  propria  individualità  all’opera  collettiva»;  con  «un  intimo 
senso  di  dedizione  all’opera  collettiva»,  l’artista  «deve  ritornare 
a  essere  uomo  tra  gli  uomini,  come  fu  nelle  epoche  della  nostra 
più  alta  civiltà»^^.  Egli  si  figurava  gli  artisti  fascisti  quali  «solda- 


Ivi,  p.  155.  Il  corsivo  è  nostro. 
Ivi,  p.  156. 


V.  I  templi  della  fede 


189 


ti  millenari»  che  marciano  «verso  l’avvenire,  nel  cielo  armato  di 
canzoni  guerriere»,  moderni  eredi  dell’arte  religiosa  e  decorativa 
dei  popoli  mediterranei,  dagli  egizi  agli  etruschi  ai  romani  ai  bi¬ 
zantini. 


L’epopea  della  rivoluzione 

Gran  parte  della  produzione  dell’arte  fascista,  e  non  solo  quel¬ 
la  di  Sironi,  era  dedicata  alla  trasfigurazione  epica  e  mitica  del  fa¬ 
scismo  volta  alla  educazione  delle  masse.  La  forza  morale  ispira¬ 
trice  àeXi’ artista  militante,  nella  dedizione  all’opera  collettiva,  era 
per  Sironi  il  senso  religioso  della  vita  che  il  fascismo  aveva  infu¬ 
so  in  ogni  manifestazione  collettiva,  perché  «è  proprio  vero  che 
in  nessun  paese  come  in  Italia  [...]  l’arte  è  comunione  di  spiriti, 
religiosità  che  integra  e  accompagna  ogni  elevazione  della  vita  so¬ 
ciale  e  della  civiltà  nostra»,  «la  costante  accompagnatrice  di  tan¬ 
te  epoche  di  grandezza,  per  tesserne  la  storia  sotto  la  forma  del 
mito  e  delle  leggende  che  sono  arte»,  sublimandone,  nella  sua 
gloria,  le  vicende.  Le  grandi  esposizioni  dovevano  abbandonare 
la  vecchia  funzione  élitaria,  borghese  e  mercantile,  e  divenire  una 
«festa  d’arte  [...]  universale  [...]  e  di  popolo»,  «un  qualche  cosa 
che  conta  e  decide  per  la  vita  più  alta  dello  spirito  nazionale,  un 
luogo  nel  quale  si  ricapitolano  non  solo  le  misure  del  valore  dei 
singoli,  ma  le  aspirazioni  ideali,  gli  orientamenti  più  vasti  e  crea¬ 
tivi  della  civiltà  comune»^^. 

La  realizzazione  più  importante  ed  efficace  dell’ideale  sironia- 
no  di  un’arte  fascista,  come  sublimazione  della  storia  «sotto  la  for¬ 
ma  del  mito  e  delle  leggende»,  fu  la  Mostra  della  rivoluzione  fasci¬ 
sta,  in  cui  Sironi  stesso  ebbe  larga  parte^^,  aperta  a  Roma  il  28  ot¬ 
tobre  1932,  nel  quadro  delle  grandi  celebrazioni  del  Decennale: 

Id.,  Il  Quadriennale  d’arte  nazionale,  in  «La  Rivista  illustrata  del  Popo¬ 
lo  d’Italia»,  febbraio  1935,  riportato  ivi,  pp.  186-190. 

«Egli  ha  dato  la  sua  anima  austera,  religiosa  e  tragica,  non  solo  con  le  sa¬ 
le  da  lui  costruite  personalmente,  ma  permeandola  con  l’esempio  e  il  segno  del 
suo  ingegno  e  della  sua  arte,  che  nel  campo  della  pittura  italiana  -  e  non  del¬ 
la  sola  pittura  -  si  sono  ormai  imposti  per  autorità  spontanea  e  inevitabile». 
M.G.  Sarfatti,  Architettura,  arte  e  simbolo  alla  mostra  del  fascismo,  in  «Archi¬ 
tettura»,  gennaio  1933. 


190 


Il  culto  del  littorio 


certamente  la  più  compiuta  e  soggestiva  sintesi  plastica  e  figurativa 
dell’universo  mitico  e  simbolico  del  fascismo  prodotta  dal  regime. 
La  mostra,  scrisse  Margherita  Sarfatti,  interpretandone  con  la  con¬ 
sueta  sensibilità  il  significato  e  la  funzione,  non  era  «una  raccolta  di 
materiale  storico,  ma  storia  in  atto,  attraverso  la  trasformazione  mi¬ 
tica  e  pur  verace  -  anzi,  la  sola  verace,  in  simbolo  e  allegoria»  che 
solo  gli  artisti  potevano  compiere^^.  Al  progetto  e  alla  realizzazio¬ 
ne  collaborarono  pittori,  scultori  e  architetti  italiani  fra  i  migliori 
del  loro  tempo,  come  Prampolini,  Terragni,  Valente,  Libera,  Funi, 
Marini,  Rambelli,  Longanesi,  Bartoli,  MaccarF®.  L’idea  era  partita 
da  Dino  Alfieri,  presidente  dell’Istituto  nazionale  fascista  di  cultu¬ 
ra  di  Milano,  per  celebrare  il  primo  decennale  della  fondazione  dei 
fasci  a  Milano.  Alfieri  pensava  ad  una  mostra  che  doveva  «far  rivi¬ 
vere  suggestivamente  quindici  anni  di  storia  del  popolo  italiano» 
dall’intervento  al  regime  fascista,  col  proposito  di  rappresentare, 
secondo  il  piano  inizialmente  proposto  dal  direttore  del  Museo  sto¬ 
rico  del  Risorgimento  di  Milano,  Antonio  Monti,  le  tappe  della  ri¬ 
nascita  nazionale,  attraverso  la  guerra  e  la  rivoluzione  fascista'^ h  La 
mostra,  precisò  successivamente  Alfieri,  non  doveva  essere  però  so¬ 
lo  una  illustrazione  documentaria,  ma  evocare  epicamente  l’inizio 
di  una  nuova  era,  con  una  «veduta  panoramica  ed  una  apoteosi  al¬ 
lo  stesso  tempo,  una  dimostrazione  logica»  dell’opera  compiuta  dal 
fascismo"^^.  Lo  sviluppo  dell’idea  passò  successivamente  sotto  il  pa¬ 
trocinio  e  il  controllo  del  partito  f^ascista**^.  Il  progetto  fu  definito  e 


Sarfatti,  Architettura,  arte  e  simbolo  cit. 

Per  la  storia  della  mostra,  cfr.  G.  Fioravanti,  introduzione  alla  Mostra  del¬ 
la  rivoluzione  fascista,  Roma  1990.  Utili  anche  i  cataloghi  della  mostra  stessa:  Gui¬ 
da  alla  mostra  della  rivoluzione  fascista,  Firenze  l9ì2-,Mostra  della  rivoluzione  fa¬ 
scista,  Guida  storica  a  cura  di  D.  Alfieri  e  L.  Freddi,  Bergamo  1933;  degno  di  no¬ 
ta  è  anche  il  libro  di  O.  Dinaie,  La  rivoluzione  che  vince,  Foligno  1934,  illustrato 
da  Sironi,  che  rappresenta,  in  un  esaltato  stile  metaforico  e  allegorico,  una  sorta 
di  ulteriore  epicizzazione  fascista  della  mostra  stessa;  per  gli  aspetti  storico-arti¬ 
stici,  dal  punto  di  vista  critico,  i  migliori  studi  sono:  D.  Ghirardo,  Architects, 
Exhibitions,  and  thè  Politics  of  Culture  in  Fascisi  Italy,  L.  Andreotti,  The  Ae- 
stethics  ofWar:  The  Exhtbttion  of  thè  Fascisi  Revolution,]  .T .  Schnapp,  Fascismi 
Museum  in  Motion,  in  «Journal  of  Architectural  Education»,  febbraio  1992. 

ACS,  Carteggio  Personahtà,  Carte  Alfieri,  b.  9,  Lettera  di  A.  Monti,  24 
febbraio  1928. 

'•2  La  mostra  storica  del  fascismo,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  31  marzo  1928. 

Cfr.  Fioravanti,  Introduzione  cit.,  pp.  16-18. 


V.  1  templi  della  fede 


191 


approvato  dal  direttorio  del  PNF  il  14  luglio  1931.  La  mostra  era 
suddivisa  in  quattro  sezioni  tematiche:  lo  Statò,  il  Lavoro,  le  Armi 
e  lo  Spirito.  Quest’ultima  sezione  avrebbe  raffigurato  «il  patrimo¬ 
nio  spirituale  del  popolo  italiano,  illuminato  da  una  luce  di  abne¬ 
gazione  e  di  sacrificio,  che  gli  ha  dato  il  crisma  della  consacrazione 
eroica»:  «Lo  spirito  è  nella  nostra  fede,  l’elemento  dominatore  de¬ 
gli  eventi  -  spiegava  Alfieri  -:  e  dello  spirito  l’elemento  creatore, 
realizzatore,  fattivo,  è  la  volontà».  Perciò  «in  tutto  lo  svolgimento 
della  Mostra  si  deve  sentire  il  palpito  di  una  volontà  superiore,  ani¬ 
matrice,  plasmatrice:  della  volontà  del  Capo,  nel  quale  sembrano 
che  convergano  tutte  le  forze  misteriose  della  razza»’^'*.  In  effetti, 
mentre  ci  si  avvicinava  alla  realizzazione,  il  progetto  si  trasformò  da 
rievocazione  della  storia  del  popolo  italiano  in  glorificazione  del  fa¬ 
scismo  e  del  suo  capo,  al  quale  il  progetto  originario  non  aveva  at¬ 
tribuito  alcuna  speciale  sezione.  Fu  anche  accantonata  l’idea  di  de¬ 
dicare  la  mostra  ad  una  rassegna  deUe  realizzazioni  del  regime,  rin¬ 
viata  ad  una  successiva  esposizione-^^,  riservando  solo  una  parte  del¬ 
la  mostra  alle  istituzioni  del  fascismo.  Mussolini,  sempre  più  at¬ 
tratto  dall’impresa,  che  seguì  assiduamente  nelle  fasi  di  allestimen¬ 
to,  intervenendo  anche  nelle  scelte  estetiche,  decise  che  la  mostra 
sarebbe  stata  dedicata  alla  «rivoluzione  fascista»  e  sarebbe  stata 
inaugurata  a  Roma  per  il  decennale  dell’avvento  al  potere-^*^. 

L’allestimento  avvenne  con  un  lavoro  febbrile  dal  5  agosto  al 
28  ottobre  1932,  giorno  dell’inaugurazione,  fra  non  pochi  con¬ 
trasti  e  difficoltà,  anche  di  ordine  economico,  che  avevano  fatto 


ACS,  PNF,  DN,  Servizi  Vari,  sezione  II,  b.  332,  fase.  «D.  Alfieri»,  «Ap¬ 
punti  sul  programma  della  mostra  del  fascismo».  Cfr.  La  mostra  del  fascismo, 
in  «Bibliografia  fascista»,  maggio  1932. 

La  mostra  delle  realizzazioni,  che  secondo  il  piano  proposto  da  Alfieri  e 
approvato  da  Mussolini  nella  seduta  del  Direttorio  del  PNF  del  14  luglio  1931, 
avrebbe  dovuto  essere  inaugurata  il  27  ottobre  1932,  doveva  «esprimere  in  for¬ 
ma  visiva  che  cosa  è  stato  fatto  dal  Fascismo  nei  suoi  dieci  anni  di  governo», 
rappresentando  le  sue  realizzazioni  «in  una  forma  spettacolare,  cioè  vivace  e 
suggestiva,  fatta  soprattutto  con  mezzi  di  confronto  e  di  paragone  e  non  ri¬ 
fuggendo  dalle  forme  più  moderne  della  propaganda  e  della  pubblicità.  Al  vi¬ 
sitatore  si  deve  dare  con  la  maggiore  possibile  facihtà  il  modo  di  cogliere  -  sen¬ 
za  quasi  che  egh  se  ne  accorga  -  il  lato  più  importante  di  ciò  che  si  vuole  di¬ 
mostrare».  Relazione  di  Alfieri  a  Starace,  Roma  28  giugno  1932,  in  ACS,  PNF, 
DN,  Servizi  Vari,  sezione  II,  b.  332,  fase.  «D.  Alfieri». 

Il  Duce  impartisce  le  direttive  per  la  Mostra  della  Rivoluzione  Fascista,  in 
«Il  Popolo  d’Italia»,  10  giugno  1932. 


192 


Il  culto  del  littorio 


paventare  al  parsimonioso  segretario  amministrativo  addirittura 
un  «vero  disastro  finanziario»*^^.  Mussolini  e  il  segretario  del  par¬ 
tito  fecero  vari  sopralluoghi  per  seguire  l’andamento  dei  lavori. 
La  raccolta  del  materiale  documentario  era  stata  avviata  per  tra¬ 
mite  delle  segreterie  federali,  con  un  appello  rivolto  a  tutti  i  fa¬ 
scisti  a  mobilitarsi  nella  ricerca,  suscitando  gran  fervore  di  par¬ 
tecipazione  per  l’invio  di  documenti  e  cimeli,  dalle  lettere  ai  gior¬ 
nali,  dalle  fotografie  ai  manifesti,  dai  gagliardetti  delle  squadre 
alle  reliquie  dei  «martiri  fascisti»,  alle  bandiere  rosse  ed  altri  «tro¬ 
fei»  e  documenti  sottratti  agli  avversari  durante  le  spedizioni 
squadriste**^.  Fin  dal  momento  della  preparazione,  attorno  alla 
mostra,  preannunciata  come  la  più  grandiosa  manifestazione  del 
Decennale,  grazie  ad  un’abile  orchestrazione  propagandistica  che 
incontrò  un  genuino  entusiasmo,  si  venne  creando  un  particola¬ 
re  alone  di  «religiosità»,  che  investì  innanzi  tutto  i  fascisti,  solle¬ 
citati  a  dare  il  loro  contributo  «per  la  riuscita  della  manifesta¬ 
zione  che  dovrà  essere  glorificazione  del  sacrificio  e  della  fede 
delle  Camicie  Nere  tutte,  di  quelle,  anche,  oggi  lontane  dalla  Pa- 
tria»^9.  La  preparazione  della  mostra  assunse  l’aspetto  di  un’im¬ 
presa  collettiva  paragonabile  alla  costruzione  di  una  «cattedrale 
laica  ed  effimera»,  come  è  stata  efficacemente  definita^^^,  dedica¬ 
ta  aU’autoglorificazione  dei  fascisti  stessi;  la  mostra,  affermava 
«Gioventù  fascista»,  doveva  innanzi  tutto  servire  ai  credenti  del 
fascismo  non  come  «catalogazione  da  museo  o  allineamento  di 
suppellettili»  ma  come  «emanazione  di  sentimenti  che  tocchino 
il  cuore.  Sentiamo  da  fanatici,  perché  senza  fanatismi  non  è  pos- 

G.  Marinelli  a  D.  Alfieri,  13  settembre  1932,  in  ACS,  PNF,  DN,  Servi¬ 
zi  Vari,  sezione  II,  b.  332,  fase.  «D.  Alfieri». 

Cfr.  «Il  Popolo  cl  Italia»,  15  marzo  1932  (circolare  dell’ufficio  stampa 
del  capo  del  governo);  Il  contributo  delle  Camicie  nere  romane,  ivi,  15  marzo 
1932;  Per  la  Mostra  del  Fascismo,  ivi,  27  aprile  1932;  La  Mostra  del  Fascismo.  I 
lavori  delle  sezioni,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  12  maggio  1932. 

Per  la  Mostra  del  fascismo,  ivi,  27  aprile  1932.  Per  la  propaganda  furono 
preparati  100.000  manifesti,  200.000  cartoline  e  1.300.000  cartelloni  pubblici- 
tari,  da  diffondere  nelle  città,  nelle  sezioni  delle  organizzazioni  del  partito,  ne¬ 
gli  alberghi,  sulle  vetture  ferroviarie  e  tramviarie,  sulle  navi,  etc.  (ACS,  PNF, 
DN,  Servizi  Vari,  sezione  II,  b.  332,  fase.  3).  Era  stato  proposto  un  volume  spe¬ 
ciale,  che  avrebbe  dovuto  preparare  Leo  Longanesi,  ed  anche  un  film,  affida¬ 
to  ad  Alessandro  Blasetti.  Fu  inoltre  bandito  un  concorso  per  il  miglior  arti¬ 
colo  sulla  mostra. 

C.  Cresti,  Architettura  e  fascismo,  Firenze  1986,  p.  313. 


V.  I  templi  della  fede 


193 


sibile  sentirsi  gregari»;  agli  artisti  chiamati  alla  sua  realizzazione 
doveva  esser  chiaro  che  «si  tratta  di  esprimere  una  fede  e  di  rap¬ 
presentarla  con  quel  fervore  d’ispirazione  che  può,  anche  al  di 
fluori  delle  deficienze  di  mestiere,  suscitare  dei  motivi  di  religio¬ 
sità»^  L 

Dal  punto  di  vista  estetico,  i  realizzatori  ebbero  dallo  stesso 
Mussolini  l’ordine  di  «far  cosa  d’oggi,  modernissima  dunque,  e 
audace,  senza  malinconici  ricordi  degli  stili  decorativi  del  passa- 
to»^^,  una  mostra  «palpitante  di  vita  virile  e  anche  teatrale»,  e  in 
nulla  somigliante  «alla  palandrana  di  Giolitti»^^,  per  esaltare  la 
modernità  dinamica  e  rivoluzionaria  del  fascismo.  L’aspetto  este¬ 
tico  fu  concepito  e  realizzato  con  spirito  modernista  e  futurista, 
ostentatamente  polemico  contro  il  tradizionalismo  architettoni¬ 
co,  a  cominciare  dal  rivestimento  della  facciata  umbertina  del  pa¬ 
lazzo  dell’Esposizione  in  via  Nazionale,  sede  della  mostra,  per  na¬ 
scondere  la  sua  ottocentesca  monumentalità  «fatta  d’albagia  sen¬ 
za  sostanza,  di  grandiosità  senza  stile,  di  ricchezza  senza  gusto», 
indegna  di  rappresentare  una  rivoluzione  «che  aveva  segnato  l’i¬ 
nizio  di  un’era  nuova»^*^.  L’esterno  e  l’interno  del  palazzo  furo¬ 
no  radicalmente  trasformati  daU’allestimento  architettonico  e 
scenografico.  Per  la  facciata,  scartati  i  progetti  di  «una  solennità 
romaneggiante  imbastita  di  falso  travertino»  o  di  «un  manieri¬ 
smo  ricalcato  sul  barocco»,  perché  «i  tempi  grandi  non  s’immi¬ 
seriscono  nell’imitazione,  sempre  mediocre,  di  quelli  precedenti, 
ma  creano  forme  nuove  ed  espressioni  originali»,  fu  prescelto  il 
progetto  di  Mario  De  Renzi  e  Adalberto  Libera  che,  per  la  sua 
audace  e  originale  modernità,  appariva  il  più  adeguato  a  rappre¬ 
sentare  «la  nostra  epoca  anelante  e  dinamica,  disancorata  e  feb- 
brile»^^. 

Il  giorno  dell’inaugurazione  la  nuova  facciata  si  presentava  co¬ 
me  un  immenso  cubo  che  simbolizzava  «con  la  sua  purezza  geo¬ 
metrica  la  sintesi  della  concezione  totalitaria  e  integrale  del  Re- 

M.P.  Bardi,  Mostra  della  Rivoluzione  Fascista,  in  «Gioventù  fascista»,  10 
luglio  1932. 

PNF.  Mostra  della  rivoluzione  fascista  cit.,  p.  8. 

55  Cit.  in  F.T.  Marinetti,  La  mostra  della  rivoluzione  fascista  segna  il  trionfo 
dell’arte  futurista,  in  «La  Gazzetta  del  popolo»,  29  ottobre  1932. 

5“’  PNF,  Mostra  della  rivoluzione  fascista  cit.,  p.  65. 

55  Ivi,  pp.  65-66. 


194 


Il  culto  del  littorio 


girne  fascista»,  mentre  il  suo  colore  rosso  cupo,  evocazione  del¬ 
lo  spirito  rivoluzionario,  si  confaceva  alla  tradizione  romana  del 
rosso  «pompeiano».  Davanti  la  facciata  svettavano  quattro  fasci 
in  rame  brunito  alti  venticinque  metri,  stilizzati  come  colonne  in 
forma  meccanica  e  metallica,  collegati  dalla  pensilina  che  sovra¬ 
stava  l’ingresso,  su  cui  si  stagliavano  i  caratteri  metallici,  su  fon¬ 
do  nero,  della  scritta  «Mostra  della  rivoluzione  fascista».  La  sti¬ 
lizzazione  del  fascio,  rendendolo  simile  ad  una  futuristica  cimi¬ 
niera  industriale  o  al  fumaiolo  di  una  nave,  conferiva  all’antico 
simbolo  romano  dell’autorità  nuovi  significati,  e  collegava  il  mi¬ 
to  della  romanità  al  modernismo  rivoluzionario  fascista^^.  Alle 
due  ali  della  facciata,  isolate,  si  ergevano  due  enormi  X  in  lamiera 
tinteggiata  di  rosso  e  di  bianco.  La  cifra  romana,  emblema  del 
Decennale,  campeggiava  anche  sulla  porta  d’ingresso  e  nell’in- 
terno  della  mostra,  come  un  simbolo  magico  e  augurale  segno  ce¬ 
lebrativo  del  «primo  decennio  sui  dieci  preventivati  e  certissimi» 
della  rivoluzione  fascista^^.  L’aspetto  complessivo  della  facciata, 
resa  ancor  più  soggestiva  la  sera  dagli  effetti  luminosi,  produce¬ 
va  l’immagine  di  una  fortezza  o  di  una  inesorabile  macchina  bel¬ 
lica.  L’immagine  guerresca  era  evocata  anche  dalla  presenza  per¬ 
manente  della  guardia  d’onore  di  militi  con  elmetto  e  moschetto 
schierati  davanti  all’ingresso. 

La  scalinata  d’ingresso,  sovrastata  da  un  arcone  metallico, 
sembrava  l’entrata  di  una  chiesa.  La  metafora  sacrale  era  ribadi¬ 
ta  subito  dopo  l’entrata,  fiancheggiata  da  due  fasci  di  zinco  bru¬ 
nito,  dalla  formula  del  giuramento  fascista  che  si  scopriva  alla  vi¬ 
sta  del  visitatore,  risaltando  dal  fondo  luminoso  di  un  targone, 
man  mano  che  egli  ascendeva  per  la  scalinata.  Anche  l’interno 
della  mostra,  che  ripercorreremo  avvalendoci  del  catalogo  uffi¬ 
ciale  e  delle  descrizioni  di  visitatori  dell’epoca,  era  pervaso  da  un 
senso  di  religiosità,  creato  da  una  ben  studiata  scenografia  di  im¬ 
magini  luci  colori  e  suoni,  «atta  a  suscitare  l’atmosfera  del  tem¬ 
po,  tutta  fuoco  e  febbre  tumultuosa,  lirica,  splendente»^*,  che  si 
«rivolge  alla  fantasia,  eccita  l’immaginazione,  ricrea  lo  spirito.  Il 

Cfr.  Schnapp,  Fascism’s  Museum  in  Motion  cit.,  pp.  91-92. 

”  Mussolini,  Òpera  Omnia,  cit.,  voi.  XXV,  p.  164  (discorso  alla  Camera 
dei  deputati  per  il  decennale,  16  novembre  1932). 

58  pfsJF,  Mostra  della  rivoluzione  fascista  cit.,  p.  8. 


Fig.  12.  Scorcio  della  facciata  della  Mostra  della  rivoluzione  fascista 
al  Palazzo  delle  Esposizioni  (ACS). 


196 


Il  culto  del  littorio 


visitatore  ne  resterà  conquistato  e  preso  fin  dentro  ranima»’^.  I 
temi  dell’esposizione,  scanditi  dalla  successione  degli  anni,  si 
svolgevano  attraverso  le  varie  sale  come  «una  gigantesca  sinfonia 
i  cui  tempi  s’iniziano  col  momento  tragico,  che  va  dal  luglio  del 
14  al  maggio  del  ’  15,  e  si  conclude  con  l’apoteosi  augusta  scan¬ 
dita  dal  passo  delle  legioni  di  Camicie  Nere  in  marcia  sulle  stra¬ 
de  consolari  che  portano  a  Roma».  Ma  il  motivo  fondamentale 
di  tutta  la  sinfonia  era  «suggerito  dairincombente  predominan¬ 
te  e  determinante  figura  del  Duce»,  che  costituiva  «l’onda  con¬ 
duttrice  sulla  quale  si  dovevano  inserire,  inseguendosi  col  dina¬ 
mismo  d’un  ‘crescendo’  irrompente,  episodi  e  figure,  fatti  e  do¬ 
cumenti,  folle  ed  eventi»,  componendo  «il  grande  insieme  desti¬ 
nato  a  percuotere  le  anime  e  ad  esaltare  i  cuori»^».  In  un  am¬ 
biente  così  concepito,  lo  stesso  materiale  documentario  era  tra¬ 
smutato  in  elemento  simbolico  atto  a  produrre  «una  suggestione 
vitale  ed  emotiva  che  agisse  sull’animo  del  visitatore»^h  Espres¬ 
sione  in  simboli  di  un’idea,  scrisse  Sironi,  con  il  suo  «realismo 
monumentale,  con  modi  franchi  e  diretti»,  la  mostra  «era  una  ge¬ 
neratrice  di  emozioni  intense  come  un  dramma»^^ 

Seguendo  un  percorso  obbligato,  attraverso  le  19  sale  del  pri¬ 
mo  piano  della  mostra  (al  secondo  piano  erano  le  sale  dedicate 
alle  istituzioni  del  regime),  il  visitatore  era  avvolto  da  ondate  suc¬ 
cessive  di  simboli  e  miti.  Immagini,  documenti,  fotografie,  sago¬ 
me  stilizzate,  sculture,  affreschi,  gigantografie  e  fotomontaggi  rie¬ 
vocavano  eventi  e  protagonisti,  come  «dimostrazione»^^  della  ri¬ 
voluzione  fascista  nel  suo  divenire.  Il  visitatore  contemplava  la 

Ivi,  p.  9.  Si  veda  anche  la  relazione  dell’architetto  Adalberto  Libera,  in¬ 
viata  probabilmente  ad  Alfieri,  sul  piano  generale  di  allestimento,  cit.  in  Fio¬ 
ravanti,  introduzione  a  Mostra  della  rivoluzione  fascista  cit.,  pp.  27-28. 

PNF,  Mostra  della  rivoluzione  fascista  cit.,  p.  46. 

Ivi,  p.  72. 

“  M.  Sironi,  Arte  e  tecnica  della  mostra  «Schaffen  Volk»  a  Dusseldorf  in 
«La  Rivista  illustrata  del  Popolo  d’Italia»,  novembre  1937,  riportato  in  Sironi 
Scritti  editi  e  inediti  cit.,  pp.  222-226. 

«QueUa  che  si  aprì  a  Roma  non  è  solo  ‘la  mostra’:  molto  di  più,  è  ‘la  di¬ 
mostrazione’  della  Rivoluzione  Fascista. 

E  rendo  il  verbo  ‘dimostrare’  nel  suo  significato  letterario  e  in  quello  figu- 
ratwo,  e  anche  in  quello  matematico  e  fisico:  essa  fa  palese,  manifesta  e  intel¬ 
ligibile  la  Rivoluzione,  al  tempo  stesso  che  ne  dà  la  prova,  e  ne  prova  l’espe¬ 
rienza  conclusivamente,  per  calcolo  e  per  figura».  Sarfatti,  Architettura,  arte  e 
simbolo  cit. 


V.  I  templi  della  fede 


197 


successione  dei  temi  illustrati  nelle  sale  come  stazioni  liturgiche 
di  una  «storia  sacra»  narrante  l’origine  e  l’avvento  della  religio¬ 
ne  fascista,  progressivamente  rivelata  attraverso  gli  atti  e  le  pa¬ 
role  del  suo  profeta,  messia  e  fondatore^**.  La  vigilia  dell’inter¬ 
vento  era  rappresentata  nelle  prime  due  sale  come  l’annuncio  del¬ 
la  nuova  fede  da  parte  di  Mussolini  in  un’Italia  di  «atavismi  po¬ 
litici  incapaci  di  rinnovamento,  economia  senza  principii,  stato 
senza  autorità,  arte  senza  espressione,  opinione  pubblica  senza 
capi,  partiti  senza  ideali»^^.  L’ambiente  era  dominato  da  un  mo¬ 
numentale  fascio  di  colore  rosso  (riferito  alla  adunata  dei  Fasci 
di  azione  rivoluzionaria  del  gennaio  1915),  simbolo  che,  in  figu¬ 
razioni  estetiche  diverse,  accompagnava  il  visitatore  lungo  tutto 
il  percorso;  su  un  pilastro  troneggiava  l’altorilievo  della  testa  di 
Mussolini,  opera  dello  scultore  RambeUi,  che  lo  raffigurava,  in 
un  rude  e  severo  modellato,  come  «un  asceta  combattivo»^’^.  In¬ 
combeva,  inoltre,  una  gigantesca  riproduzione  del  primo  nume¬ 
ro  del  «Popolo  d’Italia»,  giornale  che  assumeva,  nello  svolgi¬ 
mento  dell’intera  mostra,  la  funzione  simbolica  del  vangelo  del¬ 
la  nuova  fede*^^.  Seguivano  poi  le  sale  dedicate  alla  guerra,  rap¬ 
presentata  nel  suo  aspetto  «creativo  ed  eroico»,  di  grande  even¬ 
to  sacrificale  e  purificatore,  che  ridiede  vigore  alle  «forze  più  po¬ 
tenti  del  Risorgimento»^*,  e  fece  scaturire  «il  miracolo  unico, 
preciso,  incomparabile,  definitivo»  del  fascismo^’^.  In  un  am¬ 
biente  «maestoso  e  solenne,  come  di  un  tempio,  come  di  un  sa¬ 
crario»,  «disadorno  e  nudo  come  un  Pantheon»,  si  stagliavano 
una  immagine  massiccia  e  imperiosa  del  re  soldato,  anche  questa 
opera  di  Rambelli,  e  un  grande  bassorilievo  raffigurante  l’Italia 
alata  e  armata,  opera  di  Marino  Marini,  che  nelle  sue  forme  ru¬ 
di  e  arcaicizzanti  evocava  «una  razza  che  anela  il  futuro  senza  tra¬ 
dire  le  origini  [,..]  civiltà  millenaria,  che  ricongiunge  l’antico  al- 

^  Sul  carattere  cultuale  della  mostra,  si  vedano  le  osservazioni  di  Andreotti, 
The  Aesthetics  ofWar  cit.,  che  per  primo  ha  messo  in  risalto  questo  aspetto  im¬ 
portante,  senza  ricollegarlo  però  al  problema  più  generale  del  fascismo  come 
religione  politica. 

PNF,  Mostra  della  rivoluzione  fascista  cit.,  p.  78. 

“  Ivi,  p.  92. 

Ivi,  pp.  72-83. 

Ivi,  p.  93. 

Ivi,  p.  73. 


198 


Il  culto  del  littorio 


l’attuale  e  tende  a  perpetuarsi  con  volontà  di  potenza  e  libertà  di 
armonia»^^.  Nelle  sale  dedicate  al  1919  e  al  1920,  sullo  sfondo 
dell’immagine  dell’Italia  del  dopoguerra  in  preda  al  disordine  e 
al  caos,  nel  netto  contrasto  cromatico  del  nero  e  del  rosso,  era 
narrata  l’azione  eroica  del  manipolo  dei  primi  fascisti  guidati  dal 
loro  capo,  che  lottavano  per  difendere  la  vittoria  e  per  riaffer¬ 
mare  la  sacralità  della  patria  contro  gli  assalti  del  bolscevismo.  La 
«bestia  ritornante»,  come  l’aveva  definita  Mussolini,  era  raffigu¬ 
rata  nelle  sembianze  di  un  mostruoso  antropoide  ammantato  di 
rosso,  con  un  berretto  frigio  che  calpesta  «sotto  le  sue  zampe  con¬ 
torte  il  sacrificio  della  guerra  e  della  Vittoria»,  affiancato  dalla  fo¬ 
to  di  una  «grande  testa  dal  ghigno  ebete,  soffocata  quasi  da  una 
bandiera  rossa  che  la  stringe  alla  gola»  simbolizzante  la  massa  in 
preda  air«ubriacatura  bolscevica»"^ h  Le  sale  del  1921  e  del  1922 
illustravano  l’ascesa  del  fascismo  e  la  sua  marcia  trionfale  fino  al¬ 
la  conquista  del  potere,  attraverso  una  scenografia  dal  ritmo  di¬ 
namico  e  travolgente,  in  cui  si  inseriva  una  doviziosa  raccolta  di 
documenti  e  di  simboli  dello  squadrismo,  di  vessilli  degli  avver¬ 
sari,  trofei  delle  spedizioni  punitive,  ma  soprattutto  ritratti,  ri¬ 
cordi  e  reliquie  dei  «martiri  fascisti»,  indumenti  o  bandiere  in¬ 
sanguinate,  che  conferivano  alla  rievocazione  dei  fatti  politici  il 
crisma  della  sacralità.  Lfna  «immensa  figurazione  simbolica»  in¬ 
vestita  da  una  luce  abbagliante,  opera  dell’architetto  Giuseppe 
Terragni,  composta  dall’immagine  di  un  tamburino  e  da  una  sel¬ 
va  di  mani  protese  nel  saluto  romano,  che  ascendevano  spinte  dal 
moto  di  tre  turbine  delineate  su  una  gigantografia  delle  «aduna¬ 
te»  fasciste,  rappresentava  «la  forza  e  la  volontà  del  popolo  -  di¬ 
sciplinate  dalla  Fede»  e  protese  alla  conquista  del  potere.  Un 
«senso  sacro  ed  eroico»  era  conferito  alla  composizione  da  un 
autografo  di  Mussolini,  dedicato  ad  un  caduto  fascista,  in  cui  era 
citato  un  verso  carducciano  («dà  co  ’l  sangue  alla  ruota  d  movi¬ 
mento»),  per  «significare  la  santità  del  martirologio  fascista  che 
ha  reso  possibile  e  fatale  il  trionfo  della  Rivoluzione»^^.  Nelle  sa¬ 
le  della  «marcia  su  Roma»,  tutte  pervase  dal  tricolore,  Sironi  ave¬ 
va  rievocato,  con  lo  stile  imponente  e  severo  del  suo  scarno  mo- 

Ivi,  p.  93. 

Ivi,  p.  118. 

72  Ivi,  p.  188. 


V.  I  templi  della  fede 


199 


numentalismo,  la  vittoria  del  fascismo  attraverso  fotografie  delle 
squadre  in  marcia  e  grandi  bassorilievi  raffiguranti  una  spada  ro¬ 
mana  che  infrangeva  una  catena,  un  profilo  di  aquila  in  volo,  due 
guerrieri  fascisti  che  innalzavano  le  insegne  romane  e,  a  conclu¬ 
sione  simbolica  della  marcia  trionfale,  l’arco  di  Vittorio  Veneto 
che  racchiudeva  «nella  sua  gloria  il  sorgere  del  Fascio,  esaltato- 
re  della  Patria  [...]  il  simbolo  romano  che  par  scolpito  nel  tra¬ 
vertino  si  aderge  all’arco  ricavato  in  mattoni  rossi  come  una  gran 
fiamma  viva»"^^. 

Dopo  aver  partecipato  alla  trasfigurazione  in  «leggenda  e  mi¬ 
to»  della  rivoluzione  fascista,  il  visitatore  passava  attraverso  l’e¬ 
sedra  del  Salone  d’onore,  ideato  e  realizzato  da  Sironi,  domina¬ 
to  dall’ altorilievo  di  un  Mussolini  soldato,  ed  entrava  in  un  am¬ 
biente  angusto,  in  cui  era  ricostruita  «la  cella  aspra  della  prima 
direzione  del  ‘Popolo  d’Italia’»^"*.  Poi,  dopo  aver  percorso  la  Gal¬ 
leria  dei  fasci,  ancora  opera  di  Sironi,  fiancheggiata  da  fde  di  ga¬ 
gliardetti  delle  squadre  e  da  poderosi  pilastri  a  forma  di  fascio, 
ciascuno  recante  la  data  di  un  anno  dal  1914  al  1922,  il  visitato¬ 
re,  attraverso  una  porta  sovrastata  dalla  statua  dell’Italia  che  re¬ 
cava  il  simbolo  del  fascio  e  la  stella  della  vittoria,  entrava  nella 
sala  dedicata  al  duce,  realizzata  da  Leo  Longanesi,  dove  era  nar¬ 
rata  sobriamente,  in  confronto  con  la  scenografia  clamorosa  del¬ 
le  altre  sale,  ma  con  intenti  egualmente  santificanti,  la  vita  di 
Mussolini. 

Si  compiva  in  questa  sala  la  trasfigurazione  mitica  della  figu¬ 
ra  di  Mussolini,  che  si  era  impossessata  del  visitatore  fin  dall’ini¬ 
zio.  L’epicizzazione  fascista  della  storia  italiana  aveva  attribuito 
al  suo  svolgimento  una  sorta  di  teleologico  destino  che  si  con¬ 
cludeva  con  l’avvento  di  Mussolini.  «Tutto  nasce  da  Lui.  Tutti  ri¬ 
corrono  a  Lui.  L’Italia  si  sveglia  ogni  mattina  con  Lui  [...]  Nella 
Sua  grande  vita  c’è  un  po’  quella  di  ogni  italiano»^^.  Tutti  i  per¬ 
sonaggi  della  storia  italiana  che  il  visitatore  aveva  incontrato  nel¬ 
le  sale  precedenti,  da  Garibaldi  a  Battisti,  a  D’Annunzio,  gli  era¬ 
no  stati  presentati  come  precursori,  profeti,  annunciatori  e  apo¬ 
stoli  del  verbo  mussoliniano,  inseriti  in  una  epopea  dominata  dal- 


7^  Ivi,  pp.  204-205. 
7-^  Ivi,  p.  215. 

75  Ivi,  p.  221. 


200 


Il  culto  del  littorio 


la  intuizione  divinatrice  di  Mussolini  «il  determinatore».  Gli 
eventi  rievocati  apparivano  come  una  emanazione  della  volontà 
creatrice  del  duce,  a  cui  tutto  il  simbolismo  della  mostra  confe¬ 
riva  la  mitica  sacralità  deir«unico  eroe  dei  nostri  tempi».  Come 
cimeli  d’una  vita  già  leggendaria,  nella  sala  erano  religiosamente 
offerti  alla  venerazione  del  visitatore  le  immagini  dei  genitori  del 
duce,  e  fotografie,,  documenti,  manoscritti  e  reliquie  dell’«eroe», 
come  la  barella  insanguinata  e  la  stampella  di  quando  fu  ferito  in 
guerra  o  il  fazzoletto  intriso  di  sangue  dell’attentato  del  7  aprile 
1926.' 

Ma  il  maggiore  effetto  di  sacralità  alla  sala  mussoliniana  era 
dato  dal  suo  essere  aula  d’accesso  all’«Altare  del  sacrificio  di  cen¬ 
tinaia  e  centinaia  di  Camicie  nere»^^.  Il  «Sacrario  dei  martiri»  era 
il  centro  mistico  della  mostra,  il  sancta  sanctorum  della  religione 
fascista,  che  attribuiva  «al  sacrificio  dei  Caduti  il  regno  più  alto 
che  lo  corona  di  immortalità  [...]  il  simbolo  sacro  della  capacità 
di  sacrificio  di  una  razza,  della  certezza  futura,  difesa  e  garantita 
dallo  spirito  invincibile  dei  Morti».  In  una  cripta  circolare  che 
terminava  con  una  grande  cupola,  affiancata  da  altre  due  cupo¬ 
le  minori,  da  cui  discendeva  una  luce  azzurra,  gli  architetti  Adal¬ 
berto  Libera  e  Antonio  Valente  (ma  lo  stesso  Mussolini  ebbe  par¬ 
te  precipua  nel  disegno  finale  della  sala^^)  avevano  realizzato  la 
visualizzazione  simbolica  del  rito  fascista  dell’appello  in  memo¬ 
ria  dei  martiri: 

Da  un  piedistallo  color  rosso-sangue  sorge  una  Croce  metallica, 
che  una  luce  misteriosa  quasi  sospende  nell’atmosfera  conclusa  della 
cripta.  Sulla  Croce,  simbolo  del  sacrificio  e  della  fede,  Croce  guer¬ 
riera  nella  sua  struttura  metallica,  appaiono  i  termini  del  rito:  l’ap¬ 
pello.  Una  scritta  rammenta  la  ragione  suprema  del  sacrificio:  «Per  la 
Patria  immortale».  Alla  tacita  evocazione  dei  vivi,  ecco,  nell’atmosfe¬ 
ra  azzurro-cupa  del  Sacrario,  i  Martiri  rispondere  «Presente».  Sono 

76  Ivi,  p.  227. 

77  Cfr.  A.  Monti,  Rapsodia  Eroica:  dall’Intervento  all’Impero,  Milano  1937; 
cfr.  Andreotti,  The  Aesthetics  ofWar  cit.,  p.  86,  n.  19.  In  un  primo  progetto 
per  il  sacrario  era  prevista  una  composizione  scultorea  con  un  corpo  nudo  che 
teneva  in  alto  con  le  braccia  un  fascio  orizzontalmente  e,  ai  suoi  piedi,  il  cor¬ 
po  di  un  caduto;  per  decisione  di  Mussolini,  fu  invece  adottato  il  simbolo  del¬ 
la  croce.  La  riproduzione  dei  primi  progetti  per  il  sacrario  è  neir«Illustrazio- 
ne  italiana»,  29  ottobre  1933,  p.  640. 


V.  I  templi  della  fede 


201 


mille  e  mille  voci,  rapprese  nel  chiarore  della  luce  che  ripete  infinita¬ 
mente  la  parola  di  coloro  che  gettarono  la  vita  al  di  là  della  meta  ed 
ora  guidano  il  cammino  delle  legioni  instancabili. 

Lungo  le  pareti,  in  basso,  disposti  come  battaglioni  in  marcia,  ec¬ 
co  i  gagliardetti  delle  squadre  d’azione.  Ognuno  porta  U  nome  d’un 
Caduto.  Per  ogni  vuoto  che  la  barbarie  nemica  apriva  nelle  file  delle 
Camicie  Nere,  si  formava  un  manipolo  nuovo,  che  sul  simbolo  della 
fede  imprimeva  il  nome  del  Martire,  presente  fra  i  vivi  col  suo  spiri¬ 
to  esemplare  e  incitatore. 

Nell’atmosfera  irreale  del  Sacrario  s’ode,  come  giungente  da  lonta¬ 
nanze  misteriose,  il  canto  della  Rivoluzione.  Un  Milite  vigila  immobile.78 

Nell’uscita  dal  sacrario,  d  visitatore,  dovendo  ripercorrere  la 
sala  mussoliniana,  era  indotto  a  reiterare  così  immediatamente 
l’impressione  della  mistica  unione  fra  il  duce  e  i  martiri,  supremi 
abitatori  dell’empireo  fascista.  Lasciata  quindi  l’aura  mistica  del¬ 
l’epopea,  la  visita  proseguiva  al  piano  superiore  dove,  in  un’atmo¬ 
sfera  più  calma  dopo  le  emozioni  suscitate  dalle  tumultuose  sale 
della  rivoluzione,  e  più  consona  allo  spirito  disciplinato  dell’ordi¬ 
ne  costruttivo  del  regime,  erano  illustrate  sinteticamente,  con  qua¬ 
dri  didattici,  le  organizzazioni  e  le  realizzazioni  del  fascismo. 


7«  PNF,  Mostra  della  rivoluzione  fascista  cit.,  pp.  227-229.  In  un  primo  mo¬ 
mento,  era  stata  prevista  nella  mostra  anche  una  sala  dedicata  al  PNF,  come 
risulta  da  un  progetto  di  massima  presentato  dal  pittore  Orazio  Amato.  Que¬ 
sta  sala  «spogliata  di  tutta  la  parte  drammatica»  era  ispirata  dall’«esaltazione 
del  GIURAMENTO,  in  cui  è  compendiato  lo  spirito  del  Partito»;  nel  suo  al¬ 
lestimento  ritroviamo  sintetizzata  tutta  la  simbologia  della  mostra,  con  effetti 
scenografici  in  parte  simili  a  quelli  realizzati  nel  «sacrario»: 

«Quattro  forti  colonne  littorie  (che,  ove  nella  realizzazione  fosse  possibile, 
potrebbero  diventare  quattro  fasci-cariatidi)  sostengono  la  trabeazione  di  una 
cupola.  Nell’interno  del  tamburo  di  essa  corre  inciso  in  grandi  caratteri  augu- 
stei  il  testo  del  Giuramento.  Alla  terminazione  di  ogni  singola  colonna  è  inci¬ 
sa  una  delle  quattro  parole:  FEDE,  CORAGGIO,  LABORIOSITÀ,  ONESTÀ, 
che  sono  le  virtù  fondamentali  del  fascista  secondo  lo  Statuto. 

Il  Duce  non  è  qui  presente  con  la  sua  effigie,  ma  il  suo  spirito  arde  ed  in¬ 
veste  tutto;  fra  le  quattro  colonne  si  eleva  una  forma  poligonale  (più  alta  del¬ 
l’altezza  normale  di  un  uomo)  di  vetro  opalescente  dalla  quale  parte  un  fascio 
di  luce  (specchio  parabolico)  verso  la  cupola,  che  ne  riflette  i  raggi  sul  pavi¬ 
mento,  creando  in  una  atmosfera  luminosa  la  suggestione  mitica  dello  spirito 
di  Benito  Mussolini,  sintetizzato  nella  parola  ‘DUX’  posta  grande  in  materia 
luminescente  nel  centro  in  alto  del  poliedro»  (il  testo  del  progetto  è  conserva¬ 
to  in  ACS,  Alto  commissariato  per  le  sanzioni  contro  il  fascismo,  titolo  XVII, 
n.  10,  voi.  Ili,  fase.  «O.  Amato»). 


202 


Il  culto  del  littorio 


Pellegrinaggi  al  tempio 

Accolta,  anche  fuori  d’Italia,  da  giudizi  largamente  entusia¬ 
stici  per  la  sua  estetica,  la  mostra  fu  un  grande  successo  per  il  nu¬ 
mero  dei  visitatori,  tanto  che  la  chiusura,  prevista  per  il  21  apri¬ 
le  1933,  fu  prorogata  in  un  primo  momento  fino  all’ottobre,  e  poi 
ancora  fino  al  28  ottobre  dell’anno  successivo.  In  questi  due  an¬ 
ni  fu  visitata  da  3.854.927  persone,  anche  stranieri,  fra  i  quali  Le 
Corbusier,  André  Gide,  Maurice  Denis,  Paul  Valéry.  Il  grande  af¬ 
flusso  di  pubblico  fu  promosso  da  una  propaganda  intensa  e  ca¬ 
pillare  diffusa  in  tutto  il  paese,  predisposta  dal  partito  fascista  e 
continuamente  alimentata  dai  numerosi  commenti  entusiastici 
della  stampa  e  degli  stessi  visitatori.  Le  facilitazioni  per  i  prezzi 
del  viaggio,  l’occasione  per  visitare  la  capitale,  lo  zelo  di  dar  pro¬ 
va  della  propria  fede  fascista,  la  speranza  di  vedere  il  duce,  la  cu¬ 
riosità  suscitata  dalla  campagna  pubblicitaria  del  partito  e  dai 
racconti  dei  visitatori:  tutto  ciò  fece  moltiplicare  rapidamente  il 
numero  delle  visite  giornaliere,  individuali  e  soprattutto  di  grup¬ 
pi  organizzati  di  lavoratori,  insegnanti,  studenti,  militari,  profes¬ 
sionisti  etc.,  al  punto  che  il  partito  dovette  provvedere  a  regola¬ 
re,  per  scaglioni  di  non  più  di  cinquecento  persone,  l’afflusso  dei 
gruppi  nella  capitale,  previo  nulla  osta  delle  segreterie  federalF^. 
Ad  incrementare  il  numero  dei  visitatori  giovò  anche,  nel  1934, 
la  coincidenza  con  l’Anno  Santo,  che  indirettamente  forse  con¬ 
tribuì  ad  alimentare  l’aura  di  religiosità  che  i  realizzatori  aveva¬ 
no  voluto  conferire  alla  mostra  per  farne  opera  di  propaganda 
della  fede  fascista.  Ma  neppure  va  sottovalutato  l’entusiasmo  ge¬ 
nuino  che  mosse  soprattutto  i  fascisti,  eccitati  dal  clima  di  conti¬ 
nua  mobilitazione  delle  feste  e  dei  riti  del  Decennale,  a  visitare 
la  mostra  per  partecipare  alla  rievocazione  degli  avvenimenti  di 
cui  erano  stati  protagonisti  e  alla  autoglorificazione  nell’epopea. 
Nell’interno  dove,  secondo  un  visitatore  toscano,  la  gente  circo¬ 
lava  con  un  brusio  che  «faceva  pensare  a  una  cerimonia  solenne 
in  San  Pietro»*®,  si  subiva,  scriveva  un  visitatore  dalla  Sardegna, 

ACS,  PCM,  Gabinetto,  1931-1933,  fase.  14.1  n.  890,  circolare  n.  95  di 
Starace  ai  segretari  federali,  Roma  31  marzo  1933. 

e.a..  Suggestiva  potenza  evocatrice  della  Mostra  della  Rivoluzione  fascista, 
in  «Il  Telegrafo»,  5  dicembre  1933. 


V.  l  templi  della  fede 


203 


«la  superba  sensazione  che  comunica  l’ambiente  sacro  e  raccol¬ 
to»,  vivendo  «fra  i  ricordi  che  hanno  una  eloquenza  comunicati¬ 
va  e  travolgente  come  lo  sguardo  e  la  parola  del  DUCE»*h  «Tem¬ 
pio»  e  «altare»  sono  i  termini  più  ricorrenti  con  i  quali  veniva  de¬ 
scritta  la  mostra  nei  commenti  della  stampa  e  nelle  lettere  di  sem¬ 
plici  visitatori.  Concepita  come  «una  cattedrale  dove  le  mura  par¬ 
lano»,  scriveva  Margherita  Sarfatti,  la  mostra  per  la  «prima  vol¬ 
ta  nei  tempi  moderni  porta  un  fatto  della  storia  contemporanea 
nel  clima  ardente  delle  affermazioni  e  manifestazioni  religiose»*^. 
Secondo  un  altro  commentatore,  si  doveva  «alla  sincerità  della 
Fede  che  vi  si  attesta  e  vi  si  professa»,  e  al  modo  in  cui  gli  arte¬ 
fici  della  mostra  l’avevano  espressa,  se  «la  Mostra  è  divenuta  un 
Tempio,  se  il  Tempio  è  divenuto  un  Altare,  se  l’Altare  si  identi¬ 
fica  col  Rito»*^.  In  questo  clima  la  visita  alla  mostra  diventava  per 
i  fascisti  un  pellegrinaggio  nella  città  eterna,  per  rendere  «dove¬ 
roso  e  deferente  omaggio  al  tempio  della  nostra  Rivoluzione»,  co¬ 
me  scriveva  il  presidente  deU’ONB  di  Napoli*"^.  Qualcuno,  anzi, 
proponeva  che  la  visita  divenisse  obbligatoria  come  un  rito  pu- 
rificatorio  perché  «vi  sono  ancora  individui  che  si  dicono  di  col¬ 
tura  elevata  che  hanno  bisogno,  molto  bisogno,  d’andare  alla  Mo¬ 
stra  per  farsi  un  esame  di  coscenza  [sic!],  individui  che  vivono 
in  ambienti  che  solo  la  Generosità  Fascista  sa  tollerare  [...]  indi¬ 
vidui  che  sanno  fare  il  saluto  Romano  che  portano  poi  la  loro  ma¬ 
lignità  nell’ambiente  chiuso,  ossia  sono  dei  vili»*^.  Ci  furono  an¬ 
che  centinaia  di  «pellegrini»  i  quali  per  spirito  d’avventura,  slan¬ 
cio  sportivo,  curiosità,  esibizionismo  o  per  devozione  fascista, 
compirono  il  viaggio  a  Roma  a  piedi  o  in  bicicletta,  da  ogni  par¬ 
te  d’Italia  e  anche  dall’estero.  Qualcuno  di  questi  sostava  a  ve¬ 
nerare  anche  la  tomba  dei  genitori  del  duce  a  Predappio.  Un  mu- 


ACS,  PNF,  DN,  Servizi  Amministrativi,  sezione  II,  b.  331,  fase.  27,  «Ri¬ 
chieste  agevolazioni»,  lettera  di  S.F.  a  Achille  Starace,  Cagliari  11  ottobre  1933. 

Sarfatti,  Architettura,  arte  e  simbolo  cit.,  p.  10. 

F.  Gargano,  Italiani  e  stranieri  alla  Mostra  della  Rivoluzione  fascista,  To¬ 
rino  1935,  p.  716.  Il  volume  è  una  ricostruzione  cronologica,  in  stile  iperboli¬ 
co,  delle  visite  quotidiane  alla  mostra,  con  l’elenco  dei  visitatori,  individui  o 
gruppi,  e  con  una  descrizione  delle  manifestazioni  legate  alla  mostra,  dalla  inau¬ 
gurazione  fino  alla  chiusura. 

^  ACS,  PNF,  DN,  Servizi  Vari,  sezione  II,  b.  332,  fase.  «Richieste  agevo¬ 
lazioni  varie»,  lettera  del  2  dicembre  1932  a  G.  Marinelli. 

Ivi,  lettera  di  E.S.  a  Marinelli,  Venezia  30  aprile  1933. 


204 


Il  culto  del  littorio 


tilato  di  una  gamba  andò  in  bicicletta  da  Brescia,  alcuni  militi 
della  Croce  rossa  andarono  a  piedi  da  Santa  Margherita  Ligure 
trainando  un  carro  lettino.  Una  giovane  fascista  romagnola, 
sprovvista  dei  soldi  per  il  viaggio,  era  andata  da  Cesenatico  a  Ro¬ 
ma  in  bicicletta^^. 

La  mostra  ebbe  particolare  importanza  nel  culto  del  littorio 
non  solo  come  drammatizzazione  mitica  della  rivoluzione  ma  an¬ 
che  perché  fu  loccasione  per  lo  svolgimento  di  uno  speciale,  an¬ 
che  se  effimero,  rituale,  dando  così  vita  ad  uno  straordinario 
evento  cultuale,  che  ebbe  come  «spazio  sacro»  la  mostra  stessa, 
e  per  protagonista  una  massa  liturgica  composta  dalla  folla  dei 
visitatori,  dai  gruppi  che  si  avvicendarono  nel  cambio  della  guar¬ 
dia  d’onore,  dal  pubblico  che  assisteva  ai  riti  che  si  svolgevano 
davanti  aU’ingresso,  fra  marce,  canti,  musiche  e  grida  inneggian¬ 
ti  al  duce  e  al  fascismo.  Il  compilatore  della  cronistoria  della  mo¬ 
stra,  testimone  oculare  in  quanto  comandante  del  reparto  spe¬ 
ciale  della  MVSN  in  servizio  presso  la  mostra  stessa,  raffigurò  in 
impressionistiche  immagini  il  movimento  di  folla;  «Folle  di  po¬ 
polo  convergente  a  queste  soglie,  silenziose  scolte  d’onore,  fasci 
ferrigni,  raggio  colore  di  passione;  di  quando  in  quando,  dalle 
masse  salienti  senza  posa,  l’elevarsi  di  un  coro,  suono  di  fanfare, 
labari,  gagliardetti,  bandiere;  saluti  al  DUCE,  pieni  e  frequenti; 
tutto  un  susseguirsi  di  riti,  tutto  un  ritmo  di  simboli»»^  La  litur¬ 
gia  della  mostra,  come  potremmo  definirla,  iniziò  col  rito  della 
cerimonia  inaugurale,  cui  parteciparono  Mussolini  e  le  supreme 
gerarchie  del  regime,  davanti  ad  una  vasta  folla  di  spettatori.  Il 
duce  fu  accolto  al  canto  dell’inno  fascista  da  un  reparto  della  Mi¬ 
lizia  con  musica,  dai  Moschettieri  e  da  180  consoli  della  MVSN 
schierati  con  i  labari  delle  legioni,  i  Quadrumviri  e  il  direttorio 
nazionale  del  PNF.  All’entrata,  dinnanzi  alla  formula  del  giura¬ 
mento,  lo  attendeva  un  reparto  di  Avanguardisti  irrigidito  sul- 
1  attenti  insieme  agli  orfani  dei  caduti  fascisti.  Un  giovane  compì 
il  rito  del  giuramento,  recitando  la  formula  e  rivolgendo  la  tra¬ 
dizionale  domanda  «Lo  giurate  voi?»,  a  cui  il  reparto  rispose  ad 

Si  veda  la  documentazione  sui  visitatori  in  ACS,  PNF,  DN,  Servizi  Va¬ 
ri,  sezione  II,  b.  332,  fase.  «Richieste  agevolazioni  varie»,  e  in  Gargano,  Italia¬ 
ni  e  stranieri  cit.,  passim. 

Gargano,  Italiani  e  stranieri  cit.,  p.  695. 


Fig.  13.  Sfilata  degli  avanguardisti  del  campo  Dux  davanti  alla  Mo¬ 
stra  della  Rivoluzione  fascista,  il  12  settembre  1933  («L’Illustrazione 
italiana»,  17  settembre  1933). 


206 


Il  culto  del  littorio 


alta  voce  «Lo  giuro».  Dopo  aver  percorso  le  sale  accompagnato 
dal  seguito,  come  in  processione,  Mussolini  rivolse  brevi  parole 
di  elogio  agli  organizzatori,  si  soffermò  davanti  alle  reliquie  dei 
caduti  fascisti,  e  rese  omaggio  in  raccolto  silenzio,  sull’attenti,  al 
sacrario  dei  martiri^^.  Nei  due  anni  di  apertura,  davanti  all’in¬ 
gresso  si  ripetè  più  volte  al  giorno,  quotidianamente,  il  rito  del 
cambio  della  guardia,  che  venne  svolto  non  solo  dalla  Milizia,  ma 
anche  dai  rappresentanti  delle  famiglie  dei  caduti,  dei  mutilati, 
dei  combattenti,  dei  «sansepolcristi»,  delle  categorie  produttrici 
e  professionali:  in  tal  modo,  commentava  ancora  il  citato  croni¬ 
sta  ufficiale,  si  manifestava  «attraverso  un  atto  profondamente 
simbolico,  la  più  stretta  aderenza  spirituale  fra  il  cittadino  e  il  fa¬ 
scismo,  fra  il  cittadino  e  il  suo  governo,  fra  l’italiano  e  la  coscienza 
del  suo  bene  e  di  quello  della  Patria»^*^. 

Questa  liturgia  era  una  «seconda  vita  della  Mostra  [...]  vita  su¬ 
blimata  nel  simbolo  e  nel  rito  di  questi  cambi  di  guardia,  ove  cia¬ 
scuno  si  appresta  come  ad  una  nuova  prova  di  fede  e  di  venera¬ 
zione  per  i  Martiri  e  per  la  Causa  che  essi  materiarono  di  santità»^®. 
Con  rituale  ancor  più  solenne  della  cerimonia  inaugurale  fu  cele¬ 
brata,  davanti  alla  folla,  la  chiusura  della  mostra  il  28  ottobre  1934. 
Le  cerimonie  iniziarono  la  mattina,  quando  furono  innalzati  su 
due  fasci  della  facciata  la  bandiera  tricolore  e  il  drappo  nero  del  fa¬ 
scismo.  Durante  il  giorno  si  avvicendarono  nel  servizio  di  guardia 
d’onore  i  «sansepolcristi»,  gli  organizzatori  e  i  realizzatori  della 
mostra,  gli  accademici  d’Italia,  i  membri  del  governo,  il  direttorio 
del  partito  fascista.  La  sera,  accompagnato  dal  segretario  del  PNF, 
giunse  Mussolini,  che  negli  ultimi  giorni  era  tornato  già  a  visitare 
la  mostra.  Seguito  dai  membri  del  governo,  del  Gran  Consiglio  e 
del  direttorio,  il  duce  si  recò  al  sacrario,  dove,  accanto  alla  croce, 
era  stato  collocato  anche  il  labaro  del  partito,  e  rese  il  saluto  ro¬ 
mano  rimanendo  per  qualche  minuto  sull’attenti.  All’uscita,  pre¬ 
ceduto  dal  labaro  del  partito  scortato  dai  «sansepolcristi»,  appar¬ 
ve  alla  folla  dall’alto  della  scalinata,  mentre  i  riflettori  illuminava¬ 
no  i  fasci  littori.  Nel  silenzio,  Starace  lanciò  il  «saluto  al  duce»,  cui 


La  cerimonia  inaugurale,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  30  ottobre  1932.  An- 
dreotti  ha  paragonato  le  fasi  della  cerimonia  al  rituale  di  una  messa,  cfr.  The 
Aesthetics  ofWar  cit.,  pp.  76-77. 

Gargano,  Italiani  e  stranieri  cit.,  p.  266. 

Ivi,  p.  673. 


V.  1  templi  della  fede 


207 


la  folla  e  le  forze  fasciste  risposero  col  rituale  «a  noi!».  Subito  do¬ 
po,  un  balilla  si  avvicinò  al  duce  e,  dopo  il  saluto  romano,  pro¬ 
nunciò  la  formula  del  giuramento,  cui  risposero  ancora  i  fascisti  e 
la  folla.  Starace  dichiarò  quindi  che  la  mostra  era  chiusa,  ordinan¬ 
do  la  ritirata  della  guardia  d’onore.  Dopo  l’ammaina-bandiera,  se¬ 
guito  da  squilli  di  tromba  e  varie  scariche  di  moschetti,  il  canto  de¬ 
gli  inni  patriottici  e  fascisti  da  parte  dei  cori  di  fanciulli  romani  e 
della  folla  concluse  l’evento  cultuale  della  mostra  con  il  saluto  al 
duce,  fra  multicolori  luci  di  fiaccole  e  bengala^b 

Secondo  l’interpretazione  simbolico-liturgica  fatta  dalla  pub¬ 
blicistica  del  regime,  la  mostra  era  stata  l’esaltazione  epica  della 
rivoluzione  fascista,  celebrata  dal  popolo  italiano,  attraverso  i  vi¬ 
sitatori,  in  un  corale  atto  di  devozione.  «L’idea  che  ha  retto  e  ani¬ 
mato  questa  mole  grandiosa  -  scriveva  il  pittore  Usellini  -  e  la 
rende  viva  nella  storia  passata  e  presente,  è  il  concetto  di  unità 
spirituale  degli  italiani,  il  suo  cammino  e  la  sua  penetrazione  da 
un  uomo  a  una  minoranza  a  tutto  un  popolo  e  al  suo  avvenire. 
È  l’idea  dell’Italiano  moderno,  della  civiltà  Italiana  moderna  che, 
sostituitasi  agli  antagonismi  e  alle  negazioni  deH’ieri,  si  afferma  e 
si  attua  come  nuovo  equilibrio  morale  e  politico»^^.  Al  di  là  del¬ 
le  questioni  estetiche,  i  commentatori  misero  in  risalto  il  caratte¬ 
re  pedagogico  e  «popolare»  che  la  mostra  aveva  avuto,  offrendo 
al  pubblico  una  rappresentazione  vivificata  dal  «misterioso  sof¬ 
fio»  di  «un’anima  in  continuo  contatto  con  l’anima  del  visitato¬ 
re»^^.  In  senso  sironiano,  la  mostra  era  stata  una  celebrazione  del 
«vivere  comune»  compiuta  dall’artista  e  dal  popolo.  Le  centinaia 
di  migliaia  di  visitatori,  uomini,  donne,  bambini,  rappresentanti 
d’ogni  ceto  sociale,  categoria  e  professione  furono  viste  come 
simbolo  vivente  deir«armonico  collettivo»,  che  con  questo  pel¬ 
legrinaggio  aveva  testimoniato  la  sua  fede  fascista.  La  folla  era 
stata  parte  integrante  della  liturgia  della  mostra;  «Tra  la  Mostra 
della  Rivoluzione  e  il  Popolo  -  scriveva  il  più  iperbolico  fra  gli 
esegeti  del  suo  significato  simbolico  ed  epico^'^  -  si  è  stabilita, 

9»  Cfr.  ivi,  pp.  715-723. 

G.  Usellini,  La  Mostra  della  Rivoluzione  Fascista,  in  «Emporium»,  apri¬ 
le  1932,  pp.  199-249. 

R.  Pacini,  Il  valore  educativo  e  patriottico  della  mostra,  ivi,  aprile  1933, 
pp.  251-256. 

Dinaie,  La  rivoluzione  che  vince  cit.,  p.  204. 


208 


Il  culto  del  littorio 


oramai,  una  corrente  ad  alta  tensione,  alimentata  da  una  forza 
non  ben  definibile,  che  è  ed  appare,  in  tutte  le  sue  manifestazio¬ 
ni  di  individui  e  di  folla,  misteriosa,  mitica,  religiosa.  È,  senza 
dubbio,  il  fenomeno  psicologico  collettivo  più  interessante  del 
secolo».  Con  toni  più  pacati,  ma  con  lo  stesso  entusiastico  «sen¬ 
so  della  comunità».  Bottai  esaltava  la  mostra  come  la  più  sugge¬ 
stiva  fra  le  manifestazioni  celebrative  e  le  grandi  adunate  del  De¬ 
cennale,  durante  le  quali  si  era  vista  la  mistica  unità  del  capo  con 
le  «mareggianti  moltitudini  [...]  corpi  con  un  solo  respiro»  in  cui 
r«idea  s’è  fatta  carne»^^. 

Sull’onda  delle  emozioni  e  dell’entusiasmo  suscitati  dal  succes¬ 
so  della  mostra,  i  fascisti  rivolsero  appelli  per  rendere  permanente 
«come  una  basilica  la  MOSTRA  della  nostra  VITTORIA»^^: 

Pellegrini  di  amore  e  di  fede,  a  ogni  viaggio,  a  ogni  richiamo  di 
ROMA  IMPERIALE,  noi  si  visiterebbe  sempre  con  curiosità  nuova, 
con  passione  nuova  il  reliquiario  della  nostra  lotta  e  come  nelle  chie¬ 
se,  il  cuore  nostro  di  fedeli  e  di  fascisti,  sorgerebbe  ogni  volta  più  li¬ 
bero  di  affanni,  più  carico  di  speranza,  più  bello  per  i  sacrifizi  che  ci 
saranno  comandati. 

Se  il  DUCE  vuole,  se  la  Eccellenza  Vostra  lo  chiede  la  MOSTRA  del¬ 
la  RIVOLUZIONE  sarà  il  nostro  Tempio  aperto  ogni  ora,  vigilato  da 
Camicie  Nere  e  sempre  accogliente  come  un  rifugio  di  calda  passione, 
tutti  coloro  che  hanno  creduto,  credono  e  fermamente  crederanno  nel 
DUCE  e  crederanno  domani  nel  nostro  fatale  avvenire  imperiale. 


G.  Bottai,  Vedere  il  Fascismo,  in  «Critica  fascista»,  T  novembre  1932. 

ACS,  PNF,  DN,  Servizi  Vari,  sezione  II,  b.  331,  fase.  27,  lettera  di  S.F. 
a  Achille  Starace  cit.  «Anziché  chiudere,  per  quando  è  stato  deciso  dall’E.V.  - 
scriveva  un  fascista  fiorentino  a  Mussolini  -  la  ‘Mostra  della  Rivoluzione’,  che 
tante  ineffabili  emozioni  ha  suscitato,  che  con  tanti  ricordi  commoventi  ha  esal¬ 
tato,  infiammato  l’animo  degli  innumerevoli  visitatori,  non  riterrebbe,  molto 
rispettosamente,  l’E.V.  disporre  che  la  ‘Mostra  della  Rivoluzione  Fascista’  ri¬ 
manesse  aperta  permanentemente?  [...]  che,  cioè,  divenisse  il  Sacrario  del  Fa¬ 
scismo,  via  via  arricchendosi  di  tutto  quanto  è  e  sarà  conseguenza,  scopo,  fi¬ 
nalità  della  Rivoluzione  Fascista!  [...]  Sarebbe  nella  Roma  eterna  la  storia  do¬ 
cumentata  di  quella  Santa  Rivoluzione  che  Voi  voleste,  che  guidaste  e  che  da 
Voi  animata  colla  più  fervida  passione,  col  più  intenso  amor  di  Patria  ha  pro¬ 
dotto,  produce  e  produrrà  resultati  tangibili  che  fanno  e  faranno  sempre  più 
apprezzata,  temuta,  rispettata  la  Patria  nostra  amatissima  quale  Voi,  Duce,  la 
volete  e  quale  sarà!  [...]  Così  le  generazioni  attuali  e  future  avrebbero  sempre 
presenti  tutte  le  fasi,  anche  cruente,  della  Rivoluzione  Fascista  esempio,  moni¬ 
to  ed  incitamento  perenne!»  (ivi,  lettera  di  R.M.,  Firenze  9  ottobre  1933). 


V.  1  templi  della  fede 


209 


Uno  degli  organizzatori  rilanciò  la  proposta,  sostenendo  che 
«la  fede  di  tutti  e  di  ognuno  ha  costruito  qualche  cosa  che  non 
dovrebbe  più  essere  demolito,  per  poter  servire  alle  generazioni 
future  come  luogo  sacro  ove  raccogliersi  ad  alimentare  la  propria 
fede,  a  formare  la  propria  coscienza»  e  in  questo  modo  il  parti¬ 
to  avrebbe  «compiuta  una  gigantesca  opera  permanente  ai  fini 
della  propaganda  fascista  fra  gli  italiani  e  nel  mondo»^"^.  In  realtà, 
ancor  prima  della  conclusione.  Mussolini  aveva  già  deciso  che  la 
mostra  avrebbe  assunto  carattere  stabile,  preannunciando  «che 
la  sede  permanente  del  futuro  Musco  della  Rivoluzione  Fascista 
dovrà  sorgere  sulla  via  dell’Impero  con  ‘una  costruzione  moder¬ 
namente  monumentale’»^^. 


Eternare  il  «tempo  di  Mussolini» 

Come  tutte  le  religioni  secolari,  anche  la  religione  fascista  vo¬ 
leva  affidare  a  monumenti  e  templi  duraturi  l’esaltazione  della 
sua  fede  e  lasciare  nei  secoli  l’impronta  della  sua  civiltà.  Il  fasci¬ 
smo  fu  posseduto  da  una  vera  e  propria  mania  per  la  monu- 
mentalità,  concepita  come  materializzazione  del  mito,  a  perenne 
glorificazione  della  sua  religione,  e  affidò  agli  architetti  il  compi¬ 
to  di  costruire  i  suoi  luoghi  di  culto,  come  le  Case  del  Fascio,  e 
gli  edifici  monumentali  destinati  a  perpetuare  la  gloria  di  Mus¬ 
solini  e  del  fascismo.  E  improbabile  però  che  il  senso  monu¬ 
mentale  del  fascismo  sia  stato  ispirato  dal  fascino  romantico  del¬ 
le  rovine,  che,  secondo  la  testimonianza  di  Albert  Speer,  aveva 
ispirato  le  visioni  monumentali  del  capo  nazista,  il  quale  imma¬ 
ginava  l’effetto  che,  al  pari  dei  monumenti  greci  e  romani,  avreb¬ 
bero  fatto  su  remote  generazioni  future  le  reliquie  dei  monumenti 
nazistF^.  Nel  vitalismo  fascista,  la  monumentalità  era  esaltata  co- 


A.  Melchiori,  Una  grande  opera  di  fede,  in  «L’IUustrazione  italiana»,  29 
ottobre  1933. 

98  pjqp^  Mostra  della  rivoluzione  fascista  cit.,  p.  66.  Una  nuova  edizione  del¬ 
la  Mostra  fu  riaperta  il  23  settembre  1937,  e  una  terza  il  28  ottobre  1942,  ma 
l’una  e  l’altra  erano  divenute  ormai  musei  privi  del  dinamismo  e  del  misticismo 
della  prima  edizione. 

Cfr.  A.  Speer,  Memorie  del  Terzo  Reich,  trad.  it.  di  E.  e  Q.  Maffi,  Mila¬ 
no  1969,  pp.  77-78.  Cfr.,  sul  culto  delle  rovine,  le  osservazioni  di  N.  Zapponi, 


Fig.  14.  La  riapertura  della  Mostra  della  Rivoluzione  fascista  a  Valle 
Giulia  nel  1937  («La  Rivista  illustrata  del  Popolo  d’Italia»,  ottobre 
1937). 


V.  1  templi  della  fede 


211 


me  momento  della  «lotta  grandiosa  fra  l’energia  creatrice  dello 
spirito  e  la  sorda  necessità  della  natura».  In  questa  lotta  r«arte 
costruttiva»  rappresentava  «la  più  sublime  e  diretta  vittoria  del¬ 
lo  spirito  sulla  natura»,  anche  se  la  natura  sembrava  periodica¬ 
mente  ottenere  la  vittoria  sulle  rovine  monumentali.  Ma  anche  in 
questo  caso,  lo  spirito  riprendeva  il  sopravvento  perché  «l’attra¬ 
zione  estetica  delle  rovine  monumentali,  dando  la  viva  intuizio¬ 
ne  del  tempo  che  s’infutura  e  dell’organica  continuità  della  sto¬ 
ria»,  era  incitamento  ad  operare  per  una  «nuova  grandezza  del¬ 
la  Patria  risorta»^®®.  Mussolini  stesso  chiariva  il  significato  della 
monumentalità  come  parte  integrante  del  culto  del  littorio  quan¬ 
do  affermava  che  i  monumenti  «se  non  sono  scaldati  dal  cuore 
palpitante  del  popolo,  sono  pietre  di  sepolcro,  fredde,  nude,  ste¬ 
rili.  Bisogna  che  attorno  a  questi  simboli  della  nostra  ricordanza 
perenne  sia  sempre  presente  la  nostra  fede,  sempre  siano  sicuri 
e  fermissimi  i  nostri  propositi»*'’*.  Occorreva  creare  uno  scena¬ 
rio  stabile  per  la  celebrazione  del  culto  del  littorio  e  le  cerimonie 
del  regime,  per  non  dover  occasionalmente  avvalersi  delle  «ridi¬ 
cole  truccature  di  strade  anche  di  recente  costruzione,  cui  sono 
dovuti  ricorrere  i  decoratori  dell’Urbe»  in  occasione  della  visita 
del  Fuhrer  nel  1938*°^. 

La  monumentalità  fascista,  affermava  Sirqni,  è  «la  voce  del 
Capo  al  di  sopra  della  voce  delle  moltitudini.  E  l’espressione  del¬ 
la  Fede  in  contrapposto  al  gesto  dell’interesse  e  intende  dare  un 
volto,  una  sensazione  visibile  e  chiara  di  quella  Fede,  della  sua 
forza,  della  sua  misura,  della  sua  potenza»***^.  Sironi  pensava  ad 
uno  stile  monumentale  che  fosse  la  «espressione  architettonica 
della  società  fascista,  dello  Stato,  della  Religione,  del  Comando, 
dei  simboli  dominanti  [...]  per  racchiudere  in  una  grande  unità  i 
caratteri  della  nostra  civiltà»*'*'*.  Mussolini  stesso  ostentava  la  sua 

Futurismo  e  fascismo,  in  R.  De  Felice  (a  cura  di).  Futurismo,  cultura  e  politica, 
Torino  1988,  pp.  172-173. 

A.  ChiappeUi,  Il  fascismo  e  la  suggestione  delle  rovine  monumentali,  in 
«Educazione  fascista»,  20  aprile  1931. 

Cit.  in  O.  Dinaie,  Tempo  di  Mussolini,  Roma  1934,  p.  215. 

F.  Ciarlantini,  E  '42,  in  «Augustea»,  15  agosto  1938. 

M.  Sironi,  Monumentalità  fascista,  in  «La  Rivista  illustrata  del  Popolo 
d’Italia»,  novembre  1934,  riprodotto  in  Sironi,  Scritti  cìx..,  pp.  181-185. 

Id.,  Templi,  in  «La  Rivista  illustrata  del  Popolo  d’Italia»,  dicembre  1935, 
riportato  ivi,  pp.  206-209. 


212 


Il  culto  del  littorio 


passione  per  Tarchitettura,  che  egli  considerava  la  «massima  fra 
tutte  le  arti  [...]  perché  comprende  tutto»^®^. 

Anche  in  questo  campo,  la  polemica  fra  classicisti  e  moder¬ 
nisti  si  presentava  come  una  competizione  per  conquistare  il  pri¬ 
vilegio  di  definire  lo  stile  fascista  meglio  adeguato  ad  immortala¬ 
re  il  culto  del  littorio  e  «fermare  con  la  consistenza  della  pietra, 
del  cemento,  dell’acciaio  e  dei  più  nobili  e  durevoli  elementi  del¬ 
la  natura,  con  il  soffio  dell’arte,  l’orma  gigantesca  di  Mussolini, 
affinché  i  posteri  ne  abbiano  stupore»^®^.  Per  esempio,  un  ideo¬ 
logo  ufficiale  del  PNF,  contrario  al  razionalismo  architettonico, 
sosteneva  che  la  civiltà  fascista  doveva  preferire  una  «architettu¬ 
ra  della  ‘durata’»,  in  cui  prevalga  la  pietra  e  il  richiamo  alla  «fun¬ 
zione  monumentale»  degli  edifici  pubblici,  «al  linguaggio  che 
opera  anche  sugli  animi  come  esaltazione  e  come  ricordo;  all’at¬ 
mosfera  che  essi  creano  intorno  a  sé  e  che,  con  la  sua  costante 
presenza,  modifica  a  poco  a  poco  il  carattere  delle  generazioni»: 
«Nella  architettura  monumentale,  che  dura  attraverso  i  secoli,  è 
il  simbolo  della  permanenza  dello  stato»^®^.  Ma  non  diverse,  per 
quanto  riguarda  la  funzione  politica  dell’architettura,  erano  le 
idee  dei  maggiori  esponenti  del  modernismo  razionalista  come 
Terragni,  Pagano,  Valente.  Oggi,  affermava  nel  1932  l’architetto 
Gio  Ponti,  solo  la  politica  e  l’architettura  «cercano  di  compren¬ 
dere,  servire  ed  esprimere»  le  aspirazioni  dell’umanità  alla  rea¬ 
lizzazione  di  «nuovi  ordini»^®®.  Il  mito  del  «costruire»,  in  cui  il 
fascismo  simbolizzava  la  sua  «romana»  determinazione  a  durare 
contro  la  sfida  del  tempo,  dando  V assalto  alla  storia  per  creare  un 


E.  Ludwig,  Colloqui  con  Mussolini,  Milano  1932,  p.  205. 

Petizione  a  Mussolini  per  l’architettura,  in  «L’Ambrosiano»,  13  febbraio 
1931,  cit.  M.  Estermann-Juchler,  Faschistische  Staatsbaukunst,  Kòln  1982,  p. 
102.  Sui  rapporti  fra  architettura  e  fascismo  cfr.  D.Y.  Ghirardo,  Italian  Archi- 
tects  and  Fascist  Politics:  An  Evaluation  of  thè  Rationalist’s  Role  in  Regime  Buil¬ 
ding,  in  «Journal  of  thè  Society  of  Architectural  History»,  1980,  n.  39,  pp.  109- 
127;  Cresti,  Architettura  e  fascismo  cit.;  G.  Ernesti  (a  cura  di).  La  costruzione 
dell’utopia.  Architetti  e  urbanisti  nell’Italia  fascista,  Roma  1988;  G.  Ciucci,  Gli 
architetti  e  il  fascismo,  Torino  1989;  T.L.  Schumacher,  Surface  &  Symbol.  Giu¬ 
seppe  Terragni  and  thè  Architecture  of  Italian  Rationalism,  New  York  1991  ;  R.A. 
Etlin,  Modernism  in  Italian  Architecture,  1890-1940,  Cambridge,  Mass.,  1991. 

A.  Pagliaro,  Architettura,  in  PNF,  Dizionario  dipolitica,  Roma  1940,  voi. 
I,  p.  159. 

G.  Ponti,  Perché  oggi  interessa  tanto  l’architettura,  in  «Il  Popolo  d’Ita¬ 
lia»,  13  luglio  1932. 


V.  I  templi  della  fede 


213 


ordine  nuovo,  non  poteva  certo  lasciare  indifferenti  gli  architet¬ 
ti,  che  di  questo  mito  erano  naturalmente  i  principali  credenti. 
L’architettura  era  «l’arte  e  la  scienza  fondamentale  designata  a 
definire  e  fermare  nel  tempo  il  carattere  e  la  storia  di  un’epoca», 
come  affermavano  gli  architetti  Minucci  e  Libera^®^.  E  per  gli  ar¬ 
chitetti  che  si  dedicarono  a  foggiare  uno  stile  fascista,  lo  scenario 
architettonico  e  monumentale  doveva  avere,  innanzi  tutto,  un  al¬ 
to  significato  simbolico  e  religioso,  costituire  uno  «spazio  sacro» 
per  la  celebrazione  del  culto  del  littorio,  contribuendo  così  ad 
istillare  nella  coscienza  dell’«italiano  nuovo»,  con  la  persistente 
suggestione  dell’ambiente  pubblico,  la  fede  nei  miti  della  reli¬ 
gione  fascista.  Era  compito  principale  dell’architettura  esprime¬ 
re  i  valori  e  definire  le  forme  della  «nuova  civiltà». 

In  effetti,  fin  dai  primi  anni  del  fascismo  al  potere,  l’euforia 
per  la  «nuova  Era»  sbrigliò  la  fantasia  monumentalistica  degli  ar¬ 
chitetti.  A  Mussolini  pervennero  progetti,  più  o  meno  ambiziosi 
e  strampalati,  di  architetti  che  volevano  già  immortalare  nei  se¬ 
coli  la  «rivoluzione  fascista»  come,  per  esempio,  il  faraonico  pro¬ 
getto  della  Eternale  Mole  Littoria  in  Roma,  presentato  da  Mario 
Palanti  nel  1924  a  Mussolini,  che  pare  fosse  entusiasta  dell’i¬ 
dea^  Il  «monumento  simbolico»  doveva  «eternare,  in  Roma 
Eterna,  la  Rivoluzione  Fascista,  la  epopea  delle  Camicie  Nere  e 
la  grandiosa  opera  del  Duce»;  ma  nella  fervida  ambizione  del¬ 
l’autore,  l’immenso  edificio  doveva  addirittura  rappresentare  la 
sintesi  della  civiltà  italiana  culminata  nell’avvento  del  fascismo: 
«Non  è  immodesta  esagerazione  affermare  -  scriveva  -  che  l’E- 
ternale  potrà  degnamente  completare  il  trinomio:  San  Pietro  e 
Cattolicesimo.  Altare  della  Patria  e  Risorgimento.  Mole  Littoria 
e  Rivoluzione  Fascista»“b  II  complesso  architettonico  era  con¬ 
cepito  per  essere  la  sede  degli  uffici  del  partito  fascista,  di  asso¬ 
ciazioni  patriottiche,  combattentistiche,  culturali,  commerciali, 
professionali;  per  ospitare  esposizioni  permanenti,  saloni  per 

ACS,  PCM,  Gabinetto,  1931-33,  fase.  14.1  n.  128,  Richiesta  di  autoriz¬ 
zazione  per  l’Esposizione  italiana  di  architettura  razionale,  cit.  in  Estermann- 
Juchler,  Faschistische  Staatsbaukunst,  cit.,  p.  97.  Sul  «mito  del  costruire»  nel¬ 
l’arte  fascista,  cfr.  Pontiggia,  Mario  Sironi:  il  mito  dell’architettura,  in  Sironi.  Il 
mito  dell’architettura  cit.,  pp.  19-21. 

M.  Palanti,  L’Eternale  Mole  Littoria,  Milano  1926. 

Ivi,  pp.  33-35. 


Fig.  15.  Il  progetto  Palanti  per  r«Eternale»  (1926). 


V.  I  templi  della  fede 


215 


convegni,  palestre,  un  impianto  di  terme,  r«Augusteo  Mussoli- 
niano  per  grandi  manifestazioni  patriottiche,  congressi  di  ogni 
genere,  concerti,  feste,  ecc.»;  saloni  per  biblioteche,  sale  di  let¬ 
tura  e  il  Museo  fascista.  Al  sommo  della  Mole  era  previsto  «un 
potentissimo  Faro,  simbolo  della  luce  eterna  che  irradia  da  Ro¬ 
ma»^ 

L’Eternale  non  fu  realizzato,  ma  l’idea  di  «eternare»  la  rivo¬ 
luzione  fascista  nel  simbolismo  dell’architettura  fu  un  chiodo  fis¬ 
so  per  Mussolini  e  il  partito.  Il  fascismo  diede  un  deciso  impul¬ 
so  al  simbolismo  architettonico  «sacro»  per  la  costruzione  di  tem¬ 
pli  dedicati  al  culto  del  littorio.  Architetti  e  urbanisti  si  impe¬ 
gnarono  a  diffondere  nelle  vecchie  città  e  nelle  «città  nuove» 
create  dal  fascismo  i  simboli  del  littorio.  Il  fascio  diventò  ele¬ 
mento  fondamentale  dell’architettura  duratura  o  effimera  dei 
monumenti,  degli  edifici,  delle  mostre.  Pare  che  lo  stesso  Mus¬ 
solini  abbia  voluto  e  abbozzato  il  monumento  alla  Vittoria,  edi¬ 
ficato  a  Bolzano  da  Marcello  Piacentini:  un  arco  trionfale  eretto 
di  fronte  alle  Alpi,  composto  di  quattordici  colonne  a  forma  di 
fascio,  con  la  scure  al  posto  del  capitello,  per  esaltare  «nella  du¬ 
revole  gloria  dei  marmi»  i  martiri  di  Trento  e  Trieste  «qui  vene¬ 
rati  come  santi  sugli  altari»“^.  Numerosi  furono  i  monumenti  co¬ 
struiti  durante  il  regime  per  glorificare  la  vittoria  e  i  caduti  nella 
Grande  guerra,  i  «martiri  fascisti»,  gli  eroi  della  storia  patria  e 
del  fascismo,  anche  se  il  partito,  nel  1927,  aveva  esortato  ad  edi¬ 
ficare  asili  piuttosto  che  monumenti,  dedicando  ai  caduti  «case» 
che  portino  «col  Nome,  il  Loro  ricordo:  Case  della  vita  nuova 
d’Italia:  scuole  di  esempi  in  cui  si  insegnerà  ai  bambini  a  vene¬ 
rare  la  memoria  di  quanti  per  la  Patria  morirono»"'*.  Abbiamo 
già  accennato  al  carattere  cultuale  che  il  PNF  attribuiva  alla  Ca¬ 
sa  del  Fascio,  centro  della  vita  del  partito  santificato  dalla  pre¬ 
senza  del  sacrario  dedicato  ai  caduti  fascisti,  che  lo  rendeva  un 
«tempio  mistico»,  dove  questi  erano  venerati  ed  «esaltati  in  mu¬ 
to  raccoglimento»*".  Ogni  fascio  sentiva  l’esigenza  di  dotarsi  di 
una  «casa»  adeguata  per  le  funzioni  di  partito,  e  degna  di  essere 

"2  Ivi,  pp.  24-25. 

Sapori,  Il  fascismo  e  l’arte  cit.,  p.  55. 

iMpjqp,  «Foglio  d’ordini»,  n.  21,  1”  febbraio  V  (1927). 

La  nuova  sede  della  Federazione  fascista,  in  «Il  Popolo  d’Italia»,  18  mag¬ 
gio  1930. 


T 


Fig.  16.  Particolare  della  facciata  dell’ufficio  postale  di  Littoria  (da 
Latina,  storia  di  una  città,  a  cura  di  R.  Mariani,  Alinari,  Firenze  1982 
p.  185). 


V.  I  templi  della  fede 


217 


anche  luogo  di  culto  perché,  affermava  il  segretario  federale  di 
Torino,  «per  la  Fede  occorre  il  Tempio»^ Soprattutto  nel  se¬ 
condo  decennio,  il  partito  cercò  di  dare  impulso  alla  costruzio¬ 
ne  delle  Case  del  Fascio,  che  dovevano  esaltare  il  suo  ruolo  pre¬ 
dominante  nella  vita  pubblica,  sollecitando  le  federazioni  alla  rac¬ 
colta  di  finanziamenti.  La  struttura,  la  collocazione  urbanistica  e 
l’estetica  della  Casa  del  Fascio  erano  definite  non  solo  ai  fini  del¬ 
la  sua  funzionalità  burocratica,  come  centro  di  tutte  le  organiz¬ 
zazioni  del  partito,  ma  anche  della  sua  funzionalità  pedagogica  e 
propagandistica.  Il  partito,  perciò,  insisteva  soprattutto  sull’a¬ 
spetto  simbolico,  in  cui  aveva  particolare  spicco,  come  simbolo 
del  comando,  la  «torre  littoria»  evocatrice  delle  torri  comunali 
del  medioevo,  con  la  campana  civica,  diretta  a  rivaleggiare,  co¬ 
me  abbiamo  visto,  con  il  campanile  delle  chiese.  Oltre  che  sede 
degli  uffici  del  partito,  la  casa  doveva  essere  il  centro  della  vita 
politica  e  sociale  dell’«armonico  collettivo»,  luogo  di  venerazio¬ 
ne  del  culto  dei  martiri  e  la  scuola  di  indottrinamento  nei  dogmi 
della  religione  fascista.  A  questa  idea  si  ispirò  Terragni  nel  pro¬ 
gettare  la  Casa  del  Fascio  di  Como:  «in  una  casa  dedicata  al  po¬ 
polo,  scriveva,  intervengono  fattori  morali,  politici,  propagandi¬ 
stici  che  integrano  il  fondamentale  scopo  di  creare  una  sede  alle 
organizzazioni  del  Partito»,  che  non  doveva  essere  più  come  nei 
tempi  dello  squadrismo  «covo,  o  rifugio,  o  fortino»  ma  doveva 
«diventare  casa,  scuola.  Tempio»*  L’edificio,  costruito  in  stile 
razionalista,  era  un’esemplare  «idealizzazione  simbolica  del  Fa¬ 
scismo»****,  come  l’ha  definita  uno  storico  dell’architettura,  e  si 
ispirava  esplicitamente  alla  metafora  mussoliniana  «il  fascismo  è 
una  casa  di  vetro».  La  costruzione  era  concepita  in  modo  da  da¬ 
re  l’immediata  percezione  della  piena  integrazione  del  partito 
nella  vita  della  massa  e  la  diretta  comunicazione  fra  la  massa  e  i 


ACS,  MRF,  b.  52,  fase.  «Piemonte»,  sottofasc.  «Torino»,  rapporto  del 
federale  Bianchi  Mina  a  Mussolini,  15  gennaio  1930. 

G.  Terragni,  La  costruzione  della  Casa  del  Fascio  di  Como,  in  «Qua¬ 
drante»,  ottobre  1936.  Cfr.  D.  Ghirardo,  Politics  of  a  Masterpiece:  The  Vicen¬ 
da  of  thè  Decoration  of  thè  F acade  of  thè  Casa  del  Fascio,  Como  1936-1939,  in 
«Art  Bulletin»,  LVII,  1980,  n.  3,  pp.  466-478;  Etlin,  Modernism  in  Italian  Ar- 
chitecture  cit.,  pp.  439-479;  Schumacher,  Surface  &  Symbol  cit.,  pp.  139-170. 

K.  Frampton,  Storia  dell’architettura  moderna,  trad.  it.  di  M.  De  Bene¬ 
detti  e  R.  Poletti,  Bologna  1982,  p.  241. 


Fig.  17.  La  Casa  del  Fascio  di  Predappio. 


V.  I  templi  della  fede 


219 


suoi  dirigenti.  Il  centro  spirituale  dell’edificio  era  il  sacrario,  sim¬ 
bolo  dell’elemento  spirituale  che  era  alla  base  del  «misticismo  fa¬ 
scista»,  cui  Terragni  volle  conferire  un  alto  senso  di  religiosità  fu¬ 
neraria,  costruendolo  come  una  cella  aperta  formata  da  tre  pa¬ 
reti  monolitiche  di  granito  rosso,  evocanti  le  primitive  costruzio¬ 
ni  regali  o  religiose  di  Micene  o  dell’Egitto. 

Una  delle  massime  espressioni  del  simbolismo  architettonico 
del  fascismo,  sintesi  di  sacro  e  profano,  avrebbe  dovuto  essere  la 
«Casa  Littoria»,  nuova  sede  della  segreteria  nazionale  del  PNF. 
Fu  la  decisione  di  rendere  permanente  la  mostra  della  rivoluzio¬ 
ne,  istituendo  una  sede  perpetua  per  «il  Sacrario  dell’Epopea  del¬ 
le  Camicie  Nere»^^^,  a  dare  l’idea  di  costruire  un  edificio  monu¬ 
mentale  dove  accogliere  gli  uffici  del  partito  e  delle  organizza¬ 
zioni  dipendenti,  la  mostra  della  rivoluzione  e  il  sacrario  dei  mar¬ 
tiri.  Il  partito  lanciò  una  pubblica  sottoscrizione  per  il  finanzia¬ 
mento  dell’opera,  perché  «la  Casa  Littoria  sarà  la  Casa  di  tutto 
il  popolo  italiano:  eretta  dal  contributo  della  Nazione  intera,  ac¬ 
coglierà  in  sé  l’energia  incomparabile  che  l’anima  nazionale  dà 
alla  Rivoluzione  Fascista:  a  questa  rivoluzione,  che,  diversa  da 
tutte  le  altre,  conquista  il  tempo,  lo  fa  suo,  prosegue  diritta  ver¬ 
so  l’awenire»^^®.  Il  palazzo,  per  volontà  di  Mussolini,  avrebbe 
dovuto  sorgere  di  fronte  alla  Basilica  di  Massenzio,  sulla  nuova 
via  dell’Impero  inaugurata  solennemente  il  28  ottobre  1932,  che 
collegava  piazza  Venezia  al  Colosseo  attraversando  i  fori  impe¬ 
riali,  ma  arretrato  rispetto  alla  via  per  non  pregiudicare  «la  vista 
dell’intera  mole  del  Colosseo  da  piazza  Venezia»  come  spiegava 
il  bando  di  concorso.  L’arretramento  avrebbe  consentito  «la  crea¬ 
zione  di  una  spianata  sopra  elevata  sulla  via  dell’Impero,  atta  ad 


ACS,  PNF,  DN,  Servizi  Vari,  sezione  II,  b.  332,  fase.  «Corrispondenza 
generale»,  lettera  di  Starace  al  duca  Marcello  Visconti  di  Modrone,  Roma,  13 
febbraio  1935.  Il  materiale  della  mostra  venne  trasferito  alla  GaUeria  d’arte  mo¬ 
derna,  in  previsione  di  una  nuova  edizione,  che  fu  allestita  nel  1937,  in  coinci¬ 
denza  con  la  mostra  per  il  bimillenario  di  Augusto.  Cfr.  Fioravanti,  Introdu¬ 
zione  cit.,  pp.  37-42. 

120  Professori  e  studenti  per  la  Casa  del  Littorio  sulla  Via  dell’Impero,  in 
«Gioventù  fascista»,  15  marzo  1934.  Con  il  r.d.l.  dell’8  marzo  1934,  n.  550  fu 
dichiarata  la  pubblica  utiUtà  dei  lavori  di  costruzione  della  «Casa  Littoria».  Con 
successivi  decreti  si  autorizzò  il  ministero  dei  Lavori  pubblici  a  curarne  la  co¬ 
struzione  (r.d.l.  7  marzo  1938,  n.  322)  e  il  PNF  ad  emettere  un  prestito  per  la 
costruzione  (r.d.l.  24  marzo  1938,  n.  379). 


220 


Il  culto  del  littorio 


accogliere  le  adunate  della  folla  nelle  manifestazioni  solenni»,  si¬ 
tuata  in  modo  «da  non  creare  pregiudizio  alla  completa  visibilità 
del  Palazzo  dalla  via  dell’Impero».  In  posizione  opportuna,  nel¬ 
la  spianata,  doveva  «essere  considerata  la  creazione  di  una  ap¬ 
posita  tribuna  o  arengario»,  per  i  discorsi  del  duce.  Nel  colore, 
il  palazzo  doveva  armonizzarsi  con  i  monumenti  circostanti  e  nel 
suo  insieme,  la  concezione  architettonica  doveva  corrispondere 
«alla  grandezza  ed  alla  potenza  impresse  dal  fascismo  al  rinno¬ 
vamento  della  vita  nazionale  nella  continuità  della  tradizione  di 
Roma.  Il  Grande  Edificio  dovrà  essere  degno  di  tramandare  ai 
posteri,  con  carattere  duraturo  e  universale,  l’epoca  Mussolinia- 
na»^2b  Inserendo  il  proprio  monumento  fra  i  monumenti  di  Ro¬ 
ma  e  la  mole  del  Vittoriano,  il  partito  ambiva  a  realizzare  una  sin¬ 
tesi  simbolica,  architettonica  e  urbanistica  per  immortalare  il  fa¬ 
scismo  quale  artefice  di  una  nuova  civiltà  che  rinnovava,  nel  XX 
secolo,  le  glorie  della  romanità.  E  avrebbe  inoltre  creato  un  im¬ 
menso  «spazio  sacro»  fra  il  Colosseo  e  piazza  Venezia,  per  la  ce¬ 
lebrazione  del  culto  del  littorio  con  grandi  adunate  e  parate. 

Di  fronte  alla  grandiosità  monumentale  del  progetto,  si  sca¬ 
tenarono  vivaci  polemiche  fra  tradizionalisti  e  modernisti,  per  la 
scelta  del  sito  e  per  lo  stile  architettonico  del  palazzo,  polemiche 
che  non  coinvolsero  solo  gli  architetti  ma  risuonarono  anche  nel¬ 
la  Camera  dei  deputati,  dove  si  confrontarono  i  fautori  e  i  nemi¬ 
ci  del  modernismo.  Al  di  là  di  questa  polemica,  i  maggiori  ar¬ 
chitetti  italiani,  dell’una  e  dell’altra  corrente,  si  cimentarono  e  fe¬ 
cero  a  gara,  mostrandosi  infervorati  dallo  spirito  «religioso»  del¬ 
l’opera,  per  escogitare  un  simbolismo  adeguato  a  sintetizzare  la 
tradizione  e  la  modernità  dei  miti  fascisti:  l’epopea  della  rivolu¬ 
zione  e  lo  Stato  corporativo,  il  culto  della  romanità  e  il  culto  del 
duce,  la  devozione  alla  religione  cattolica  e  la  devozione  alla  re¬ 
ligione  fascista,  l’itahanità  e  l’universalità  del  fascismo^^^. 

Comune  a  tutti  i  progettisti  era  la  concezione  sacrale  dell’e¬ 
dificio,  come  «tempio  della  rivoluzione»,  «tempio  del  Littorio», 
«Monumento  della  fede»,  come  pure  l’uso  di  un  sincretismo  sim- 


Il  testo  del  bando  è  riprodotto  nel  volume  II  nuovo  stile  Littorio,  Roma 
1936  (pp.  XV-XVIII)  che  illustra  i  progetti  accettati,  e  parte  degli  esclusi. 

Cfr.  Ciucci,  Gli  architetti  e  il  fascismo  cit.,  pp.  139-151;  Cresti,  Archi¬ 
tettura  e  fascismo  cit.,  pp.  178-188;  Etlin,  Modernism  in  Italian  Architecture  cit., 
pp.  426-434. 


y.  I  templi  della  fedt 


221 


bolico  che  attingeva  alla  tradizione  romana,  cristiana  e  fascista 
per  esaltarne  la  sacralità.  Ci  fu,  per  esempio,  chi  ispirò  il  suo  pro¬ 
getto  principalmente  all’idea  del  connubio  fra  cattolicesimo  e  fa¬ 
scismo,  adornando  il  palazzo  del  Littorio  con  un  enorme  basso- 
rilievo  dove  erano  raffigurati  inginocchiati  «in  mistica  preghie¬ 
ra»,  ai  piedi  della  Vergine,  Pio  XI  e  Mussolini,  e  collocando  co¬ 
lonne  di  santi  protettori,  come  san  Giovanni  Bosco  e  san  Bene¬ 
detto,  a  simboleggiare,  rispettivamente,  l’ONB  e  le  corporazioni. 
Ma  questo  era  un  caso  isolato,  perché  la  maggior  parte  dei  pro¬ 
getti  presentati  limitava  le  citazioni  del  cattolicesimo  al  simbolo 
della  croce  e  alla  cappella  interna,  mentre  esaltava  in  ogni  modo 
la  sacralità  del  fascismo  stesso,  del  suo  simbolo  e  del  suo  capo. 
Un  architetto,  per  esempio,  proponeva  la  distinzione  fra  le  di¬ 
verse  funzioni  dell’edificio,  costruendo  due  Moli,  il  palazzo  del 
littorio  e  il  palazzo  della  mostra,  simboleggianti  «l’idea  nuova  che 
anima  l’Uomo  Nuovo»,  uniti  da  «un  legame  ideale»  come  due 
«gradazioni  del  Sacro»  con  un  «Sacro  Recinto».  Per  la  mostra,  il 
progettista  aveva  concepito  una  «grande  ‘Scalea  del  Calvario’» 
che,  ruotando  attorno  ad  una  croce  luminosa  al  centro  dell’am¬ 
biente  circolare  della  «Torre  del  sacrifizio»,  «porta  il  pellegrino 
[...]  di  stazione  in  stazione  [...]  mentre  le  pareti  gli  raffigureran¬ 
no  le  varie  fasi  dell’ascesa  mistica».  I  martiri  fascisti  erano  vene¬ 
rati  in  un  sacrario  sottostante,  anch’esso  illuminato  tenuemente 
dalla  croce,  che  così  chiudeva  «il  ciclo  ideale  che  congiunge  l’o¬ 
locausto  del  Nazareno,  per  redimere  l’uomo  nella  sua  anima,  pu¬ 
rificata,  all’Etica  del  Fascismo».  In  un  ambiente  siffatto,  visitare 
la  mostra  sarebbe  stato  «per  l’uomo  di  fede,  ripercorrere  il  cam¬ 
mino  dei  Martiri  e  dei  Precursori  onde  ritemprarsi  l’animo»^^^. 
Particolare  risalto  era  dato,  in  alcuni  progetti,  all’elemento  della 
«torre»  come  simbolo  di  potenza  e  di  comando.  Un  architetto 
aveva  concepito  una  torre  che  si  ergeva  su  via  dell’Impero  per  88 
metri,  al  di  sopra  di  tutti  i  monumenti  circostanti,  simboleggian- 
te  il  «Genio  del  Duce»,  con  una  grande  «M»  che  «illuminata  di 
notte,  proietterà  la  sua  luce  a  ricordo  imperituro  dell’Ideatore 
dello  Stato  Corporativo» Il  simbolo  della  luce  era  presente  in 
vari  progetti,  per  rappresentare  l’avvento  radioso  della  «nuova 


^2^  Il  nuovo  stile  Littorio,  cit.,  pp.  hll-òll. 
124  Ivi,  p.  241, 


222 


Il  culto  del  littorio 


civiltà»,  che  indicava  una  via  di  salvezza  a  tutta  lumanità.  Ac¬ 
canto  alle  vestigia  monumentali  dell’impero  romano,  «la  prima 
luce»,  dove  «ebbe  ed  ha  tuttora  splendore  la  vita  della  civiltà  mo¬ 
derna»,  e  attorniata  dagli  edifici  sacri  dove  scaturì  la  «seconda 
luce»  che  aveva  redento  il  genere  umano,  doveva  sorgere  la  Mo¬ 
le  del  partito  fascista,  affermava  un  progetto  che  si  ispirava  al 
concetto  del  «fascio  littorio  faro  di  civiltà  contemporanea»,  che 
irradiava  «la  terza  luce»  per  illuminare  la  «travagliata  conquista 
di  una  superiore  civiltà»^25  Uj^  progetto  prevedeva  di  fron¬ 
te  al  palazzo,  sulla  via  dell’Impero,  un  grande  fascio  littorio  con 
la  scure  che  poteva  essere  illuminata  nelle  occasioni  solenni^^^.  Il 
già  ricordato  architetto  Palanti  aveva  immaginato  il  palazzo  a  for¬ 
ma  di  nave,  per  simbolizzare  la  «rotta  mussoliniana»  additata  al 
mondo  intero,  ed  aveva  inoltre  concepito  un  gioco  di  luce  a  ba¬ 
se  di  riflettori  che  avrebbero  proiettato  raggi  luminosi  sulla  mas¬ 
sa  dell’edificio  in  modo  tale  da  creare  effetti  «veramente  fanta¬ 
stici,  come  una  vera  e  propria  nave  illuminata,  isolata  dal  piano 
terra,  staccata  in  posizione  di  marcia».  E  dalla  nave  si  ergeva  la 
torre  che,  con  l’arengario  a  forma  di  scure,  formava  un  fascio,  «in 
armonia  di  espressione  con  la  tagliente  parola  del  Capo»^^^. 

La  glorificazione  del  duce,  come  nume  supremo  cui  era  de¬ 
stinata  la  «Casa  Littoria»,  risuonava  in  tutti  i  progetti.  «Sorga 
dunque  l’opera  simbolica  e  sia  l’Altare  della  Idea  -  esultava  un 
progettista  -,  il  palazzo  da  cui  continuerà  ad  irradiare  la  volontà 
del  Duce,  la  forza  delle  Sue  convinzioni,  il  fascino  della  Sua  Per- 
sona»^^*.  In  uno  dei  progetti,  il  palazzo  era  concepito  come 
«proiezione  iconografica  di  un  immenso  aratro  col  quale  il  pri¬ 
mo  contadino  d’Italia,  Benito  Mussolini,  novello  Romolo,  traccia 
il  solco  sacro  della  nuova  via  dell’Impero»,  mentre  la  «classica  fi¬ 
gura  del  Duce,  simboleggiante  d  Veltro  atteso  dalle  genti,  si  erge 
come  un  gigante  che  lancia  l’aerea  prora,  segno  della  Roma  mo¬ 
derna,  la  nave  volante,  che  deve  Illuminare  il  mondo  della  sua  lu¬ 
ce  nuova:  la  Civiltà  Fascista».  Tutto  l’edificio  «è  saturo  di  Lui: 
Mussolini.  Ogni  pietra  vorrebbe  avere  funzione  illustrativa,  glo- 

Ivi  p.  41. 

126  Ivi,  p.  105. 

127  Ivi,  p.  59. 

128  Ivi,  p.  321. 


Fig.  18.  Progetto  Crescini  per  il  Palazzo  del  Littorio  (1934). 


224 


Il  culto  del  littorio 


rificatrice  della  sua  opera»^^^.  Alla  divinizzazione  simbolica  di 
Mussolini  parteciparono  anche  Terragni  e  Sironi.  Essi  facevano 
parte  di  un  gruppo  che  presentò  due  progetti,  uno  dei  quali  (il 
progetto  A)  ispirato  ai  «concetti  di  universalità,  di  unità,  di  po¬ 
tenza  e  di  sapienza,  in  diretto  collegamento  coUe  tradizioni  im¬ 
periali  del  Foro  Romano»,  proponeva  un  complesso  architetto¬ 
nico  di  corpi  distinti,  che  dava  però  preponderanza  «al  fattore 
‘Mostra  della  Rivoluzione  e  Sacrario’  cristallizzato  in  una  costru¬ 
zione  eterna,  templare»  separata  dall’organismo  propriamente 
amministrativo,  come  spiegava  la  relazione  illustrativa.  Nel  pa¬ 
lazzo  della  Rivoluzione,  all’ultimo  piano,  erano  la  sala  del  duce  e 
del  segretario  del  partito,  che  «si  affacciano  sulla  via  dell’Impe¬ 
ro  assumendo  posizione  di  Comando.  In  alto,  in  continuazione 
della  grande  sala  è  il  podio  dal  quale  il  Duce  si  mostrerà.  Da  là 
tutti  lo  possono  vedere.  Egli  è  come  un  Dio,  contro  il  cielo,  so¬ 
pra  di  Lui  non  c’è  nessuno.  Tutta  la  facciata  inneggia  alla  Sua  for¬ 
za,  al  Suo  Genio  —  da  tutte  le  parti  della  grande  via  che  è  il  cuo¬ 
re  di  Roma,  il  polso  del  mondo,  da  piazza  Venezia,  agli  archi  del 
Colosseo,  alto,  solo,  nella  luce.  Egli  sarà  di  fronte  alle  moltitudi¬ 
ni  acclamanti:  di  tutti  -  con  tutti»^^®.  Al  duce  era  dedicata  anche 
la  facciata  del  palazzo:  «nella  grande  parete  di  granito,  vi  sarà  una 
sola  finestra  sulla  Via  dell’Impero:  la  Sua,  sulla  quale  saranno 
scolpite  le  Sacre  parole  del  giuramento» 

Fra  un  centinaio  di  progetti  presentati,  ne  furono. prescelti  12 
dalla  commissione^^2  presieduta  dal  segretario  del  PNF,  che  bandì 
un  concorso  di  secondo  grado  nell’aprile  1937,  in  cui  era  richiesto 
un  corpo  monumentale  come  sede  del  direttorio  nazionale  del  PNF 
con  gli  uffici  del  duce  e  del  segretario  del  partito;  la  «Torre  littoria» 

'29  Ivi,  pp,  183-184. 

Relazione  al  progetto  A,  cit.  in  F.  Benzi,  Sironi  e  l’architettura,  in  Siro¬ 
ni.  Il  mito  dell’architettura  cit.,  p.  120. 

131  Progetto  Carminati,  Lingeri,  Saliva,  Terragni,  Vietti,  Sironi,  riportato  in 
Il  nuovo  stile  Littorio,  cit.,  pp.  1-4. 

'^2  Della  commissione  facevano  parte  Giovanni  Marinelli,  segretario  am¬ 
ministrativo  del  PNF,  il  principe  Francesco  Boncompagni  Ludovisi,  governa¬ 
tore  di  Roma,  gli  architetti  Armando  Brasini,  Cesare  Bazzani,  Marcello  Pia¬ 
centini,  il  senatore  Corrado  Ricci,  il  segretario  nazionale  del  Sindacato  fascista 
architetti,  il  segretario  del  Sindacato  fascista  ingegneri,  l’ispettore  generale  dei 
Servizi  tecnici  del  Governatorato  e  il  direttore  dell’Ufficio  di  Belle  arti  del  Go¬ 
vernatorato. 


Figg.  19-20.  Progetto  A  Carminati-Lingeri-Saliva-Terragni-Vietti-Si- 
roni  per  il  Palazzo  del  Littorio  (1934).  In  alto,  il  plastico  del  proget¬ 
to;  in  basso,  scorci  della  facciata. 


Fig.  21.  Progetto  Del  Debbio-Foschini-Morpurgo  per  il  Palazzo  del 
Littorio. 


V.  I  templi  della  fede 


221 


con  la  sacrestia  del  labaro  del  PNF,  il  Sacrario,  e  le  sedi  per  le  or¬ 
ganizzazioni  dipendenti  dal  partito.  Vinse  il  progetto  degli  archi¬ 
tetti  Del  Debbio,  Foschini  e  Morpurgo,  che  però  dovette  essere  an¬ 
cora  modificato  perché  Mussolini  decise  che  l’edificio  doveva  sor¬ 
gere  non  più  sulla  via  dell’Impero  ma  nella  zona  del  Foro  Mussoli¬ 
ni,  ottenendo  così  «un  significativo  riavvicinamento  materiale  fra  il 
centro  da  cui  promana  e  si  diffonde  lo  spirito  dell’idea  fascista,  e  la 
palestra  dove  la  nuova  gioventù  d’Italia  tempra  il  corpo  per  mag¬ 
gior  gloria  della  Patria»^^^.  I  lavori  di  costruzione  furono  iniziati  il 
28  ottobre  1938,  ma  l’opera  rimase  incompiuta  per  la  guerra,  anche 
se  il  partito  vi  portò  per  un  breve  periodo  la  sua  sede^^'^. 

Eguale  sorte  d’opera  incompiuta  toccò  al  più  ambizioso  pro¬ 
getto  monumentale  immaginato  dal  regime  per  esaltare  il  culto 
del  littorio  ed  eternare  il  «tempo  di  Mussolini».  Si  tratta  del  pro¬ 
getto  dell’Esposizione  universale  romana  (EUR),  varato  il  1936 
nel  clima  di  entusiasmo  per  la  recente  riapparizione  dell’impero 
sui  «colli  fatali»  di  Roma^^L  Concepita  come  «Olimpiade  delle 
civiltà»  fra  le  nazioni  per  illustrare  il  contributo  che  ciascuna  di 
esse  aveva  dato  al  progresso  dell’umanità,  l’EUR  avrebbe  cele¬ 
brato  la  superiorità  dell’Italia  ripercorrendo  ventisette  secoli  del¬ 
la  sua  civiltà  dalla  romanità  aU’«epoca  di  Mussolini  il  quale,  co¬ 
me  nessun  altro  genio  politico,  ha  saputo  e  sa  far  vivere  gli  ita¬ 
liani  in  una  esaltante  atmosfera  di  romanità»^^^.  L’apertura,  pre¬ 
vista  per  il  1942,  nel  quadro  delle  celebrazioni  per  il  ventennale 
del  regime,  fu  rinviata  a  causa  della  guerra  a  dopo  1  auspicata  vit¬ 
toria  dell’Asse.  Il  rinvio  comportò  una  significativa  revisione  del 
programma  iniziale:  l’idea  dell’«01impiade  delle  civiltà»  fu  so¬ 
stituita  con  quella  della  «Esposizione  della  pace»,  attribuendogli 
una  più  marcata  funzione  politica,  al  fine  di  dimostrare,  in  una 
«cortese  competizione»^^^  fra  i  due  imperi  egemonici  dell’Euro- 

La  «Casa  Littoria»  a  Roma,  in  «Annali  dei  Lavori  Pubblici»,  1937, 
fase.  11. 

Attualmente  è  sede  del  ministero  degli  Esteri. 

1^5  Cfr.  E42.  Utopia  e  scenario  del  regime,  voi.  I,  a  cura  di  T.  Gregory  e  A. 
Tartaro,  voi.  II,  a  cura  di  M.  Calvesi,  E.  Guidoni,  S.  Lux,  Venezia  1987. 

1J6  -primo  abbozzo  della  Mostra  della  Civiltà  Italiana  per  la  Quinta  Sezione, 
dal  Settecento  all’anno  MCMXXII,  cit.  in  E.  Garin,  La  civiltà  italiana  nell’e¬ 
sposizione  del  1942,  in  E42,  voi.  I,  cit.,  p.  15. 

Revisione  del  programma  di  massima  del  1937,  in  ACS,  PCM,  Gabinet- 


228 


Il  culto  del  littorio 


pa  deir  Asse,  il  primato  universale  della  «nuova  civiltà»  fascista, 
cui  sarebbe  spettato  il  diritto  di  dare  principi  e  istituti  per  l’Or¬ 
dine  nuovo. 

Il  progetto  dell’EUR  andava  oltre  il  carattere  effimero  dell’e¬ 
sposizione.  Fin  dal  principio,  infatti.  Mussolini  aveva  deciso  di 
trasformarla  in  un  complesso  architettonico  duraturo,  farne  il 
nucleo  urbanistico  di  una  «città  nuova»  che  doveva  rappresen¬ 
tare  «la  manifestazione  di  una  collettività  organizzata  gerarchi¬ 
camente  indirizzata  e  guidata  da  una  mente  ordinatrice»^^*. 
L’EUR  sarebbe  stato  il  centro  monumentale  della  nuova  Roma 
mussoliniana  in  espansione  verso  il  mare,  moderna  capitale  del¬ 
l’impero  e  di  una  «nuova  civiltà»:  «Chi  venendo  da  Roma  o  dal 
mare  si  affaccerà  dalla  via  dell’Impero  [...]  vedrà  aprirsi,  fra  can¬ 
didi  marmi  e  travertini  dorati,  la  città  nuova,  viva  d’acque  e  di 
verde;  una  città  degna  di  stare  accanto  all’antica,  ma  con  questo 
in  più;  che  essa  nella  sua  cornice  di  severa  e  potente  architettu¬ 
ra  sarà  atta  ad  accogliere  la  multanime,  dinamica  vita  d’oggi  e  di 
domani»^^^.  La  nuova  città,  unendo  funzionalità  e  monumenta- 
lità  simbolica,  avrebbe  avuto  luoghi  di  culto,  di  festa  e  di  diver¬ 
timento  per  le  masse. 

Tutta  la  cultura  italiana,  umanistica,  artistica  e  scientifica  ven¬ 
ne  mobilitata  per  la  realizzazione  dell’ambizioso  progetto.  Agli 
architetti  fu  assegnato  il  compito  più  impegnativo:  costruire  una 
«messa  in  scena  che  abbia  del  magico»^-*®,  per  dare  alle  masse 
«un  grandioso  spettacolo  dimostrativo,  realizzato  col  far  muove¬ 
re  il  pubblico  entro  un’attrezzatura  scenica  fissa»  di  architetture, 
sculture  e  decorazioni  murali  di  «grande  efficacia  visiva,  atti  a 
colpire  e  impressionare  l’immaginazione  di  chi  guarda»,  rag¬ 
giungendo  «la  memoria  dei  visitatori  attraverso  la  fantasia»,  per 
mostrare  «al  popolo  la  magica  continuità,  universalità  e  attualità 


to,  1937-1939,  fase.  14.1  n.  200.6.3,  cit.  in  P.  Ferrara,  L’EUR:  un  ente  per  l’E 
42,  in  E42,  voi.  I,  cit.,  p.  81. 

G.L.  Banfi,  L.B.  Belgiojoso,  Urbanistica  anno  XII.  La  Città  Corporativa, 
in  «Quadrante»,  n.  13,  maggio  1934,  cit.  in  E.  Guidoni,  L’E  42,  Città  della  rap¬ 
presentazione,  in  E42,  voi.  II,  cit.,  p.  30. 

V.  Cini,  Significato  e  aspetti  dell’esposizione  universale  di  Roma,  in  «Ci¬ 
viltà»,  n.  1,  aprile  1940,  p.  11. 

Mostra  della  Civiltà  Italiana.  Lineamenti  programmatici,  p.  28,  cit.  in  S. 
Lux,  Oppo:  la  committenza,  in  E42,  voi.  II,  cit.,  p.  211. 


V.  I  templi  della  fede 


229 


della  civiltà  italiana,  nostro  privilegio  e  segno  distintivo  di  quel 
primato  che  il  Gioberti  esaltava»^-^L  La  funzione  politica  e  pro¬ 
pagandistica  della  monumentalità  dell’EUR,  presentata  dagli 
stessi  progettisti  e  commentatori  con  espliciti  riferimenti  simbo¬ 
lici  e  cultuali,  informava  in  realtà  tutta  la  concezione  urbanistica, 
architettonica  e  decorativa  della  nuova  città,  mirante  alla  «esal¬ 
tazione  di  un  fondale  sacrale  ispirato  ai  valori  del  fascismo» 

Il  culto  del  littorio  avrebbe  avuto  un  nuovo  «centro  sacro»  per 
l’autoglorificazione  del  fascismo  e  del  popolo  italiano,  attraverso 
la  storia  trasfigurata  in  mito  dalla  rappresentazione  simbolica  di 
una  monumentalità  grandiosa  e  solenne,  come  un  «teatro  di  ar¬ 
chitetture  favolose,  nate  da  un’evocazione  [...]  effettiva  espres¬ 
sione,  di  dimensioni  mai  viste,  di  un  realismo  magico»,  che  non 
voleva  ripetere  moduli  del  passato  ma  produrre  «una  estasi  ar¬ 
chitettonica  che  traspone  i  partiti  classici  in  una  evocazione  liri¬ 
ca  ed  astratta»^"^^. 

Nella  «città  nuova»  avrebbero  avuto  sede  permanente  la  mo¬ 
stra  della  romanità  e  le  mostre  dedicate  alle  istituzioni  del  regi¬ 
me  e  agli  aspetti  della  vita  sociale,  culturale,  economica,  produt¬ 
tiva,  scientifica  dell’Italia  fascista.  Tema  dominante  era  comun¬ 
que  la  «glorificazione  e  celebrazione  del  nuovo  ordine  originato 
dal  fascismo».  Nella  sezione  dell’esposizione  dedicata  al  PNF,  ol¬ 
tre  il  sacrario  dei  martiri,  era  prevista  una  imponente  ara,  con¬ 
cepita  sul  modello  all’Ara  pacis  di  Augusto,  che  doveva  «rappre¬ 
sentare  il  trionfo  dell’idea  fascista  e  consacrare  la  pace  dei  popoli 
annunciando  l’inizio  della  nuova  Era»^"^"*;  dall’interno  dell’ara, 
una  potente  sorgente  luminosa  avrebbe  proiettato  «nel  cielo  di 
Roma  un  immenso  fascio  di  luce» *‘^5.  Potenti  riflettori  avrebbe¬ 
ro  illuminato  di  notte  anche  un  grande  «arco  dell’Impero»  in  al- 

‘4'  Relazione  degli  architetti  Banfi,  Belgiojoso,  Peressutti,  Rogers  in  E42, 
voi.  II,  cit.,  p.  74. 

E.  Guidoni,  L’E  42,  Città  della  rappresentazione.  Il  progetto  urbanistico 
e  le  polemiche  sull’architettura,  in  E42,  voi.  II,  cit.,  p.  23. 

G.  Ponti,  Olimpiade  della  civiltà.  L’E42  città  favolosa,  in  «Corriere  del¬ 
la  Sera»,  4  maggio  1938,  cit.  in  Guidoni,  L’E12,  Città  della  rappresentazione, 
cit.,  p.  62. 

i"*'*  Revisione  del  «Programma  di  massima»  del  1937,  riportato  in  E42,  voi. 
I,  cit.,  p.  169. 

145  Progetto  Cini,  approvato  da  Mussolini  il  4  gennaio  1941,  cit.  in  E42, 
voi.  II,  cit.,  p.  65. 


Fig.  22.  Plastico  dell’EUR  (1938)  con  l’arco  cleirimpero. 


V.  I  templi  della  fede 


231 


luminio  e  acciaio,  alto  40  metri,  sovrastante  la  via  Imperiale,  as¬ 
se  sacro  della  nuova  città,  come  un  arcobaleno  di  pace,  simbolo 
trionfale  della  nuova  «pace  romana»  realizzata,  dopo  la  vittoria 
dell’Asse,  nel  segno  del  littorio*"*^.  Luce  e  colore  avevano  un  ruo¬ 
lo  decisivo  nell’architettura  simbolica  dell’EUR  e  nel  suo  signifi¬ 
cato  religioso.  La  bianca  solarità  mediterranea  dei  monumenti  e 
gli  effetti  di  luce,  che  avrebbero  fatto  della  notte  giorno,  avreb¬ 
bero  conferito  alla  nuova  città  l’atmosfera  mistica  di  un  centro 
sacro,  quali  simboli  della  vittoria  sulle  tenebre  ed  il  caos  della  lu¬ 
ce  della  religione  fascista,  che  irradiava  dalla  Roma  mussoliniana 
i  valori  di  una  nuova  civiltà. 

Religiosità  ed  arte,  è  stato  osservato,  «si  ritrovano  sullo  stes¬ 
so  piano  ‘mistico’  che  fin  dall’inizio  (ma  con  crescente  intensità 
negli  anni  della  guerra)  ha  caratterizzato  il  progetto  dell’Esposi¬ 
zione  come  città  della  rappresentazione  e  degli  effetti  lumino- 
si»^'*'^.  La  monumentalità  dell’EUR  proponeva,  in  questa  pro¬ 
spettiva,  un  nuovo  esempio  di  sincretismo  simbolico  tra  fascismo 
e  cattolicesimo  nel  mito  della  romanità.  La  mostra  assegnava  una 
sezione  importante  ad  illustrare  il  contributo  della  Chiesa  alla 
formazione  della  civiltà  italiana,  mentre  per  il  culto  religioso  era 
previsto  un  tempio  dedicato  ai  SS.  Pietro  e  Paolo.  Ma  il  vero  cen¬ 
tro  spirituale  dell’esposizione  e  della  «città  nuova»  era  il  palazzo 
che  avrebbe  ospitato  in  permanenza  la  mostra  della  civiltà  italia¬ 
na,  dai  tempi  di  Augusto  a  Mussolini:  era  questa,  scriveva  Emi¬ 
lio  Cecchi,  «materia  religiosa,  da  non  poter  tentarne  la  celebra¬ 
zione  fuor  che  con  religiosa  reverenza»^'^^,  e  tale  da  conferire  al¬ 
l’edificio  «un  attributo  sacro:  quasi  Tempio  della  stirpe»  come  lo 
definiva  un  gruppo  di  architetti Adeguato  ad  assolvere  que¬ 
sta  sacra  funzione  simbolica  fu  giudicato  il  progetto  degli  archi¬ 
tetti  Guerrini,  La  Padula  e  Romano:  il  cosiddetto  «Colosseo  qua¬ 
drato»,  con  le  quattro  facciate  traforate  da  archi  romani,  ripetu¬ 
ti  «con  una  insistenza  ritmica,  che  vuole  appunto  essere  una  af¬ 
fermazione  di  essenzialità  eterna»  oltre  che  «chiara  espressione 


Cfr.  E42,  voi.  II,  cit.,  pp.  467-470. 

Guidoni,  L’E42,  Città  della  rappresentazione,  cit.,  p.  35. 

E.  Cecchi,  Il  palazzo  della  Civiltà  italiana,  in  «Civiltà»,  n.  3,  ottobre  1940. 
G.L.  Banfi,  L.B.  Belgiojoso,  G.  Ciocca,  E.  Peressutti,  E.N.  Rogers,  Re¬ 
lazione  sul  progetto  architettonico  per  il  Palazzo  della  Civiltà  italiana,  cit.  in  A. 
Mantoni,  E42,  i  concorsi,  in  E42,  voi.  II,  cit.,  p.  91. 


232 


Il  culto  del  littorio 


di  romana  italianità»^^®.  E  come  in  un  tempio  romano,  la  deco¬ 
razione  dell’edificio  avrebbe  visualizzato,  in  affreschi  e  statue,  i 
miti,  i  valori  e  gli  eroi  del  culto  del  littorio.  Parte  preminente  nel¬ 
la  mostra  avrebbero  avuto  le  sale  dedicate  al  culto  dei  grandi  uo¬ 
mini  rappresentativi  di  un  «popolo  di  poeti  di  artisti  di  eroi  di 
santi  di  pensatori  di  scienziati  di  navigatori  di  trasmigratori»  se¬ 
condo  la  definizione  mussoliniana,  che  si  stagliava  sulla  fronte  di 
questo  Pantheon  fascista,  dove  il  popolo  avrebbe  venerato  gli 
eroi  della  civiltà  italiana,  da  Cesare,  fondatore  del  primo  impero, 
a  Mussolini,  fondatore  del  secondo  impero.  La  sala  Mussolini  era 
destinata  alla  glorificazione  del  duce  che  «riassume  in  sé  le  più 
profonde  aspirazioni  della  stirpe  [...]  In  Lui  si  concludono  qua¬ 
si  due  millenni  di  storia.  Solo  oggi  Roma,  dopo  Augusto,  ha  una 
missione  politica  universale  [...]  L’esaltazione  del  nostro  Capo 
dovrà  essere  di  altissimo  tono  spirituale»^^^ 


Relazione  di  Guerrini,  La  Radula,  Romano  cit.  in  E42,  voi.  II,  cit.,  p 

354. 

Mostra  della  Civiltà  Italiana.  Criteri  fondamentali  per  la  presentazione 
della  Mostra,  Roma  1939,  p.  32. 


VI 

IL  «NUOVO  DIO  D’ITALIA» 


E  quindi  non  posso  dire  altro  non  sapendomi 
meglio  esprimermi,  non  ho  potuto  andare  un- 
po  di  piu  ascuoia  mangava  il  potere,  intutto 
ciò  io  credo  che  il  Duce  mi  perdona  mi  assol¬ 
ve  i  miei  errori  comessi  in  questi  3  fogli.  Non 
mi  rimane  altro  solo  mi  spinge  il  cuore  di  gri¬ 
dare  evviva  il  nostro  capo  del  Governo  eviva 
luomo  di  ferro,  evviva  il  Leone  e  il  Salvatore 
d’Italia  dal  Bolscevismo  evviva  il  nuovo  Dio 
d’Italia,  e  dell’Italia  nuova. 

Io  sono  nato  contadino  e  muorerò  contadino 
nel  prosimo  Dicemmbre  tornerò  di  nuovo  al¬ 
la  mia  bella  Patria  e  al  mio  bello  Paese  dove 
sono  nato  e  fatto  grande  e  ciò  la  mia  consor¬ 
ta  con  2  figli. 

S.M.  a  Mussolini,  Struthers  (Ohio), 
26  marzo  1930 

Qualche  cosa,  che  da  più  di  vent’anni  mi  bat¬ 
teva  nel  cuore,  s’arresta  di  colpo:  un  Amore, 
una  fedeltà,  una  dedizione.  Ora,  sono  solo, 
senza  il  mio  Capo  [...]  Un  Capo  è  tutto  nella  vi¬ 
ta  d’un  uomo:  origine  e  fine,  causa  e  scopo, 
punto  di  partenza  e  traguardo;  se  cade,  dentro 
si  fa  una  solitudine  atroce.  Vorrei  ritrovarlo  il 
Capo,  rimetterlo  al  centro  del  mio  mondo, 
riordinarlo,  questo  mio  mondo,  intorno  a  lui. 
Ò  paura,  paura  che  questo  non  mi  riesca  più. 
Ora,  so  cos’è  la  paura:  un  precipitare  improv¬ 
viso  d’una  ragione  di  vita. 


G.  Bottai 


L’universo  simbolico  della  religione  fascista  ruotava  attorno  al 
mito  e  al  culto  del  duce,  che  furono  certamente  la  manifestazione 
più  spettacolare  e  popolare  del  culto  del  littorio.  Ma  questa  centra¬ 
lità  non  deve  essere  tuttavia  fraintesa,  attribuendo  al  mito  di  Mus¬ 
solini  l’origine  della  religione  fascista.  Come  abbiamo  visto,  questa 
si  era  formata  dall’esperienza  collettiva  di  un  movimento  che  si  con¬ 
siderava  investito  di  un  proprio  carisma  missionario,  che  non  veni¬ 
va  affatto  identificato,  all’inizio,  con  la  figura  di  Mussolini.  Nella 
formazione  dell’autorappresentazione  del  fascismo  come  religione 
erano  confluite  tradizioni  che  risalivano  indietro  nel  tempo;  e  la  mi¬ 
tologia  fascista,  in  parte  derivata  da  queste  tradizioni,  in  parte  sorta 
dall’esperienza  stessa  del  fascismo,  era  più  ricca  e  complessa  del  mi¬ 
to  mussoliniano,  e  in  nessun  modo  può  essere  risolta  in  esso,  anche 
se  questo  vi  occupa  una  posizione  primaria.  La  nascita  del  culto  del 
duce  avvenne  nell’ambito  della  religione  fascista  dopo  che  questa 
era  stata  istituzionalizzata,  ed  era  perciò  una  sua  derivazione,  anche 
se  la  figura  del  duce  possedeva  una  propria  «numinosità»  emanan¬ 
te  dalla  personalità  carismatica  di  Mussolini.  Indubbiamente  il  mi¬ 
to  di  Mussolini,  che  -  va  precisato  -  traeva  alimento  anche  da  am¬ 
bienti  esterni  al  fascismo,  contribuì  ad  incrementare  e  a  valorizzare 
la  dimensione  fideistica  del  fascismo,  ma  la  presenza  di  questa  di¬ 
mensione  contribuì  a  sua  volta  a  rafforzare  il  ruolo  carismatico  del 
capo  e  ad  esaltare  il  mito  mussoliniano,  fino  a  collocarlo  al  centro 
del  culto  del  littorio.  La  figura  del  duce,  come  componente  fonda- 
mentale  dell’universo  mitico  e  simbolico  del  fascismo,  quale  diven¬ 
ne  effettivamente  dopo  il  1925,  non  può  dunque  essere  vista  come 
un  elemento  indipendente  dalla  religione  fascista. 


Il  mito  e  il  culto 

Per  poter  meglio  inquadrare  il  «mussolinismo»  nell’ambito 
del  culto  del  littorio,  è  opportuno  fare  una  distinzione  fra  il  mi- 


236 


Il  culto  del  littorio 


to,  o  meglio,  i  miti  di  Mussolini  e  il  culto  del  duce.  Il  culto  del¬ 
la  personalità  si  fonda  sempre  sul  mito,  ma  non  sempre  il  mito 
di  una  personalità  è  accompagnato  da  atti  rituali  di  dedizione 
e  di  devozione.  Nel  caso  di  altri  capi  carismatici,  come  Stalin  e 
Hitler,  mito  e  culto  si  sono  sviluppati  simultaneamente  all’inter¬ 
no  dei  loro  movimenti  e  in  funzione  di  questi.  Nel  caso  di  Mus¬ 
solini,  invece,  il  mito  non  solo  ha  preceduto  il  culto,  ma  si  è  ma¬ 
nifestato  con  diversi  aspetti  prima  della  nascita  del  fascismo  e  del¬ 
la  sua  ascesa  al  potere.  Ci  sono  stati,  infatti,  vari  «miti»  di  Mus¬ 
solini  che  si  manifestarono  in  periodi  diversi  della  sua  vita,  ed  eb¬ 
bero  origine  nell’ambito  di  differenti  ambienti  e  situazioni  poli¬ 
tiche  e  culturali.  E  ciascuno  di  questi  miti  contribuì  a  far  sorgere 
attorno  alla  figura  di  Mussolini  un  alone  carismatico,  preparan¬ 
do  le  condizioni  per  la  nascita  del  mito  fascista  di  Mussolini  e  la 
istituzione  di  un  culto  della  sua  persona  negli  anni  del  regimeh 
Si  può  parlare,  innanzi  tutto,  di  un  mito  socialista  di  Mussolini, 
sorto  quando  egli  a  soli  ventinove  anni,  da  sconosciuto  dirigen¬ 
te  di  provincia  del  partito  socialista,  balzò  sulla  scena  nazionale 
come  r«uomo  nuovo»  della  corrente  rivoluzionaria  che  prese  la 
guida  del  partito  nel  congresso  di  Reggio  Emilia  del  luglio  1912. 
Mussolini  divenne  l’idolo  delle  masse  socialiste,  il  modello  del  ca¬ 
po  rivoluzionario,  il  simbolo  del  nuovo  socialismo  intransigente 
che  aveva  liquidato  il  riformismo  e  marciava  risoluto  verso  la  ri- 


'  Mancano  studi  sistematici  sul  mito  di  Mussolini.  Per  una  prima  informa¬ 
zione  su  alcuni  aspetti  di  questo  mito  cfr.  D.  Biondi,  La  fabbrica  del  Duce,  Fi¬ 
renze  1967;  P.  Melograni,  The  Cult  of  thè  Duce  in  Mussolini’ s  Italy,  in  «Jour¬ 
nal  of  Contemporary  History»,  1976,  pp.  221-237;  A.B.  Hasler,  Das  Duce-Bild 
in  der  Faschistischen  Literatur,  in  «Quellen  und  Forschungen»,  60,  1980,  pp. 
421-506;  J.  Petersen,  Mussolini:  Wirklichkeit  und  Mythos  eines  Diktators,  in 
Mythos  und  Moderne,  Frankfurt  a.M.  1983,  pp.  242-260;  E.  Gentile,  Il  mito  di 
Mussolini,  in  «Mondo  operaio»,  n.  7-  8,  1983,  pp.  113-128;  A.M.  Imbriani,  Il 
mito  di  Mussolini  tra  propaganda  e  culto  di  massa.  Le  origini  (1923-1926),  in 
«Prospettive  settanta»,  n.  2,  3,  4,  1988,  pp.  492-512. 

La  migliore  introduzione  critica  al  problema  del  mito  di  Mussolini,  corre¬ 
data  da  un  ricco  apparato  di  testi  coevi  e  di  fotografie  che  riproducono,  in  for¬ 
ma  immediata,  la  proiezione  del  mito  attraverso  la  propaganda  del  regime,  ri¬ 
mane  tuttora  R.  De  Felice,  L.  Coglia,  Mussolini.  Il  mito,  Roma-Bari  1983.  Ster¬ 
minata,  invece,  è  la  letteratura  apologetica  della  pubblicistica  fascista,  utile  per 
seguire  la  rappresentazione  del  mito  mussoliniano  negli  anni  del  regime.  Su 
questo  aspetto,  oltre  al  citato  saggio  di  Hasler,  cfr.  L.  Passerini,  Mussolini  im¬ 
maginario,  Roma-Bari  1991. 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


237 


voluzione.  Ma  quando  Mussolini  compì  la  scelta  dell’intervento, 
il  mito  socialista  crollò,  trasformandosi  neU’antimito  del  tradito¬ 
re  venduto  e  corrotto.  Tuttavia,  negli  anni  fra  il  1912  e  il  1914, 
accanto  al  mito  socialista,  s’era  formato  un  altro  mito  mussoli¬ 
niano  fra  gli  intellettuali  che  militavano  nel  composito  fronte  del- 
l’antigiolittismo,  radunati  attorno  a  «La  Voce»  di  Prezzolini  e 
all’«Unità»  di  Salvemini.  Per  Prezzolini,  Mussolini  era  «un  uomo 
e  risalta  tanto  più  in  un  mondo  di  mezze  figure»^.  Salvemini  am¬ 
mirava  il  giovane  capo  socialista  «uomo  forte  e  diritto»,  rivolu¬ 
zionario  sul  serio  di  quelli  che  «parlano  come  pensano,  e  opera¬ 
no  come  parlano,  e  perciò  portano  in  sé  tanta  parte  dei  futuri  de¬ 
stini  d’Italia»h  Questo  mito  sopravvisse,  ed  anzi  si  rafforzò  do¬ 
po  il  crollo  del  mito  socialista,  perché  la  scelta  interventista  di 
Mussolini  fu  considerata  una  conferma  del  mito  dell’uomo  nuo¬ 
vo  della  politica  italiana,  l’uomo  che  nel  suo  dramma  politico  per¬ 
sonale  simbolizzava  «il  dramma  di  tutta  la  nostra  generazione», 
come  scriveva  il  15  novembre  1914  il  pittore  futurista  Carlo 
Carrà*’.  Da  idolo  delle  masse  socialiste.  Mussolini  divenne  l’eroe 
delle  avanguardie  politiche  e  culturali  dell’interventismo,  come 
futuro  rinnovatore  nazionale:  «tu,  Benito  Mussolini  [...]  devi  da¬ 
re  all’Italia  il  nuovo  popolo»,  scriveva  un  giovane  meridionale  al¬ 
la  fine  del  1914^. 

Questo  nuovo  mito  accompagnò  Mussolini  anche  nel  dopo¬ 
guerra,  ma  la  sua  forza  di  attrazione  rimase  limitata  nell’ambito 
delle  «aristocrazie  del  combattentismo»,  come  gli  arditi,  i  futuri¬ 
sti,  e  i  reduci  interventisti  con  i  quali  Mussolini  diede  vita  al  mo¬ 
vimento  fascista.  La  nascita  del  culto  del  duce  non  fu  contempo¬ 
ranea  alla  nascita  e  allo  sviluppo  del  fascismo,  anche  se  l’appel¬ 
lativo  di  «duce»,  già  usato  per  Mussolini  nel  periodo  socialista, 
gli  veniva  attribuito  dai  fascisti  secondo  una  tradizione  di  lin¬ 
guaggio  tipica  della  sinistra  italiana.  Per  la  maggior  parte  dei  pri¬ 
mi  fascisti,  almeno  fino  alla  fine  del  1921,  il  duce,  cioè  il  capo  ca¬ 
rismatico  della  «rivoluzione  italiana»,  non  era  Mussolini,  ma 


2  «La  Voce»,  4  dicembre  1913.  Cfr.  E.  Gentile,  Mussolini  e  «La  Voce»,  Fi¬ 
renze  1976. 

^  «L’Unità»,  26  settembre  e  24  ottobre  1912;  19  giugno  1914. 

''  Lettera  a  G.  Prezzolini,  cit.  in  E.  Gentile,  Il  mito  dello  Stato  nuovo  dal- 
l’antigiolittismo  al  fascismo,  Roma-Bari  1982,  p.  122. 

’  «Il  Popolo  d’Italia»,  29  novembre  1914. 


238 


Il  culto  del  littorio 


D’Annunzio,  al  quale  si  rivolsero,  specialmente  durante  l’impre¬ 
sa  di  Fiume,  i  vari  movimenti  del  nazionalismo  rivoluzionario. 
Nella  stessa  organizzazione  del  movimento  fascista.  Mussolini, 
pur  essendo  il  dirigente  più  prestigioso,  perché  unica  figura  di  ri¬ 
lievo  nazionale  e  direttore  di  un  influente  quotidiano,  era  soltanto 
membro  dell’ufficio  di  propaganda  e  della  commissione  esecuti¬ 
va;  e  la  sua  autorità  non  era  affatto  indiscussa  e  venerata  come 
quella  di  un  capo  carismatico.  Per  i  fascisti  che  lo  conoscevano 
era  il  «compagno»  o  r«amico  Benito»,  per  gli  altri  era  «il  prof. 
Mussolini»'’.  Quando  il  fascismo  divenne  un  movimento  di  mas¬ 
sa,  Mussolini  dovette  far  fronte  ad  una  vera  e  propria  rivolta  dei 
principali  capi  squadristi  contro  le  sue  pretese  di  essere  ricono¬ 
sciuto  come  fondatore  e  duce  del  fascismo.  Soltanto  dopo  il  con¬ 
gresso  del  novembre  1921,  che  sanzionò  la  trasformazione  del 
movimento  in  partito,  Mussohni  venne  accettato  come  duce  del 
fascismo,  anche  se  ciò  non  implicava  alcuna  autorità  dittatoriale, 
sul  tipo  di  quella  che  riuscì  ad  ottenere  Adolf  Hitler,  in  quello 
stesso  anno,  nel  partito  nazionalsocialista^.  La  figura  di  Mussoli¬ 
ni  si  impose  allora  più  per  le  sue  doti  politiche  che  per  il  rico¬ 
noscimento  in  lui,  da  parte  dei  fascisti,  di  straordinarie  doti  ca¬ 
rismatiche.  Egli,  cioè,  fu  accettato  come  duce  dopo  che  i  capi 
provinciali,  fallita  la  rivolta  antimussoliniana  e  il  tentativo  di  por¬ 
re  alla  guida  del  fascismo  D’Annunzio,  si  erano  resi  conto  che 
nessuno  di  loro  poteva  seriamente  contendere  a  Mussolini  la  gui¬ 
da  del  movimento  e  preservarne  nello  stesso  tempo  l’unità.  Mus¬ 
solini  era  l’unico  in  grado  di  tenere  unito  quell’insieme  precario 
di  potentati  locali  che  era  allora  il  fascismo.  Ma  anche  dopo  l’an¬ 
data  al  potere,  emersero  nuovamente,  all’interno  del  fascismo,  re¬ 
sistenze  contro  la  pretesa  di  Mussolini  di  esercitare,  facendo  le¬ 
va  sulla  sua  autorità  di  presidente  del  Consiglio,  una  autorità  as- 


*  Cfr.  M.  Gradi,  Il  sindacato  nel  fascismo,  Roma  1987,  p.  45. 

^  Cfr.  R.  De  Felice,  Mussolini  il  fascista.  I.  La  conquista  del  potere  1921- 
1925,  Torino  1966,  pp.  149-193;  E.  Gentile,  Storia  del  partito  fascista.  1919- 
1922.  Movimento  e  milizia,  Roma-Bari  1989,  cap.  IV;  sulla  posizione  di  Hitler 
nel  partito  nazionalsocialista,  cfr.  D.  Orlow,  The  History  of  thè  Nazy  Party,  voi. 
I,  Newton  Abbot  1969,  pp.  23-36;  W.  Horn,  Fiihrerideologie  und  Parteiorga- 
nisation  in  der  NSDAP  (1919-1933),  Dùsseldorf  1972,  pp.  45-74.  Sulla  com¬ 
plessa  e  discussa  teoria  del  capo  carismatico  di  M.  Weber,  cfr.  in  particolare 
L.  Cavalli,  Il  capo  carismatico,  Bologna  1981;  A.  Schweitzer,  The  Age  of  Chari- 
sma,  Chicago  1984. 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


239 


soluta  e  indiscutibile  come  duce  del  fascismo,  cui  era  dovuta  una 
totale  obbedienza.  Nelle  varie  crisi  che  sconquassarono  il  parti¬ 
to  fascista  fra  il  1923  e  il  1925,  ci  furono  fascisti  che  respinsero 
l’identificazione  fra  fascismo  e  mussolinismo.  Ancora  nel  1924, 
Camillo  Pellizzi  ricordava  a  Mussolini  che  «un  grande  moto  po¬ 
litico,  o  una  nazione  in  marcia,  non  si  riassume  mai  totalmente 
in  un  Capo.  Così  il  Fascismo  non  si  riassume  in  Voi»^. 

Tuttavia  proprio  queste  crisi  favorirono  l’ascesa  del  mito  del 
Duce,  esaltato,  spontaneamente  e  strumentalmente,  come  unico 
fattore  di  coesione  del  fascismo  e  unico  punto  di  riferimento  al 
di  sopra  dei  potentati  fascisti  locali.  Nelle  rivalità  fra  i  capi  fa¬ 
scisti,  tutti  finivano  col  fare  ricorso  all’autorità  di  Mussolini  per 
legittimare  le  loro  azioni,  contribuendo  così  ad  accrescerla.  Con 
la  costruzione  del  regime  fascista,  l’autorità  di  Mussolini  si  af¬ 
fermò  ormai  incontrastata,  dando  nuovo  prestigio  al  mito  del  du¬ 
ce,  come  elemento  necessario  di  coesione  e  di  stabilità  nell’equi- 
librio  di  forze  che  costituivano  il  regime,  e  come  supremo  arbi¬ 
tro  e  mediatore  fra  i  vari  «ducetti»,  che  potevano  collaborare  su¬ 
perando  le  loro  rivalità  d’ambizione  solo  sottomettendosi  insie¬ 
me  all’autorità  del  duce^.  Durante  le  varie  fasi  di  costruzione  del 
regime  fascista,  la  posizione  del  duce  fu  codificata  negli  ordina¬ 
menti  del  partito  e  dello  Stato  in  forme  che  ne  accentuarono  pro¬ 
gressivamente  la  superiorità  come  capo  del  fascismo.  Nello  sta¬ 
tuto  del  1926,  la  figura  del  duce  appare  per  la  prima  volta  nel¬ 
l’ordinamento  del  partito,  collocata  al  vertice  della  gerarchia  del 
PNF  come  «guida  suprema».  Il  primo  catechismo  di  dottrina  fa¬ 
scista,  approntato  da  Turati  e  destinato  ai  giovani  e  al  popolo,  si 
concludeva  con  domande  e  risposte  sul  duce  e  con  il  giuramen¬ 
to  fascista,  definito  «dovere  degl’italiani  verso  Mussolini  e  verso 
la  Rivoluzione  fascista»^®.  Nello  statuto  del  1932,  il  duce  venne 
innalzato  al  di  sopra  e  collocato  al  di  fuori  della  gerarchia,  e  in 
quello  del  1938  fu  formalmente  definito  «Capo  del  PNF».  Nel 
1938  fu  pubblicato  dal  PNF  il  nuovo  catechismo  di  dottrina  fa¬ 
scista,  aggiornato  l’anno  successivo  con  la  sezione  dedicata  alla 
«difesa  della  razza»,  nel  quale  il  duce  era  definito  «il  creatore  del 


*  C.  Pellizzi,  Fascismo-aristocrazia,  Milano  1925,  p.  8. 

^  Cfr.  M.  Rivoire,  Vita  e  morte  del  fascismo,  Milano  1947,  p.  107. 
La  dottrina  fascista,  Roma  1929,  p.  62. 


240 


Il  culto  del  littorio 


fascismo,  il  rinnovatore  della  società  civile,  il  Capo  del  popolo 
italiano,  il  fondatore  dell’Impero»^^.  Nel  corso  della  sistemazio¬ 
ne  costituzionale  degli  istituti  del  regime  fascista,  in  continua  evo¬ 
luzione,  la  figura  del  duce  acquistò  un  significato  giuridico,  per¬ 
ché  con  tale  qualifica  si  intendeva  non  solo  il  «duce  del  partito» 
ma  «il  Duce  del  Fascismo,  cioè  la  guida,  il  Capo  supremo  del  Re¬ 
gime,  che  si  identifica  ormai  indissolubilmente  con  lo  Stato»^^. 
Si  giunse  così  alla  piena  inserzione  del  mito  mussoliniano  nella 
struttura  giuridica  e  istituzionale  dello  Stato  fascista,  che  venne 
ad  assumere  quella  particolare  fisionomia  di  cesarismo  totalitario, 
come  l’abbiamo  definito^^  data  l’estensione  e  l’intensità  delle  at¬ 
tribuzioni  riservate  a  Mussolini,  in  quanto  «mito»  e  «duce»,  nel¬ 
la  prassi,  nella  legislazione,  nella  teologia  e  nella  liturgia  dello  Sta¬ 
to  fascista. 

L’affermazione  e  l’istituzionalizzazione  del  mito  e  del  culto  del 
duce  non  sono  riducibili  però  soltanto  alle  vicende  interne  del 
fascismo.  Il  mito  del  duce,  quale  emerse  dopo  la  «marcia  su  Ro¬ 
ma»,  fu  costituito  da  elementi  molteplici,  anche  esterni  al  fasci¬ 
smo.  E  perciò  opportuno,  come  è  stato  giustamente  osservato^*^, 
fare  una  distinzione  fra  le  manifestazioni  propriamente  fasciste 
del  mito  e  del  culto  del  duce,  riconducibili  a  motivazioni  pro¬ 
priamente  politiche  e  ideologiche,  e  le  manifestazioni  generica¬ 
mente  popolari,  spesso  prive  di  queste  motivazioni. 


Il  culto  del  capo 

Le  basi  per  istituire  il  culto  del  duce,  come  capo  assoluto  e 
indiscusso  del  fascismo,  furono  poste  con  l’istituzionalizzazione 
della  religione  fascista,  trasformando  il  rapporto  fra  il  duce  e  i  fa¬ 
scisti  in  una  relazione  carismatica  di  dedizione  ed  obbedienza  ba¬ 
sata  sulla  fede  e  sul  riconoscimento  a  Mussolini  della  qualità  di 

"  Il  primo  libro  del  fascista,  Roma  1938. 

La  legislazione  fascista  nella  XXIX  Legislatura  1931-1939,  Roma  s.d.,  voi. 
I,  p.  13. 

Lfr.  E.  Gentile,  Partito,  Stato  e  Duce  nella  mitologia  e  nella  organizza¬ 
zione  del  fascismo,  in  K.D.  Bracher,  L.  Valiani  (a  cura  di),  Fascismo  e  nazio¬ 
nalsocialismo,  Bologna  1986,  pp.  265-294. 

'‘1  De  Felice,  Coglia,  Mussolini  cit.,  p.  11. 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


241 


fondatore  e  massimo  interprete  del  fascismo  e  della  sua  missio¬ 
ne  storica.  Da  questo  punto  di  vista,  fu  Augusto  Turati,  segreta¬ 
rio  del  PNF  dal  1926  al  1930,  il  fondatore  del  culto.  Awiando  il 
processo  di  mussolinizzazione  del  fascismo.  Turati  collocò  il  du¬ 
ce  sull’altare  del  culto  del  littorio,  offrendolo  alla  venerazione 
delle  masse  fasciste.  Mussolini,  proclamava  Turati,  era  il  Capo 
«che  la  Rivoluzione  ha  voluto  dal  1914  al  1922  -  che  nell’Otto¬ 
bre  l’ha  attuata  -  che  da  allora  la  guida.  Un  Capo,  il  solo  Capo, 
da  cui  ogni  potere  promana.  Il  pilota,  il  solo  pilota  cui  nessuna 
ciurma  può  sostituirsi»^^,  «intento  a  plasmare  la  creatura  nuova 
italiana,  tutta  tesa,  anima  e  corpo,  al  grande  domani»*^,  con  la 
sua  mente  «geniale  e  possente»^^.  Il  duce  era  anche  «il  più  bel¬ 
lo,  il  più  forte,  il  più  buono  dei  figli»  della  Madre  Italia’^^.  Ma  la 
formalizzazione  del  culto  del  duce  fu  soprattutto  opera  di  Stara- 
ce^^,  che  moltiplicò  le  formule  e  i  riti  di  devozione,  dal  modo  in 
cui  si  doveva  scrivere  la  parola  «duce»,  tutta  in  maiuscolo,  al  ce¬ 
rimoniale  che  doveva  accompagnare  l’apparizione  pubblica  di 
Mussolini,  con  il  rito  del  «Saluto  al  duce»^”. 

Con  la  istituzione  del  culto  del  littorio,  l’esaltazione  della  fi¬ 
gura  di  Mussolini  divenne  la  principale  attività  della  «fabbrica 
del  consenso»^ h  che  lavorò  a  ritmo  sempre  più  intenso  per 
diffondere  fra  le  masse  il  mito  e  il  culto  del  duce,  rendendo  la 
sua  immagine  onnipresente,  rappresentandolo  come  un  «eroe  dai 
mille  volti».  La  dilatazione  della  dimensione  di  grandezza  attri¬ 
buita  alla  personalità  mussoliniana  non  conobbe  più  limiti  né  di 
tempo  né  di  spazio.  La  santificazione  proposta  nella  mostra  del- 

A.  Turati,  Dna  rivoluzione  e  un  capo,  Roma-Milano  s.d.  (1927),  p.  143. 

Id.,  Ragioni  ideali  di  vita  fascista,  Roma  s.d.  (1926),  p.  79. 

12  Ivi,  p.  58. 

1®  A.  Turati,  Il  partito  e  i  suoi  compiti,  Roma  s.d.  (1928),  p.  XXV. 

11  Cfr.  P.  Pombeni,  Demagogia  e  tirannide,  Bologna  1984,  pp.  243-241. 

2"  Dopo  la  conquista  dellTmpero,  Starace  mutò  la  formula  del  rito  in  «Ca¬ 
micie  nere,  salutate  nel  duce  il  fondatore  dellTmpero»,  ma  la  nuova  formula 
irritò  Mussolini,  che  ne  chiese  la  revoca  perché  gli  suonava  come  «una  litania. 
Verrebbe  voglia  di  finire  con  un  Amen  [...]  È  troppo  lunga.  Se  non  lo  dirà  nes¬ 
suno  ‘Amen’  lo  dirò  io».  Cfr.  ACS,  SPD,  CR,  b.  46,  telegrammi  di  Mussolini 
a  O.  Sebastiani,  Forlì  27  e  28  maggio  1937,  cit.  in  S.  Setta,  Achille  Starace,  in 
F.  Cordova  (a  cura  di).  Domini  e  volti  del  fascismo,  Roma  1980,  p.  468. 

2'  Cfr.  P.V.  Cannistraro,  La  fabbrica  del  consenso.  Fascismo  e  mass  media, 
Roma-Bari  1975. 


242 


Il  culto  del  littorio 


la  rivoluzione  fascista,  come  profeta,  salvatore,  artefice  e  guida 
della  nazione,  era  soltanto  uno  degli  aspetti  della  trasfigurazione 
mitica  di  Mussolini.  Egli  veniva  rappresentato,  al  di  sopra  della 
scena  italiana,  come  la  somma  e  la  sintesi  superiore  d’ogni  tipo 
di  grandezza  d’uomo  di  pensiero  e  d’uomo  d’azione  mai  appar¬ 
si  in  qualsiasi  epoca;  statista,  legislatore,  filosofo,  scrittore,  arti¬ 
sta,  genio  universale  ma  anche  profeta,  messia,  apostolo,  maestro 
infallibile,  inviato  da  Dio,  eletto  dal  destino  e  portatore  di  desti¬ 
no,  annunciato  dai  profeti  del  Risorgimento,  da  Crispi,  da  Oria- 
ni,  da  Sorel,  da  Battisti,  da  Corridoni.  Per  definire  la  sua  gran¬ 
dezza  lo  si  paragonava  a  Cesare  e  ad  Augusto,  a  Machiavelli  e  a 
Napoleone,  a  Socrate  e  a  Platone,  a  Mazzini  e  a  Garibaldi,  fino 
ad  arrivare  a  san  Francesco,  a  Cristo  e  a  Dio  stesso  perché,  scri¬ 
veva  Asvero  Gravelli,  Dio  e  la  storia  oggi  significano  MussolinP^. 
Un  anonimo  informatore  scriveva  in  un  rapporto  del  tutto  riser¬ 
vato:  «Il  Fascismo  è  una  religione,  religione  che  ha  trovato  il  suo 
Dio.  Lo  zelo  dei  fedeli  deve  mettere  il  popolo  quanto  più  vicino 
alla  statura  morale  del  Duce  e  far  sì  che  questi  non  debba  mai 
come  lo  Spinoza,  chiedere  a  sé  stesso:  se  non  avessero  trovato 
[sic!]  mi  avrebbero  cercato»^^.  Per  uno  dei  più  esaltati  cantori 
del  culto  del  duce.  Mussolini  incarnava  l’essenza  stessa  del  «mi¬ 
to  dell’Eroe»: 

La  sua  figura  spicca,  già  monolitica,  nell’attualità,  nella  storia,  nel¬ 
le  proiezioni  dell’avvenire,  dominante  uomini  e  cose,  come  principe 
degli  uomini  di  Stato,  come  genio  della  Stirpe,  come  salvatore  dell’I¬ 
talia,  come  romano,  nella  realtà  e  nel  mito,  di  Roma  imperiale,  come 
personificazione  e  sintesi  dell’idea-Populus,  come  grande  iniziato  [...] 
Egli  seguì  sin  dall’inizio  la  prassi  dell’Eroe  [che]  parte  solo  alla  con¬ 
quista  del  suo  mondo,  che  esiste,  prima  e  soltanto  nelle  sue  elabora¬ 
zioni  dello  spirito  [...]  il  mito  dell’Eroe  è  una  proiezione  di  tutti  i  mi¬ 
ti  della  divinità  [...]  [Mussolini]  è  tutto  l’Eroe  in  una  luminosità  so¬ 
lare,  è  il  Genio  ispiratore  e  creatore:  è  l’Animatore  che  trascina  e  con¬ 
quista,  è  Lui:  l’interezza  massiccia  del  mito  e  della  realtà  [...]  La  Ri¬ 
voluzione  è  Lui,  Lui  è  la  Rivoluzione.^'* 

Cit.  in  Hasler,  Das  Duce  cit.,  p.  485. 

2^  ACS,  PNF,  SPEP,  b.  7,  Milano  5  febbraio  1931. 

2“*  O.  Dinaie,  La  Mostra  della  Rivoluzione.  Lui:  Mussolini,  in  «Giovanni  fa¬ 
scista»,  1“  marzo  1934. 


V7.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


243 


La  glorificazione  della  figura  di  Mussolini,  come  un  nume  vi¬ 
vente,  divenne  un  aspetto  predominante  nell’attività  di  fascistiz¬ 
zazione  delle  nuove  generazioni,  alle  quali  Mussolini  era  presen¬ 
tato  come  il  più  grande  dei  grandi  uomini  di  tutti  i  tempi,  un  nuo¬ 
vo  Cesare,  il  capo  cui  si  doveva  donare  la  propria  vita,  anima  e  cor- 
po^^.  Il  Breviario  dell’ Avanguardista,  che  accompagnava  i  giovani 
nelle  crociere  organizzate  dall’Opera  nazionale  Balilla,  recitava: 
«Tu  non  sei.  Avanguardista,  se  non  perché  prima  di  te,  con  te  e  do¬ 
po  di  te.  Egli  e  soltanto  Egh  è»^^.  Un  alone  di  santità  circondava 
anche  la  devozione  per  la  memoria  dei  genitori  del  duce  e  il  luogo 
della  sua  nascita  a  Predappio,  meta  di  pellegrinaggio  delle  orga¬ 
nizzazioni  giovanili.  Nel  1930  sorse  anche  una  scuola  di  «Mistica 
fascista»,  per  iniziativa  di  giovani  universitari  che  volevano  dedi¬ 
carsi  interamente  al  culto  di  Mussolini,  abbeverandosi  a  quella  che 
essi  consideravano  la  fonte  della  religione  fascista:  «La  fonte,  la  so¬ 
la,  l’unica  fonte  della  mistica  è  infatti  Mussolini,  soltanto,  esclusi¬ 
vamente  Mussolini»^^.  I  mistici,  che  avevano  eletto  a  loro  maestro 
spirituale  il  fratello  del  duce,  Arnaldo,  meditavano  sugli  scritti  e  i 
discorsi  del  duce  e  ispiravano  la  loro  condotta  di  vita  all’ideale  di 
una  dedizione  totale,  fino  al  sacrificio  della  vita.  Anche  sposarsi  e 
procreare  era  sentito  dai  giovani  mistici  come  un  atto  di  obbe¬ 
dienza  e  di  devozione  al  duce.  Alcuni  dei  principali  cultori  della 
mistica  mussoliniana,  come  il  fondatore  Niccolò  Giani,  morirono 
in  guerra  dove  erano  andati  volontari.  La  scuola,  mescolando  con¬ 
fusamente  religione  fascista  e  religione  cattolica,  svolgeva  cicli  di 
lezioni  che  si  ispiravano  al  pensiero  del  duce,  lo  illustravano  e  lo 
sviluppavano  nella  elaborazione  di  una  visione  mistica  della  rivo¬ 
luzione  fascista,  dei  problemi  della  storia  e  della  vita  italiana.  Nel 
1940  la  scuola  istituì  anche  corsi  di  mistica  per  i  maestri  elementa¬ 
ri  desiderosi  di  «vivificare  la  propria  fede  nei  valori  spirituali  e  nei 
principi  della  Rivoluzione  traendo  dal  Mito  Mussoliniano  le  diret¬ 
tive  d’azione  pedagogica»^^. 

25  Cfr.  M.  Ostenc,  La  mystique  du  chef  et  la  jeunesse  fasciste  de  1919  à  1926, 
in  «Mélanges  de  l’École  frangaise  de  Rome»,  1,  1978,  pp.  275-290. 

2^  Il  breviario  dell’ Avanguardista,  Roma  1928,  p.  631. 

22  Cit.  in  D.  Marchesini,  La  scuola  dei  gerarchi,  Milano  1976,  p.  121;  cfr. 
anche  M.L.  Retri,  Tra  politica  e  cultura.  La  scuola  di  mistica  fascista,  in  «Storia 
in  Lombardia»,  n.  1-2,  1989,  pp.  377-398. 

2*  ACS,  PNF,  DN,  b.  202,  fase.  «Scuola  di  Mistica  Fascista». 


244 


Il  culto  del  littorio 


La  funzione  educatrice  e  catartica  era  considerata  inerente  al¬ 
l’essenza  stessa  del  culto  del  duce  perché,  si  affermava,  non  v’e- 
ra  strato  della  vita  nazionale  che  non  fosse  investito  dalla  «peda¬ 
gogia  mussoliniana»:  «E  assistiamo  felici  allo  spettacolo  divino  di 
un  popolo  che  s’alza  sempre  più  nella  luce,  ascoltando  il  Verbo 
del  Capo,  che  ogni  dì  si  fa  azione,  sangue,  carne,  ritmo,  luce  di 
vita,  religiosa  missione.  -  E  mentre  affascina  per  il  suo  contenu¬ 
to  eroico  ed  alto,  palesa  il  metodo  unico,  per  salire,  nella  febbre 
perenne  della  devozione  alla  Patria  romana,  verso  le  vette  di 
Dio»^^.  Mussohni  era  «il  prototipo  dell’italiano  nuovo»,  il  «mo¬ 
dello  vivente  ed  operante  dell’individualità  etica  e  politica  alla 
quale  dobbiamo  somigliare»^*'.  Un  noto  studioso  del  pensiero 
machiavelliano  affermò  che  Mussolini  educava  gli  italiani  «col 
semplice  guardarli  negli  occhi»  e  le  nuove  generazioni  anelavano 
«a  modellarsi  sull’esempio  vivo  del  CAPO»^b 

Al  di  là  degli  aspetti  più  grotteschi  e  ridicoli  delle  sue  mani¬ 
festazioni,  il  culto  del  duce  si  inseriva,  con  una  propria  logica  fun¬ 
zionalità,  nel  progetto  di  educazione  deir«armonico  collettivo» 
per  la  creazione  di  una  nuova  civiltà.  La  nascita  di  una  civiltà, 
per  i  fascisti,  come  abbiamo  visto,  è  opera  di  un  capo  fondatore 
che  plasma  una  collettività  sotto  l’azione  di  un  mito.  In  questa 
prospettiva.  Mussolini  appariva  ai  fascisti  come  una  straordina¬ 
ria  figura  di  fondatore  di  civiltà  che  era  anche,  egli  stesso,  un  mi¬ 
to  vivente  che  operava  come  forza  plasmatrice  sull’animo  della 
massa,  per  istillare  in  essa  la  nuova  fede  e  trasformarla  in  una  co¬ 
munità  morale  organizzata  totalitariamente.  L’avvenimento  capi¬ 
tale  realizzato  da  Mussolini,  affermava  Paolo  Orano,  era  «il  pa¬ 
triottismo  intensificato  sino  ad  un  misticismo,  la  santità  il  marti¬ 
rio  la  fede,  considerate  come  forze  di  costruzione  civile»:  quindi 
il  «mussolinismo  è  religione»,  nel  senso  che  la  fede  nel  duce  è  «la 
fase  preparativa  di  un  religiosismo  italiano,  di  una  italianità  reli¬ 
giosa»^^. 

A.  Cammarata,  Pedagogia  di  Mussolini,  Palermo  1932. 

R.  Cantalupo,  La  classe  dirigente,  Milano  1928,  pp.  74-75. 

F.  Ercole,  prefazione  a  F.  Ciarlantini,  Il  Capo  e  la  folla,  Milano  1935,  pp. 
8-9. 

P.  Orano,  Mussolini  da  vicino,  Roma  1928,  pp.  21-24. 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’italiay 


245 


Il  duce  e  i  gerarchi 

Ma  pur  partecipando,  con  più  o  meno  autentica  fede  e  con¬ 
vinzione,  alla  glorificazione  del  culto  di  Mussolini,  i  fascisti  che 
credevano  nel  fascismo  come  religione  politica  di  una  nuova  ci¬ 
viltà,  non  risolvevano  il  fascismo  nel  mussolinismo,  anche  se  con¬ 
sideravano  il  mussolinismo  un  fattore  essenziale  e  determinante, 
secondo  le  loro  categorie  culturali,  per  poter  gettare  le  fonda- 
menta  della  nuova  civiltà.  Questo  concetto  della  funzione  del  cul¬ 
to  del  duce  nell’ambito  della  religione  fascista,  in  quanto  mito  vi¬ 
vente,  era  formulato  chiaramente,  pur  con  usuale  enfasi  iperbo¬ 
lica,  da  «Critica  fascista»^^: 

Alla  religiosità  civile  di  un  popolo  occorre  un  punto  di  concen¬ 
trazione.  Da  tempo  immemorabile  occorreva  all’Italia  una  grande  fi¬ 
gura  che  assurgesse  a  simbolo  nazionale,  a  divinità,  a  mito  unificato¬ 
re  e  animatore  della  nostra  storia:  ed  ecco  Mussolini  [...]  io  credo  ed 
affermo  che  né  Cavour,  né  Mazzini,  né  Garibaldi  saranno  storica¬ 
mente  confrontabili  a  Mussolini.  Nessuno  dei  tre  raggiunse  l’univer¬ 
salità  costruttiva,  la  completa  personalità  umana  di  Mussolini,  nessu¬ 
no  tanta  unanimità  di  consensi  ed  eguale  potenza  trascinatrice,  nes¬ 
suno  fu  gravato  da  altrettanta  responsabilità  od  ebbe  campo  d’azio¬ 
ne  così  vasto. 

Il  mito  Mussolini  durerà  come  quello  di  Romolo  e  di  Cesare;  il 
nome  del  Duce  non  potrà  in  futuro  servire  da  bandiera  di  un  partito 
contro  un  altro,  ma  sarà  simbolo  della  nazione  intera  e  sola  in  faccia 
al  mondo. 

Proprio  in  quanto  simbolo  e  mito  vivente  in  cui  si  incarnava 
la  religione  fascista,  il  culto  di  Mussolini  si  affermò  soprattutto 
dopo  l’istaurazione  del  regime,  quando,  superate  le  ultime  con¬ 
testazioni  da  parte  di  esponenti  fascisti  riottosi  e  ribelli,  si  impo¬ 
se  senza  più  resistenze,  permeando  di  sé  interamente  la  menta¬ 
lità  e  la  cultura  del  fascismo. 

A  favorire  questo  processo,  oltre  le  particolari  condizioni  di 
tipo  politico,  propagandistico  e  funzionale,  vi  furono  altri  fatto¬ 
ri  propriamente  culturali  e  ideologici,  che  si  ricollegavano  alla  lo- 


G.  Pini,  Divagazioni,  in  «Critica  fascista»,  1°  dicembre  1927. 


246 


Il  culto  del  littorio 


gica  del  fascismo  come  religione.  È,  infatti,  nel  contesto  del  pen¬ 
siero  mitico  che  il  fascismo  elaborò  una  propria  concezione  del 
capo  carismatico.  Nella  teologia  politica  di  Gentile,  Mussolini  era 
investito  del  carisma  che  gli  conferiva  Tessere  Tincarnazione  vi¬ 
vente  delT«idea  fascista»,  che  attraverso  la  sua  personalità  si  at¬ 
tuava  nella  storia:  il  duce,  affermò  Gentile,  è  «un  eroe,  uno  spi¬ 
rito  privilegiato  e  provvidenziale,  in  cui  il  pensiero  s’è  incarnato, 
e  vibra  incessantemente  col  ritmo  potente  d’una  vita  giovanile  e 
in  pieno  rigoglio»^'*.  I  riconoscimenti  del  carisma  mussoliniano 
divennero  sempre  più  frequenti  fra  i  suoi  collaboratori,  dopo  la 
sua  andata  al  potere.  Giovanni  Giuriati  scriveva  a  Mussolini  il  10 
marzo  1923  professandogli  la  sua  «fede  fermissima  che  tu  sia  d 
Veltro  vaticinato  da  Dante»^^.  Quando  Bottai,  nel  luglio  1932,  fu 
dimissionato  dalla  carica  di  ministro  delle  Corporazioni,  disse  a 
Mussolini  che  accettava  la  sua  decisione  con  «animo  sereno»:  «mi 
assalirà  solo,  talvolta,  la  nostalgia  del  Capo,  della  sua  presenza, 
del  suo  ordine.  Cercherò  di  superarla,  pensando  che  anche  nel¬ 
la  mia  vita  privata,  come  ormai  da  tanti  anni.  Mussolini  opererà 
come  una  forza  incessante  di  miglioramento  e  di  perfeziona¬ 
mento»^^.  Certamente,  nella  relazione  di  potere  fra  il  duce  e  i  ge¬ 
rarchi,  i  quali  rivaleggiavano  per  conquistare  le  chiavi  del  suo 
cuore,  simili  attestati  potevano  essere  dettati  da  meri  calcoli  di 
opportunismo,  di  ambizione,  di  interesse,  e  forse  anche  da  pau¬ 
ra.  Tuttavia,  la  pubblicazione  di  scritti  intimi  e  autobiografici  di 
esponenti  fascisti,  apparsi  dopo  il  croUo  del  mito  mussoliniano  e 
dopo  la  morte  dei  loro  autori,  come  per  esempio  il  diario  di  Bot¬ 
tai  e  le  memorie  di  Tullio  Cianetti,  ci  consente  di  constatare  che, 
all’origine  del  culto  del  duce,  vi  era  una  dedizione  spontanea  e 
sincera,  tipica  di  una  cultura  che  credeva  nel  mito  dell’eroe  e  nel 
culto  del  capo  come  massimi  fattori  di  storia.  Per  esempio,  Giu¬ 
riati,  che  all’inizio  degli  anni  Trenta  si  era  allontanato  dal  potere 
e  dallo  stesso  Mussolini,  deluso  dal  suo  capo  dopo  la  breve  e  de¬ 
fatigante  esperienza  di  segretario  del  PNF,  e  che  non  aderì  alla 
Repubblica  sociale,  riflettendo  sul  culto  del  duce  dopo  la  cadu- 

G.  Gentile,  Fascismo  e  cultura,  Milano  1928,  p.  47,  discorso  inaugurale 
all’Istituto  nazionale  fascista  di  cultura,  19  dicembre  1925. 

Cit.  in  E.  Gentile,  introduzione  a  G.  Giuriati,  La  parabola  di  Mussolini 
nelle  memorie  di  un  gerarca,  Roma-Bari  1981,  p.  XXVni. 

ACS,  SPD,  CR,  b.  65,  fase.  «Bottai». 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


247 


ta  del  regime,  confermava  di  avere  veramente  creduto  che  Mus¬ 
solini  fosse  «l’uomo  predestinato  a  ricongiungere  in  Roma,  se¬ 
condo  l’idea  di  Dante,  i  due  simboli  sacri,  la  Croce  e  TAquilà:  a 
fugare,  non  dall’Italia  soltanto,  ma  dalla  faccia  della  terra,  il  di¬ 
sordine  morale  e  civile,  l’eresia  e  la  guerra»^^.  Bottai,  nel  mo¬ 
mento  di  partire  per  la  zona  di  guerra  nel  1941  su  ordine  di  Mus¬ 
solini,  annotava  nel  suo  diario:  «Dal  mio  Capo  non  ho  avuto,  par¬ 
tendo,  il  saluto  da  uomo  a  uomo,  cui  soltanto  la  mia  anima  di 
gregario  fedele  aspirava.  Ma  fedele  gli  sono  [...]  e  gli  dedico  la 
mia  morte,  che  con  quella  di  tanti  e  tanti  soldati  sia  per  il  suo  spi¬ 
rito  feconda  di  rinnovamento  morale  della  nostra  Italia»^^. 

Il  destino  della  prima  generazione  fascista  si  identificò  con  il 
destino  di  Mussolini.  Gerarchi  come  Grandi,  Bottai,  Balbo,  Fa¬ 
rinacci,  Bastianini,  Cianetti,  pur  riconoscendo  i  limiti  dell’uomo 
e  la  sua  progressiva  involuzione,  quanto  più  Mussolini  stesso  di¬ 
veniva  prigioniero  del  suo  mito,  sentivano  di  dovere  a  Mussolini 
se,  ancora  giovani,  erano  emersi  dalla  prospettiva  di  un’esistenza 
anonima  di  piccoli  borghesi,  per  essere  elevati  nel  tempo  della 
Storia,  trasformati  in  artefici  di  storia.  Essi  erano  convinti  di  par¬ 
tecipare  con  Mussolini,  e  grazie  a  lui,  ad  una  grande  impresa  che 
avrebbe  segnato  un  epoca  nella  storia  della  civiltà.  Tipico  è  il  ca¬ 
so  di  Tullio  Cianetti,  figlio  di  un  mezzadro,  che  percorse  il  cam¬ 
mino  gerarchico  nelle  organizzazioni  sindacali  fino  a  diventare 
nel  maggio  1943  ministro  delle  Corporazioni.  Nelle  sue  memo¬ 
rie,  Cianetti  illustra  con  vivace  sensibilità  di  testimone  il  feno¬ 
meno  del  carisma  mussoliniano,  ed  d  suo  progressivo  logora¬ 
mento  negli  anni  della  seconda  guerra  mondiale.  Pur  avendo  pa¬ 
tito  da  Mussolini  cocenti  delusioni,  egli  racconta  che  quando  fu 
innalzato  ai  vertici  di  un  regime  in  agonia,  fu  infiammato  dal¬ 
l’entusiasmo: 

«Sono  un  Ministro  di  Mussolini»  -  mi  dicevo  -  «sono  al  fianco  di 
una  grande  figura  della  Storia,  di  un  autentico  creatore  di  Storia.  Lo 
ho  amato  tanto  quest’uomo  affascinante  e  certamente  lo  amo  ancora. 
In  ventun  anni  non  sono  mancate  le  delusioni,  ma  la  vita  non  è  fatta 
di  soli  fiori  e  di  profumi.  Mussolini  è  forse  la  figura  più  sconcertante 


Giuriati,  La  parabola  di  Mussolini  cit.,  p.  39. 

G.  Bottai,  Diario  1935-1944,  a  cura  di  G.B.  Guerri,  Milano  1982,  p.  256. 


248 


Il  culto  del  littorio 


tra  i  condottieri  che  si  conoscono;  parla  come  un  genio,  ma  scivola 
nella  puerilità  più  banale;  parte  con  fermezza  e  si  trastulla  con  i  ca¬ 
pricci  di  bimbo  viziato;  predica  come  un  grande  iniziato  e  lascia  per¬ 
plessi,  con  una  frase  di  cinismo;  si  assoggetta  ad  uno  spaventoso  la¬ 
voro  per  il  suo  popolo  e  ostenta  disprezzo  per  gli  uomini;  invoca  Dio, 
ma  si  compiace  di  enunciare  eresie;  nonostante  ciò  è  pur  sempre  un 
grande  uomo  al  quale  si  offre  volentieri  la  miglior  parte  di  se  stessi».^^ 

Molte  altre  testimonianze  potrebbero  essere  citate,  per  mo¬ 
strare  quanto  sia  stata  forte  la  suggestione  del  mito  mussoliniano 
sugli  stessi  uomini  che  controllavano  e  manovravano  la  macchi¬ 
na  totalitaria  e  non  ignoravano  gli  artifici  della  propaganda  e  gli 
strumenti  della  manipolazione,  con  i  quali  il  culto  del  duce  ve¬ 
niva  propagato  fra  le  masse.  Essi  conoscevano  da  vicino  e  da  an¬ 
ni  Mussolini,  del  quale  non  ignoravano  le  debolezze,  le  meschi¬ 
nità,  il  cinismo,  la  spregiudicata  e  volgare  strumentalizzazione 
degli  uomini  nei  suoi  calcoli  di  potere.  Ma  fin  quando  il  mito  fu 
operante  al  vertice  del  potere,  circonfuso  di  fascino  sacrale,  i  di¬ 
fetti  dell’uomo  furono  obnubilati  dal  riverbero  della  «grandez¬ 
za»  che  gli  veniva  attribuita.  Egli  appariva  come  una  personalità 
smisurata,  posseduto  da  un  intuito  della  storia  che  ne  faceva  un 
grande  protagonista  del  suo  tempo,  investito  d’una  missione  che 
avrebbe  segnato  il  destino  degli  italiani  e  dell’intera  umanità. 
Questa  immagine  sorgeva  da  uno  stato  d’animo  comune  ai  più 
diretti  collaboratori  di  Mussolini  e  con  lui  direttamente  coinvol¬ 
ti  nell’esperienza  del  fascismo  fin  dai  tempi  della  lotta  per  la  con¬ 
quista  del  potere.  Alla  maggior  parte  di  loro,  che  aveva  vissuto 
l’ansia  e  la  ricerca  di  una  «nuova  fede»  negli  anni  giolittiani,  che 
aveva  partecipato  alla  guerra  spinta  dal  mito  della  «rivoluzione 
italiana»,  il  Mussolini  trionfatore  appariva  come  r«eroe  rappre¬ 
sentativo»  della  loro  generazione  e  delle  loro  aspirazioni  di  rige¬ 
nerazione  e  di  grandezza,  l’interprete  e  l’esecutore  della  loro  vo¬ 
lontà  di  potenza  per  plasmare  le  masse  e  riformare  il  carattere 
degli  italiani. 

Nella  coscienza  dei  suoi  più  stretti  collaboratori,  il  mito  del 
Mussolini  «capo»  suscitava,  proprio  in  forza  dell’intensità  cultu- 


T.  Cianetti,  Memorie  dal  carcere  di  Verona,  a  cura  di  R.  De  Felice,  Mila¬ 
no  1983,  p.  373. 


V7.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


249 


tale  e  emozionale  con  la  quale  era  stato  percepito,  sentimenti  di 
dedizione  e  di  identificazione  col  duce,  che  scaturivano  dall’a- 
verne  fatto,  come  scriveva  Bottai  nel  suo  diario,  una  ragione  di 
vitad'^.  Ma  proprio  da  questa  esaltazione  della  figura  del  duce 
emergeva  il  massimo  problema  col  quale  il  fascismo  doveva  con¬ 
frontarsi  nel  tentativo  di  realizzare  il  suo  progetto  totalitario,  tra¬ 
sformando  la  religione  fascista  in  una  fede  collettiva  attraverso  la 
funzione  pedagogica  del  culto  del  duce  come  mito  vivente:  come 
evitare  che  la  mitizzazione  di  Mussolini,  pur  ritenuta  necessaria 
ai  fini  della  politica  totalitaria,  finisse  col  far  dipendere  il  futuro 
dello  Stato  totalitario  dalla  sorte  del  suo  fondatore?  Carlo  Co¬ 
stamagna  segnalò  il  pericolo  nel  1940,  riparandosi  prudente¬ 
mente  dietro  una  citazione  machiavelliana:  «Non  è,  adunque,  la 
salute  di  una  repubblica  o  d’un  regno  avere  uno  principe  che 
prudentemente  governi  mentre  vive;  ma  uno  che  l’ordini  in  mo¬ 
do,  che,  morendo  ancora,  la  si  mantenga»"'^  Il  problema  si  pre¬ 
sentò  più  volte  alla  coscienza  dei  fascisti  più  avvertiti,  ma  anche 
quelli  che  col  tempo  si  resero  conto  della  tendenza  fagocitatrice 
del  mussolinismo  verso  il  fascismo,  si  arresero  di  fronte  ai  suc¬ 
cessi  del  duce,  che  parevano  confermare  la  sua  grandezza,  il  suo 
«genio»,  la  sua  «missione»,  prima  di  essere  trascinati  con  lui  nel¬ 
la  catastrofe: 

Noi  abbiamo  creduto.  Abbiamo  creduto  in  voi.  Duce,  e  la  vostra 
fede  è  stata  ed  è  la  nostra  fede,  ancora  una  volta  consacrata  col  san¬ 
gue.  Abbiamo  vinto  perché  in  ogni  istante  siete  stato  presente  al  no¬ 
stro  spirito,  perché  vi  abbiamo  sempre  seguito  con  assoluta  consape¬ 
vole  fiducia,  così  come  vi  seguiremo  sulle  nuove  vie  luminose  che  ci 
insegnerete."*^ 

Questa  dichiarazione  di  devozione,  inviata  da  Starace  a  Mus¬ 
solini  dopo  la  proclamazione  dell’Impero,  può  essere  assunta  co¬ 
me  attestato  corale  della  dedizione  carismatica  dei  gerarchi:  rias¬ 
sume  le  ragioni  del  culto  del  duce  come  era  concepito  e  pratica¬ 
to  dai  suoi  gregari,  in  una  dimensione  fideistica  che  solo  per  l’a- 

Ivi,  p.  247. 

N.  Machiavelli,  Discorsi  sopra  la  prima  deca  di  Tito  Livio,  I,  11,  cit.  in  C. 
Costamagna,  Dottrina  del  fascismo,  s.l.  1982,  p.  575. 

«Il  Messaggero»,  9  maggio  1936. 


248 


Il  culto  del  littorio 


tra  i  condottieri  che  si  conoscono:  parla  come  un  genio,  ma  scivola 
nella  puerilità  più  banale;  parte  con  fermezza  e  si  trastulla  con  i  ca¬ 
pricci  di  bimbo  viziato;  predica  come  un  grande  iniziato  e  lascia  per¬ 
plessi,  con  una  frase  di  cinismo;  si  assoggetta  ad  uno  spaventoso  la¬ 
voro  per  il  suo  popolo  e  ostenta  disprezzo  per  gli  uomini;  invoca  Dio, 
ma  si  compiace  di  enunciare  eresie;  nonostante  ciò  è  pur  sempre  un 
grande  uomo  al  quale  si  offre  volentieri  la  miglior  parte  di  se  stessi».^^ 

Molte  altre  testimonianze  potrebbero  essere  citate,  per  mo¬ 
strare  quanto  sia  stata  forte  la  suggestione  del  mito  mussoliniano 
sugli  stessi  uomini  che  controllavano  e  manovravano  la  macchi¬ 
na  totalitaria  e  non  ignoravano  gli  artifici  della  propaganda  e  gli 
strumenti  della  manipolazione,  con  i  quali  il  culto  del  duce  ve¬ 
niva  propagato  fra  le  masse.  Essi  conoscevano  da  vicino  e  da  an¬ 
ni  Mussolini,  del  quale  non  ignoravano  le  debolezze,  le  meschi¬ 
nità,  il  cinismo,  la  spregiudicata  e  volgare  strumentalizzazione 
degli  uomini  nei  suoi  calcoli  di  potere.  Ma  fin  quando  il  mito  fu 
operante  al  vertice  del  potere,  circonfuso  di  fascino  sacrale,  i  di¬ 
fetti  dell’uomo  furono  obnubilati  dal  riverbero  della  «grandez¬ 
za»  che  gli  veniva  attribuita.  Egli  appariva  come  una  personalità 
smisurata,  posseduto  da  un  intuito  della  storia  che  ne  faceva  un 
grande  protagonista  del  suo  tempo,  investito  d’una  missione  che 
avrebbe  segnato  il  destino  degli  italiani  e  dell’intera  umanità. 
Questa  immagine  sorgeva  da  uno  stato  d’animo  comune  ai  più 
diretti  collaboratori  di  Mussolini  e  con  lui  direttamente  coinvol¬ 
ti  nell’esperienza  del  fascismo  fin  dai  tempi  della  lotta  per  la  con¬ 
quista  del  potere.  Alla  maggior  parte  di  loro,  che  aveva  vissuto 
l’ansia  e  la  ricerca  di  una  «nuova  fede»  negli  anni  giolittiani,  che 
aveva  partecipato  alla  guerra  spinta  dal  mito  della  «rivoluzione 
italiana»,  il  Mussolini  trionfatore  appariva  come  r«eroe  rappre¬ 
sentativo»  della  loro  generazione  e  delle  loro  aspirazioni  di  rige¬ 
nerazione  e  di  grandezza,  l’interprete  e  l’esecutore  della  loro  vo¬ 
lontà  di  potenza  per  plasmare  le  masse  e  riformare  il  carattere 
degli  italiani. 

Nella  coscienza  dei  suoi  più  stretti  collaboratori,  il  mito  del 
Mussolini  «capo»  suscitava,  proprio  in  forza  dell’intensità  cultu- 


T.  Cianetti,  Memorie  dal  carcere  di  Verona,  a  cura  di  R.  De  Felice,  Mila¬ 
no  1983,  p.  373. 


V7.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


249 


tale  e  emozionale  con  la  quale  era  stato  percepito,  sentimenti  di 
dedizione  e  di  identificazione  col  duce,  che  scaturivano  daU’a- 
verne  fatto,  come  scriveva  Bottai  nel  suo  diario,  una  ragione  di 
vita^^.  Ma  proprio  da  questa  esaltazione  della  figura  del  duce 
emergeva  il  massimo  problema  col  quale  il  fascismo  doveva  con¬ 
frontarsi  nel  tentativo  di  realizzare  il  suo  progetto  totalitario,  tra¬ 
sformando  la  religione  fascista  in  una  fede  collettiva  attraverso  la 
funzione  pedagogica  del  culto  del  duce  come  mito  vivente:  come 
evitare  che  la  mitizzazione  di  Mussolini,  pur  ritenuta  necessaria 
ai  fini  della  politica  totalitaria,  finisse  col  far  dipendere  il  futuro 
dello  Stato  totalitario  dalla  sorte  del  suo  fondatore?  Carlo  Co¬ 
stamagna  segnalò  il  pericolo  nel  1940,  riparandosi  prudente¬ 
mente  dietro  una  citazione  machiavelliana:  «Non  è,  adunque,  la 
salute  di  una  repubblica  o  d’un  regno  avere  uno  principe  che 
prudentemente  governi  mentre  vive;  ma  uno  che  l’ordini  in  mo¬ 
do,  che,  morendo  ancora,  la  si  mantenga»'^h  II  problema  si  pre¬ 
sentò  più  volte  alla  coscienza  dei  fascisti  più  avvertiti,  ma  anche 
quelli  che  col  tempo  si  resero  conto  della  tendenza  fagocitatrice 
del  mussolinismo  verso  il  fascismo,  si  arresero  di  fronte  ai  suc¬ 
cessi  del  duce,  che  parevano  confermare  la  sua  grandezza,  il  suo 
«genio»,  la  sua  «missione»,  prima  di  essere  trascinati  con  lui  nel¬ 
la  catastrofe: 

Noi  abbiamo  creduto.  Abbiamo  creduto  in  voi.  Duce,  e  la  vostra 
fede  è  stata  ed  è  la  nostra  fede,  ancora  una  volta  consacrata  col  san¬ 
gue.  Abbiamo  vinto  perché  in  ogni  istante  siete  stato  presente  al  no¬ 
stro  spirito,  perché  vi  abbiamo  sempre  seguito  con  assoluta  consape¬ 
vole  fiducia,  così  come  vi  seguiremo  sulle  nuove  vie  luminose  che  ci 
insegnerete.'^^ 

Questa  dichiarazione  di  devozione,  inviata  da  Starace  a  Mus¬ 
solini  dopo  la  proclamazione  dell’Impero,  può  essere  assunta  co¬ 
me  attestato  corale  della  dedizione  carismatica  dei  gerarchi:  rias¬ 
sume  le  ragioni  del  culto  del  duce  come  era  concepito  e  pratica¬ 
to  dai  suoi  gregari,  in  una  dimensione  fideistica  che  solo  per  l’a- 

Ivi,  p.  247. 

N.  Machiavelli,  Discorsi  sopra  la  prima  deca  di  Tito  Livio,  I,  11,  cit.  in  C. 
Costamagna,  Dottrina  del  fascismo,  s.l.  1982,  p.  515. 

«Il  Messaggero»,  9  maggio  1936. 


250 


Il  culto  del  littorio 


Spetto  emozionale  si  accordava  con  la  fede  che  animava  il  culto 
del  duce  nelle  masse,  non  per  le  motivazioni  e  i  fini  che  la  cul¬ 
tura  fascista  attribuiva  al  mito  mussoliniano. 


La  fede  della  gente  comune 

Dopo  la  conquista  del  potere,  il  mito  di  Mussolini  trovò  un 
ambiente  favorevole  per  affermarsi  e  diffondersi  anche  al  di  fuo¬ 
ri  del  suo  partito  e,  in  qualche  caso,  contro  di  questo.  La  crisi  ita¬ 
liana  del  dopoguerra  aveva  creato  condizioni  psicologiche  pro¬ 
pizie  per  la  nascita  del  culto  popolare  dell’Uomo  provvidenzia¬ 
le:  «Tutti  avvertono  -  scriveva  nel  1921  il  vecchio  senatore  libe¬ 
rale  Giustino  Fortunato  -  che  l’Italia  si  avvia  alla  guerra  civile 
[...]  tutti  perciò  invocano,  come  ne’  momenti  di  estremo  perico¬ 
lo,  il  provvidenziale  intervento  di  un  Uomo,  -  con  l’U  maiusco¬ 
lo,  -  che  sappia  finalmente  riportare  il  paese  nell’ordine>d^.  E 
quando  Mussolini  giunse  al  potere,  molti  videro  in  lui  l’Uomo 
provvidenziale,  che  avrebbe  riportato  l’ordine  e  la  pace  dopo  ol¬ 
tre  un  decennio  di  sconvolgimenti  sociali  e  politici  senza  prece¬ 
denti.  Per  l’opinione  pubblica  borghese  egli  era  il  salvatore  del¬ 
la  patria  e  il  restauratore  dello  Stato;  per  i  ceti  popolari  che  non 
avevano  subito  la  violenza  fascista,  egli  appariva  come  un  figlio 
del  popolo,  diventato  capo  del  governo  senza  mutare  o  nascon¬ 
dere,  anzi  ostentando  le  sue  origini  popolane,  e  perciò  fu  subito 
circondato  da  ingenua  ammirazione,  mista  a  fiducia  e  speranza 
nella  sua  opera  benefica.  A  favorire  la  diffusione  del  mito  fra  la 
gente  comune,  priva  di  consapevoli  motivazioni  politiche,  pensò 
lo  stesso  Mussolini:  egli  fu  il  primo  presidente  del  Consiglio  che 
visitò  l’Italia  in  lungo  e  in  largo,  recandosi  in  regioni  e  città  do¬ 
ve  i  suoi  predecessori  non  si  erano  mai  recati,  mostrandosi  alla 
folla,  parlando  alle  masse.  Fra  maggio  e  ottobre  del  1923,  Mus¬ 
solini  visitò  il  Veneto,  la  Sardegna,  la  Lombardia,  la  Toscana,  la 
Sicilia,  la  Campania,  l’Abruzzo,  il  Piemonte,  l’Emilia  e  l’Umbria, 
e  ripetè  il  giro  l’anno  successivo.  In  questo  modo,  egli  stabilì  un 

G.  Fortunato,  Dopo  la  guerra  sovvertitrice,  Bari  1922,  riportato  in  Id.,  Il 
Mezzogiorno  e  lo  Stato  italiano,  Firenze  1973,  voi.  II,  p.  702. 


V7.  Il  «nuovo  Dio  d’ltalia> 


251 


contatto  diretto  con  la  gente  comune,  quasi  a  dare  la  sensazione 
fisica  che  essa  fosse  ora  più  vicina  al  potere  e  potesse  finalmen¬ 
te  essere  ascoltata  ed  esaudita.  La  stampa  fascista  contribuì  alla 
formazione  del  mito,  paragonando  i  viaggi  di  Mussolini  a  riti 
compiuti  per  riconsacrare  la  terra  d’Italia  alla  patria.  Torino,  scri¬ 
veva  «Il  Popolo  d’Italia»  il  24  ottobre  1923,  si  apprestava  a  rice¬ 
vere  festosamente  la  visita  di  Mussolini,  che  avrebbe  nuovamen¬ 
te  consacrato  alla  patria  la  «città  rossa»*^*^.  Si  avviava  così  la  sa¬ 
cralizzazione  del  mito  di  Mussolini,  salutato  «sacerdote  della  Pa¬ 
tria»  il  quale  «dopo  aver  elevato  il  calice  delle  nostre  amarezze 
di  italiani  e  spezzata  l’ostia  dei  nostri  sacrifizi  cruenti  e  incruen¬ 
ti  ma  non  perciò  meno  tragici,  giurava  insieme  con  la  folla,  a  ma¬ 
ni  protese,  che,  se  sarà  necessario  ricominciare,  si  ricomincerà»"^^. 
Mussolini,  per  parte  sua,  usava  gesti  simbolici  che  rafforzavano 
questa  immagine,  come  quando,  a  Perugia,  compì  il  rito  sacer¬ 
dotale  di  accendere  la  lampada  votiva  dinanzi  all’altare  consa¬ 
crato  ai  caduti  di  guerra,  ricevendo  l’olio  dalle  mani  della  madre 
di  un  caduto"^^.  «C’è  un  ‘messianismo  fascista’?»  si  domandava 
un  giornalista  francese  nel  1924“^^,  osservando  che,  dall’andata  al 
potere  di  Mussolini,  si  era  assistito  al  sorgere  di  una  leggenda  at¬ 
torno  ad  un  uomo  vivente: 

il  prestigio  personale  del  dittatore  ha  seguito  una  curva  ascendente 
che  l’ha  portato  ai  vertici  dell’idolatria  popolare.  Spontaneamente  e 
artificialmente,  si  è  formata  attorno  a  lui  una  atmosfera  di  silenziosa 
e  cieca  obbedienza,  di  dedizione,  di  venerazione  e  di  paura.  Ed  è  un 
miracolo  continuo  il  fatto  che  questa  popolarità  resista  alla  corrosio¬ 
ne  del  tempo.  Ma  esiste,  non  c’è  dubbio.  La  curiosità  non  bastereb¬ 
be  a  spiegare  la  presenza  nelle  piccole  stazioni  sperdute,  lungo  i  cigli 
della  ferrovia,  ai  passaggi  a  livello,  la  notte,  di  migliaia  di  contadini  o 
di  operai,  ignoti,  sconosciuti,  il  cui  gesto  è  rimasto  senza  risposta,  e 
che  avevano  atteso  ore,  per  salutare  col  braccio  il  treno  misterioso  che 
portava,  come  era  stato  loro  detto,  le  fortune  d’Italia. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  24  ottobre  1923. 

Il  sacerdote  della  Patria,  in  «L’Idea  nazionale»,  23  agosto  1923. 

«Il  Popolo  d’Italia»,  31  ottobre  1923. 

R.  De  Nolva,  Le  mysticisme  et  l’esprit  révolutionnaire  du  fascisme,  in 
«Mercure  de  France»,  1°  novembre  1924. 


252 


Il  culto  del  littorio 


Mussolini,  scrisse  Ferruccio  Farri  all’indomani  del  delitto 
Matteotti,  era  posto  effettivamente  su  «un  piedistallo  di  fiducia 
inconscia,  di  ammirazione  ingenua  e  quasi  fisica,  di  stupore  esta¬ 
tico  sul  quale  larga  parte  del  popolo  italiano  contemplava  il  suo 
duce  dinamico  agitarsi  e  recitare»"*^.  Dopo  il  delitto,  il  mito  subì 
una  forte  scossa  ma  non  crollò,  come  riconobbe  lo  stesso  Mus¬ 
solini;  «Se  c’era  un  mito,  questo  ha  subito  una  forte  inclinazio¬ 
ne.  E  perché  non  è  crollato?  per  una  ragione  molto  semplice:  per¬ 
ché  aveva  simpatie  grandissime  nella  enorme  popolazione  italia- 
na»"^^.  Ma  superata  la  crisi  e  consolidato  il  potere,  il  mito  popo¬ 
lare  riprese  quota  accompagnato  nella  sua  ascesa  dall’uso  sem¬ 
pre  più  ampio  e  perfezionato  della  propaganda,  che  intensificò 
la  diffusione  del  mito  mussoliniano  tra  gli  italiani,  confortati  dai 
successi,  reali  o  apparenti,  che  la  politica  di  Mussolini  riscuote¬ 
va  aU’interno  e  all’estero. 

Ad  alimentare  il  culto  del  duce  fra  le  masse  contribuirono  mol¬ 
to  i  continui  incontri  di  Mussolini  con  la  folla,  in  occasione  della 
celebrazione  delle  feste  del  regime  o  durante  le  sue  visite  per  l’Ita¬ 
lia  quando,  grazie  alla  preparazione  di  una  moderna  regia,  si  crea¬ 
vano  le  condizioni  per  suscitare  uno  stato  d’alta  tensione  emotiva 
collettiva,  preludio  al  rito  dell’unione  «mistica»  del  capo  con  la  fol¬ 
la  e  alla  drammatizzazione  simbolica  dell’unità  della  nazione  at¬ 
traverso  il  suo  duce.  L’artificio  della  «fabbrica  del  consenso»  e 
l’entusiasmo  spontaneo  cooperavano  per  produrre  un  sentimento 
di  esaltazione  collettiva,  soprattutto  attraverso  la  scansione,  in  par¬ 
te  preordinata  in  parte  spontanea,  del  ritmo  della  cerimonia,  in 
gradi  e  tempi  differenti  -  l’invocazione,  l’attesa,  l’apparizione  -  ta¬ 
li  da  trasformare  sempre  l’incontro  in  un  atto  di  culto.  Traiamo 
dalla  cronaca  del  XIII  annuale  della  fondazione  dei  fasci  una  de¬ 
scrizione  tipica  di  questo  rito  in  piazza  Venezia: 

Le  squadriglie  degli  aereoplani  stringono  ora  il  cerchio  dei  loro 
voli,  come  a  coronare  nel  cielo  questa  magnifica  adunata. 


F.  Patri,  Il  nostro  posto,  in  «Il  Caffè»,  1"  luglio  1924,  riportato  in  «Il 
Caffè»  1924-25,  Milano  1961,  p.  81. 

La  citazione,  tratta  dal  testo  del  discorso  realmente  pronunciato  da  Mus¬ 
solini  ai  Consiglio  nazionale  fascista  del  7  agosto  1924  (riprodotto  integral¬ 
mente  da  R.  De  Felice,  Mussolini  il  fascista.  I.  La  conquista  del  potere  1921- 
1925,  Torino  1966,  pp.  775-785)  fu  omessa  nel  testo  pubblicato. 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


253 


La  folla  non  si  stanca  di  seguire  con  occhi  ammirati  le  evoluzioni 
e  il  fragore  dei  motori  si  armonizza  con  gli  squilli  delle  fanfare  e  con 
i  canti  dei  fascisti.  Intanto  la  fiumana  ha  invaso  la  Piazza  Venezia.  , Il 
clamore  delle  musiche  e  degli  alalà  si  fa  assordante:  il  pubblico  tra¬ 
scinato  dall’entusiasmo  si  unisce  al  coro  immenso  dominato  dal  ri¬ 
tornello  che  invoca  il  Duce. 

Sono  quasi  le  sei.  La  tramontana  si  fa  più  intensa,  ma  chi  se  ne  ac¬ 
corge  ormai  più? 

Le  squadriglie  di  aereoplani  sono  ora  sparite.  La  mole  bianca  del 
Vittoriano  è  illividita  nel  crepuscolo.  Palazzo  Venezia  emerge  fulvo  e 
maestoso  da  un  mare  irrequieto  di  gagliardetti  e  di  Camicie  nere,  di 
ottoni  luccicanti. 

Ma  l’afflusso  continua.  La  fiumana  interminabile  gremisce  la  piaz¬ 
za.  Cinquantamila  persone  aspettano  Mussolini,  cinquantamila  voci 
lo  chiamano.  Ecco  il  primo  rintocco  della  campana  del  Campidoglio. 
Ormai  lo  sguardo  di  questo  popolo  non  si  distoglie  dal  balcone  dove 
comparirà  la  figura  del  Duce. 

I  veterani  della  grande  guerra,  i  veterani  della  Rivoluzione  fasci¬ 
sta,  operai,  giovani  squadristi,  studenti,  popolani  di  ogni  età  e  di  ogni 
mestiere:  la  folla  è  come  una  sola  creatura  dai  mille  volti  e  da  un  uni¬ 
co  cuore.  Ma  l’impazienza  dei  più  giovani,  dei  «ragazzi  di  Mussolini» 
aggiunge  alcune  note  pittoresche  a  questo  imponente  spettacolo. 
Ogni  squadra  vuole  che  il  proprio  gagliardetto  si  protenda  più  da  vi¬ 
cino  verso  il  Duce  e  più  da  vicino  lo  saluti  e  lo  acclami. 

Si  formano  qua  e  là  piramidi  umane  in  una  gara  di  agilità  e  di  svel¬ 
tezza:  così  sul  nereggiare  della  folla  sventolano  altissime  le  fiamme  dai 
colori  di  Roma. 

Sono  le  6.20.  Il  balcone  di  apre.  Appare  S.E.  Starace  che  avvolge 
all’asta  il  drappo  della  bandiera.  L’attesa  della  folla  sta  per  essere  pre¬ 
miata  ed  ecco,  infatti,  che  un  urlo  immenso  prorompe  dalla  piazza: 
«Viva  il  Duce!». 

Tutte  le  musiche  intonano  Giovinezza.  I  gagliardetti  si  alzano. 
Mussolini!  La  figura  si  profila  nel  gesto  del  saluto  romano  nell’ampia 
cornice  della  finestra.  Egli  indossa  la  divisa  di  Caporale  d’onore  del¬ 
la  Milizia.  E  a  capo  scoperto.  Il  suo  sguardo  giunge  alla  foUa,  ne  fa 
traboccare  l’entusiasmo. 

«Duce!  Duce!»,  Il  grido  appassionato  si  moltiplica  all’infinito,  so¬ 
vrasta  il  fragore  delle  musiche. 

La  manifestazione  assurge  ad  un  immenso  religioso  rito  di  fede.  E 
tutto  un  popolo  che  si  esalta  in  un  Uomo,  che  si  ritrova  in  Lui.  Ma 
agli  squilli  di  «attenti»,  ecco  che  un  assoluto  silenzio  succede  a  quel 
clamore  che  pareva  non  dovesse  avere  più  fine;  e  non  è  meno  mira- 


254 


Il  culto  del  littorio 


bile  attestando  di  una  coscienza  nuova  che  la  disciplina  ha  saputo 
creare  negli  italiani. 

Sono  le  6.25.  Mussolini  parla  al  popolo  romano,  all’Itaha. 

Il  duce  conclude  il  discorso  col  grido  «A  chi  l’Italia?»,  rice¬ 
vendo  dalla  folla  la  rituale  risposta  «A  noi!»: 

Le  parole  del  Duce  sono  ormai  nel  cuore  di  questa  immensa  fol¬ 
la.  Il  formidabile  A  Noi!  ha  rinnovato  fieramente  un  atto  di  fede  as¬ 
soluta:  la  fede  nel  Fascismo  e  nell’avvenire  della  Patria.  La  parola  di 
Mussolini  «durare»  è  stata  accolta  e  ripetuta  come  un  giuramento.  Al¬ 
la  voce  della  moltitudine  ha  risposto  la  voce  di  una  moltitudine. 

Il  rito  è  compiuto. 

Mussolini  ha  lasciato  il  balcone,  ma  il  popolo  vuole  vederlo  an¬ 
cora,  gridargli  la  sua  devozione.  Due,  tre  volte  il  Duce  si  affaccia  e  sa¬ 
luta  romanamente. 

Poi,  la  grande  vetrata  si  chiude. 

La  piazza  echeggia  di  canti;  ma  le  parole  di  Mussolini  sovrastano. 
Sembra  di  sentirle  ancora.  Le  masse  fasciste  riprendono  le  loro  for¬ 
mazioni;  lentamente  la  folla  sgombra  la  piazza,  mentre  si  vanno  ac¬ 
cendendo  le  torce  di  una  fantastica  fiaccolata  che  attraversa  la  città.^*^ 

La  scansione  dei  tempi  aveva  un  ruolo  ancor  più  rilevante,  per 
creare  l’atmosfera  mitica  propizia  allo  svolgimento  dell’atto  ri¬ 
tuale,  nelle  visite  che  Mussolini  faceva  in  città  e  regioni,  dove  ve¬ 
niva  accolto  come  un  nume  portatore  di  grazie.  Queste  visite  era¬ 
no  in  genere  precedute  dalla  invocazione  rivolta  a  nome  della  po¬ 
polazione  dal  prefetto  o  dal  segretario  federale,  a  cui  Mussolini 
faceva  seguire  l’annuncio  della  visita,  ma  fra  l’annuncio  e  la  visi¬ 
ta  poteva  trascorrere  anche  qualche  anno  come  avvenne,  per 
esempio,  per  una  visita  a  Genova.  Il  9  luglio  1934  Mussolini 
esaudì  l’invocazione  dei  fascisti  genovesi  che  «desiderano  dopo 
otto  anni  di  rivedermi  tra  loro»,  annunciando  che  sarebbe  anda¬ 
to  a  Genova  nel  1936.  La  visita  avvenne  invece  nel  maggio  del 
1937,  il  che  però  contribuì  a  rendere  ancor  più  viva  l’attesa  e  l’en¬ 
tusiasmo  delle  accoglienze^  h  Lo  stesso  avvenne  per  un  viaggio 
nel  Veneto,  compiuto  nel  1938.  Un  informatore  del  ministero  del- 

«Il  Popolo  d’Italia»,  24  marzo  1932. 

5*  ACS,  PCM,  Gabinetto,  1937-1939,  fase.  20.2  n.  946. 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


255 


la  Cultura  popolare  ritraeva  con  enfasi,  ma  non  del  tutto  infe¬ 
delmente,  la  frenesia  dell’attesa  a  Trieste,  dopo  l’annuncio  della 
visita  invocata  da  più  di  un  decennio: 

Trieste  sta  lavorando  febbrilmente,  affannosamente  per  essere 
pronta:  fra  meno  di  ventiquattr’ore  il  Duce  sarà  qui.  Questa  certezza 
sembra  togliere  il  respiro  ai  Triestini:  li  emoziona  e  li  stordisce  e  se 
per  un  verso  ne  moltiplica  le  energie  dall’altro  li  immobilizza  in  una 
estatica  contemplazione  interiore  che  anticipa  la  gioia  sconfinata  di 
aver  fra  di  loro  il  Capo  amatissimo  [...]  Il  Duce  non  troverà  forse  a 
Trieste  la  sontuosità  e  la  magnificenza  degli  addobbi  che  altre  città 
Gli  hanno  preparato  in  occasione  di  altre  Sue  visite,  ma  troverà  cer¬ 
tamente  la  passione  ardente,  l’entusiasmo  incontenibile,  l’attacca¬ 
mento  fanatico  ai  quali  Lo  hanno  abituato  le  folle  italiane  deliranti 
per  Lui.^^ 

Il  giorno  dopo,  lo  stesso  informatore  descriveva  con  partecipe 
orgasmo,  che  si  rifletteva  probabilmente  nella  sua  interpretazione 
dello  stato  d’animo  collettivo,  le  reazioni  della  folla  all’apparizio¬ 
ne  del  duce,  giunto  trionfalmente  dal  mare  e  accolto  con  un  gran¬ 
dioso  cerimoniale.  Nel  discorso.  Mussolini  illustrò  al  popolo  la  cri¬ 
si  internazionale  e  preannunciò  il  varo  delle  leggi  antisemite: 

Finalmente  Lo  abbiamo  visto  e  Lo  abbiamo  sentito!  [...]  queste  le 
prime  parole  espresse  con  giubilo  indescrivibile,  con  gli  occhi  lustri 
di  commozione  e  di  ineffabile  angoscia  gioiosa  [...] 

E  non  è  agevole  nemmeno  riferire  le  espressioni  della  gente,  del 
popolo  minuto  come  delle  persone  più  colte,  della  massa  insomma. 
Espressioni  di  meravigliosa  contentezza  e  di  intraducibile  fierezza 
hanno  quelli  che  Lo  hanno  visto  passare  da  vicino  -  specie  gli  operai 
dei  Cantieri  visitati  oggi  -  quelli  che  Lo  hanno  guardato,  quelli  che 
ne  hanno  incontrato  lo  sguardo.  «Hai  visto  che  occhi!  Non  si  resiste 
al  Suo  sguardo!  A  me  ha  sorriso  [...]  Gli  ero  vicino,  quasi  lo  toccavo. 
Io  dovevo  lavorare  e  non  riuscivo  a  muovermi  [...]  Quando  l’ho  vi¬ 
sto  le  gambe  hanno  cominciato  a  tremarmi  [...]»  e  mille  altre  frasi 
consimili  rivelano  e  confermano  il  fascino  portentoso  che  emana  dal¬ 
la  persona  del  Duce. 


52  ACS,  MCP,  Gabinetto,  b.  32,  fase.  «Viaggio  nel  Veneto»,  Trieste,  rap¬ 
porto  del  17  settembre  1938. 


256 


Il  culto  del  littorio 


Le  donne  non  riescono  a  dare  un  senso  ed  un  nesso  alle  loro  paro¬ 
le,  tuttavia  sono  più  eloquenti  nelle  loro  ingenue,  confuse  espressioni 
che  se  facessero  lunghi  discorsi  apologetici.  La  frase  di  una  che  è  stata 
per  un  po’  di  tempo  vicina  al  Duce,  all’uscita  dallo  scalo  dell’Ala  Lit¬ 
toria,  le  compendia  tutte;  «Mi  sembrava  un  Dio!  Volevo  baciarGli  le 
mani  ma  non  ne  ho  avuto  il  coraggio.  Lo  bacerò  stasera  in  fotografia». 


Il  nume  protettore 

La  visita  del  duce  veniva  percepita  dalla  gente  come  la  venu¬ 
ta  di  un  messia  apportatore  di  bene,  al  quale  si  chiedevano  gra¬ 
zie;  «Da  molti  anni  Ti  aspettiamo,  nutrendo  nel  cuore  una  spe¬ 
ranza,  che  nell’attesa  è  ingigantita»  scriveva  a  Mussolini  un  grup¬ 
po  di  ex  combattenti  agricoltori,  chiedendo  la  costruzione  di  un 
«canale  DUX  che  da  un  decennio  Ti  aspetta»^^.  Simile  l’invoca¬ 
zione  di  una  vedova  catanese  alla  vigilia  del  viaggio  di  Mussolini 
in  Sicilia,  nel  1937; 

Duce 

Il  popolo  catanese  vi  ha  atteso  con  ansiosa  trepidazione!  Quella 
che  fa  battere  il  mio  cuore  è  irrefrenabile.  È  il  padre  che  aspettiamo, 
il  Messia  che  viene  a  visitare  le  sue  pecorelle  a  recar  loro  la  fede,  e 
con  essa  la  parola  che  dà  gli  insperati  eroismi,  i  massimi  olocausti. 

Duce!  Questa  magica  parola  fa  fremere  il  cuore  come  se  la  scin¬ 
tilla  elettrica  lo  attraversasse,  noi  poverelli,  dimentichiamo  per  incan¬ 
to  le  nostre  miserie  e  corriamo  nelle  piazze  ad  ammirarVi,  magnani¬ 
mo  nel  Vostro  paterno  sorriso  che  brilla  fra  i  lampeggianti  d’aquila 
[sic!]  che  caratterizzano  il  Vostro  sguardo,  sguardo  di  uomo  destina¬ 
to  dal  fato  a  dominare  i  cuori,  a  formare  di  mille  volontà  una  sola,  la 
Vostra  [...]  Sono  povera  e  ammalata  e  molto  spero  nel  Vostro  ma¬ 
gnifico  cuore,  il  più  gran  cuore  che  gli  italiani  abbiano  avuto  dai  gior¬ 
ni  dell’impero  ai  tempi  d’oggi. 

Mio  figlio  è  un  moschettiere;  mia  figlia  una  giovane  italiana.  Io  Vi 
ammiro  pur  restando  nella  ombre  [sic!],  come  la  miserella  che  nel¬ 
l’angolo  buio  del  tempio  venera  le  sacre  icone  rutilanti  di  gemme.^"* 


ACS,  PCM,  Gabinetto,  1937-39,  fase.  20.2  n.  5597/4-2,  lettera  dell’As¬ 
sociazione  combattenti  di  Faedis,  8  agosto  1938. 

Riportato  in  T.M.  Mazzatosta,  C.  Volpi,  L’italietta  fascista  (1936-1943), 
Bologna  1980,  pp.  55-56. 


V7.  Il  «nuovo  Dio  d’ltalia> 


251 


Gli  incontri  con  la  folla  in  ogni  parte  d’Italia  divennero  un 
elemento  centrale  e  dominante  della  liturgia  fascista,  diffonden¬ 
do  il  culto  del  duce  fra  le  masse  che  potevano  avere  l’occasione 
di  vedere  in  carne  ed  ossa  il  nume  che  ad  esse  appariva  glorifi¬ 
cato  ovunque  in  immagine;  «È  interessante  -  scriveva  un  infor¬ 
matore  del  ministero  della  Cultura  popolare  durante  il  viaggio  di 
Mussolini  in  Piemonte  nel  1939  -  sentire  il  racconto  delle  mon¬ 
dine  che  esprime  la  meraviglia  di  aver  assistito  alla  personifica¬ 
zione  del  mito.  Per  loro,  vedere  in  carne  ed  ossa  lo  scultoreo  vol¬ 
to  cento  e  cento  volte  osservato  più  che  sui  giornali  sui  cartello¬ 
ni  alle  cantonate  ha  costituito  una  sorpresa  ed  una  gioia  indi¬ 
menticabili»^^.  Negli  anni  Trenta,  Mussolini  fece  visite  in  molte 
regioni  italiane,  sostando  nei  capoluoghi  di  provincia  per  espor¬ 
si  al  culto  della  folla,  pronunciando  discorsi,  che  venivano  pre¬ 
sentati  come  annuncio  di  decisioni,  per  le  quali  il  duce  chiedeva 
il  consenso  plebiscitario  del  popolo,  dando  a  questo  l’impressio¬ 
ne  di  essere  partecipe  delle  scelte  del  suo  capo. 

Il  discorso  del  duce  era  sempre  il  momento  centrale,  culmi¬ 
nante,  dell’incontro  con  la  foUa,  non  tanto  nella  forma  dialogica 
che  talvolta  assumeva,  quanto  per  il  carattere  di  orazione  rivela¬ 
trice  della  volontà  del  nume  e  di  manifestazione  oracolare  della 
volontà  della  nazione. 

In  altre  occasioni,  come  nelle  frequenti  visite  nell’Agro  pon¬ 
tino  dopo  la  bonifica,  presentandosi  nelle  vesti  di  fondatore  di 
città  o  di  contadino  mietitore  e  trebbiatore.  Mussolini  appariva 
al  popolo  come  un  potente  ma  benevolo  nume  benefattore,  che 
scendeva  dall’alto  del  suo  altare  per  parlare  amichevolmente  con 
la  gente,  pronto  ad  ascoltare,  confortare,  esaudire.  Corrado  Al¬ 
varo  ha  descritto  vivacemente  uno  di  questi  incontri,  che  erano 
generalmente  spogli  della  solennità  fastosa  delle  grandi  adunate, 
ma  che  forse  più  di  queste  contribuivano  ad  alimentare  fra  la  gen¬ 
te  comune  il  culto  del  duce; 

Uno  dei  punti  salienti  del  fascino  del  Capo  sulla  folla,  è  che  cia¬ 
scuno  si  sente  in  comunione  con  lui  come  se  egli  sapesse  tutto,  che 


”  ACS,  MCP,  Gabinetto,  b.  198,  «Viaggio  del  duce  in  Piemonte»,  Ales¬ 
sandria,  rapporto  del  17  maggio  1939.  Sulle  visite  di  Mussolini  in  Piemonte, 
cfr.  L.  Passerini,  Torino  operaia  e  fascismo,  Roma-Bari  1984,  pp.  225  sgg. 


Fig.  23.  Mussolini  premia  un  colono  a  Littoria  il  18  dicembre  1933 
(da  Latina,  storia  di  ima  città  cit.,  p.  237). 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia» 


239 


presto  o  tardi  arriverà,  saprà,  prowederà.  In  ogni  società  si  possono 
ricevere  torti  e  offese;  ma  il  popolo  pensa  sempre  che  «se  egli  sapes¬ 
se»,  sarebbero  asciugate  quelle  lacrime,  sarebbe  sollevato  quel  cuore, 
riparato  il  torto  e  l’offesa.  Il  popolo  italiano  ha  incarnato  in  lui  un 
vecchio  ideale  di  giustizia  che  nella  sua  storia  aveva  affidato  ai  per¬ 
sonaggi  più  diversi.  La  folla  intorno  a  me,  vedendolo  dritto  sul  tavo¬ 
lo,  non  perdeva  un  sol  gesto;  che  il  Capo  sorridesse,  che  il  suo  giac- 
co  di  orbace  fosse  spruzzato  di  mota;  che  una  rosa  d’un  mazzo  of¬ 
fertogli  aU’inaugurazione  del  Borgo  Sabotino  la  tenesse  infilata  alla 
cintura  e  di  tanto  in  tanto  con  un  gesto  la  chiudesse  delicatamente  nel 
pugno  e  ne  aspirasse  l’odore;  che  con  un  gesto  reciso  consegnasse  la 
busta  col  denaro  ai  quasi  cinquecento  premiati  di  Littoria,  e  sempre 
con  lo  stesso  vigore,  lo  stesso  scatto,  erano  cose  che  nessuno  perde¬ 
va,  e  che  avevano  agli  occhi  degli  spettatori  il  fascino  delle  grandi  fi¬ 
gure  immaginate  lontane  e  che  sono  invece  a  un  passo  di  distanza, 
parlanti.  Era  uno  straordinario  rapimento  degli  animi.^^ 

Mussolini  si  compiaceva  anche  di  fare  visite  improvvise  e  pri¬ 
vate,  dando  alla  gente  l’impressione  che  egli  potesse  essere  ovun¬ 
que,  apparire  ovunque,  in  qualsiasi  momento,  quasi  miracolosa¬ 
mente.  «Passava  da  noi  -  racconta  una  colona  dell’Agro  pontino 
ricordando  una  visita  improvvisa  di  Mussolini  nel  podere  di  suo 
padre  -  è  venuto  dentro,  abbiamo  appena  appena  fatto  in  tem¬ 
po  a...  conoscerlo  perché...  era  vestito  un  po’...  per  no  essere  ri¬ 
conosciuto.  Ha  fatto  due  tre  domande  a  mio  padre  che  era  il  ca¬ 
po  famiglia  no?  [...]  e  poi...  è  sparito  subito.  Ciaveva  la  motoci¬ 
cletta»^^. 

Il  culto  mussoliniano  riscosse  crescenti  consensi  fra  la  gente 
comune  e  fu  un  fenomeno  pressoché  costante  durante  il  regime, 
almeno  fino  alla  seconda  guerra  mondiale,  anche  se  non  ebbe 
un’estensione  e  una  presenza  uniforme  in  tutti  i  ceti  sociali.  Ana- 
Hzzare  le  motivazioni  del  consenso,  sezionare  le  loro  componen¬ 
ti  a  seconda  dei  ceti  sociali  da  cui  provenivano,  seguirne  l’onda 
di  frequenza  e  di  intensità  nel  corso  di  un  ventennio,  è  un  esame 
che  non  possiamo  affrontare  in  questa  sede,  perché  comporte- 

56  C.  Alvaro,  Terra  nuova,  Roma  1934,  cit.  in  R.  De  Felice,  Autobiografia 
del  fascismo,  Roma  1978,  pp.  426-427. 

5^  Intervista  raccolta  da  O.  Gaspari,  Il  mito  di  Mussolini  nei  coloni  veneti 
dell’Agro  pontino,  in  «Sociologia»,  maggio-agosto  1983,  p.  171. 


Fig.  24.  Mussolini  fra  i  coloni  dell’Agro  Pontino  (da  Latina,  storia  di 
una  città  cit.,  p.  253). 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia» 


261 


rebbe  studi  e  ricerche  approfondite,  condotte  possibilmente  con 
strumenti  idonei  a  discriminare  le  componenti  spontanee  da 
quelle  prodotte  dalla  propaganda.  Certamente  vi  furono  settori 
sociali  dove  questo  mito  ebbe  minore  o  scarsa  influenza,  come 
per  esempio  quei  settori  che  erano  passati  attraverso  un  più  mar¬ 
cato  processo  di  secolarizzazione  o  quelli,  specialmente  ceti  ope¬ 
rai  e  contadini,  che  avevano  subito  le  violenze  squadriste  ed  era¬ 
no  più  saldamente  legati  alla  tradizione  socialista,  repubblicana 
o  comunista.  In  questi  ceti,  il  mito  di  Mussolini  potè  far  breccia 
solo  tardi,  agendo  soprattutto  sulle  generazioni  giovani.  Ma  nel¬ 
la  media  e  piccola  borghesia  non  politicizzata,  nei  ceti  popolari 
più  umili,  specialmente  rurali,  privi  di  qualsiasi  tradizione  laica 
o  politica,  che  non  avevano  subito  la  violenza  squadrista,  il  cul¬ 
to  di  Mussolini  si  diffuse  rapidamente  perché  mise  radici  in  una 
cultura  antropologica  ancora  fortemente  dominata  da  credenze 
religiose,  persino  superstiziose  e  magiche,  che  proiettavano  sul 
mito  di  Mussolini  forme  di  devozione  e  di  culto  tipiche  della  pietà 
religiosa  cristiana,  fino  a  paragonarlo  a  Cristo:  «Mi  sembrava  un 
Cristo  in  tera  -  ricorda  un  colono  dell’Agro  pontino  -,  che  quan¬ 
do  veniva  fuori  lui  diciamo,  c’era  un  momento  che...  pioveva  di¬ 
ciamo  anca  qui  in  Aprile  le  feste,  ’nsò  veniva  un  tempo  bruto  va 
bene  arivava  lui  per  la  madona  spariva  le  nuvole,  un  sole  va  be¬ 
ne  che...  sembrava  un  dio  va  bene,  dopo  finito  tuto  il  suo...  pro¬ 
clamare  il  discorso  va  bene,  giù  acqua  ancora  sembrava  tante  vol¬ 
te...  ma  'sto  sant’Antonio  de  'sto  duce  che  cosa  è!!»^^.  Continue 
erano  le  richieste  a  Mussolini  di  un  suo  ritratto  come  talismano 
apportatore  di  grazia:  ad  una  vedova  con  undici  figli  «parve  che 
nella  sua  casa  sia  entrata  la  Grazia  di  Dio»  quando  il  prefetto,  ac¬ 
compagnato  dal  segretario  federale  e  dal  podestà,  si  recò  a  con¬ 
segnarle  il  ritratto  di  Mussolini^^. 


Ivi,  p.  172.  Esempi  significativi  di  questo  tipo  di  manifestazioni  popola¬ 
ri  del  culto  del  duce,  che  si  protraggono  fino  alla  primavera  del  1943,  sono  rac¬ 
colti  da  Mazzatosta,  Volpi,  L’italietta  fascista  cit.;  A.  Lepre,  Le  illusioni,  la  pau¬ 
ra,  la  rabbia,  Napoli  1990;  Id.,  L’occhio  del  duce.  Gli  italiani  e  la  censura  di  guer¬ 
ra  1940-1943,  Milano  1992.  Sull’atteggiamento  dell’opinione  pubblica  verso 
Mussolini,  in  generale,  cfr.  S.  Colarizi,  L’opinione  degli  italiani  sotto  il  regime, 
Roma-Bari  1991. 

Lettera  di  A.C.  Petrosino,  5  agosto  1936,  riportata  in  Mazzatosta,  Vol¬ 
pi,  L'italietta  fascista  cit.,  p.  49. 


262 


Il  culto  del  littorio 


Volendo  riassumere  gli  elementi  che  composero  il  mito  mus- 
soliniano  della  gente  comune,  si  potrebbe  descrivere  la  figura  di 
un  grande  uomo  di  Stato  che  meditava  sulle  sorti  del  mondo  e 
vegliava  sul  destino  dell’Italia,  che  voleva  far  grande  e  potente, 
ma  nello  stesso  tempo  curava  come  un  padre  amorevole  la  sorte 
di  tutti  i  suoi  figli;  un  «uomo  della  provvidenza»  che  poteva  es¬ 
sere  tramite  di  grazia  divina  per  il  popolo,  promessa  e  garanzia 
di  sicurezza;  dotato  di  straordinari  poteri  taumaturgici  e  benefi¬ 
ci,  fisicamente  vicino  alle  masse  e  continuamente  in  contatto  con 
esse,  prossimo  alla  loro  anima  e  interprete  delle  loro  aspirazioni. 

Il  culto  popolare  del  duce  fu,  senza  dubbio,  l’elemento  più 
importante  della  liturgia  fascista,  ma  esso  aveva,  in  gran  parte, 
motivazioni  che  si  rifacevano  a  tradizioni  fideistiche  precedenti 
più  che  alla  credenza  nei  valori  e  nei  dogmi  della  religione  fasci¬ 
sta.  E,  questo,  un  aspetto  che  è  necessario  sottolineare,  non  solo 
per  mettere  in  risalto  la  distinzione  del  culto  popolare  dal  culto 
propriamente  fascista,  ma  anche  per  valutare  gli  effetti  della  pre¬ 
dicazione  della  religione  fascista  sulle  masse,  per  individuare  uno 
dei  fattori  della  sua  fragilità.  Nella  gran  massa  della  gente  comu¬ 
ne,  infatti,  il  mito  di  Mussolini  prevaleva  sulla  fede  nel  fascismo. 
Tipico  di  questo  atteggiamento  è  quanto  osservato  dai  carabinieri 
di  Viterbo  nel  luglio  1930: 

Il  Regime  ha  sempre  più  il  consenso  pieno  della  stragrande  mag¬ 
gioranza  dei  cittadini,  sui  quali  il  Duce  esercita  un  fascino  che  ha  del 
soprannaturale  e  che  è  comune  anche  ai  non  fascisti,  non  solo,  ma  pu¬ 
re  a  molti  che  hanno  sempre  avanzato  riserve  sulla  filosofia  e  sulla 
pratica  di  governo  del  Fascismo.^’® 

I  carabinieri  di  Roma  riferivano  della  «illimitata  fiducia  nel 
Duce,  il  quale  riscuote  la  stima  anche  di  coloro  che  formulano 
riserve  sul  Fascismo  e  sulle  altre  figure  rappresentative  del  Regi¬ 
me»,  e  contrapponevano  alle  «impetuose,  toccanti  manifestazio¬ 
ni  popolari»  suscitate  dalle  improvvise  visite  di  Mussolini  nella 
città,  i  resoconti  che  ne  dava  la  stampa  «coi  soliti  incensamenti», 
che  apparivano  «enfatica  sviolinatura  [.,.]  tale  da  pregiudicare 

Archivio  storico  del  Comando  Generale  dell’Arma  dei  Carabinieri,  Uf¬ 
ficio  situazione,  1930,  fase.  «Viterbo». 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


263 


l’efficacia  e  la  serietà  del  gesto  del  Duce»^h  Dello  stesso  tono  il 
giudizio  di  un  anonimo  informatore  del  PNF  durante  la  visita  di 
Mussolini  a  Napoli  nell’ottobre  1931,  giudizio  tanto  più  signifi¬ 
cativo  in  quanto  espresso  in  un  documento  interno  del  partito; 

Il  Duce  ha  parlato:  ma  Egli  è  stato  soprattutto  drammaticamente 
espressivo  per  quello  che  non  ha  potuto  dire,  ma  che  la  folla  in  deli¬ 
rio,  epperciò  in  istato  di  grazia,  ha  «sentito»  ed  «intuito»,  attraverso 
le  contrazioni  di  spasimo  della  Sua  maschera  romana,  che  qualche  co¬ 
sa  di  grande  e  di  tremendo  si  prepara  per  l’Italia  ed  il  mondo,  e  che 
Benito  Mussolini  ne  sarà  l’Artefice  invitto  ed  invincibile. 

Perché  questa  folla  affamata,  indisciplinata,  anarcoide,  che  non  ha 
«sentito»  né  «compreso»  il  Fascismo  predicato  da  piccoli  uomini  fa¬ 
ziosi  e  miserevoli,  avvicendatisi  in  questo  primo  decennio,  «sente»  e 
«comprende»  il  Duce  attraverso  il  divino  dono  di  una  esuberante  fan¬ 
tasia  e  sensibilità  come  nessuna  altra  folla  delle  cento  città  d’Italia. 
Epperciò  ieri  gli  ha  decretato  l’apoteosi,  tra  lo  stupore  e  U  panico  di 
Sua  Eccellenza  Castelli  [Alto  commissario  per  la  provincia  di  Napo¬ 
li]  e  di  Natale  Schiassi  [segretario  federale  di  Napoli] 

Commenti  del  genere  si  infittirono  nel  corso  degli  anni,  a  con¬ 
ferma  di  un  orientamento  largamente  diffuso  nell’opinione  pub¬ 
blica: 

Il  partito  mussoliniano  -  scriveva  un  informatore  della  polizia  da 
Firenze  nel  giugno  1939  -  costituisce  l’autentica  maggioranza  in  Ita¬ 
lia  e  si  può  ben  dire  che  per  quanto  il  Duce  stesso  persista  a  parlare 
di  Fascismo,  l’italiano  continua  a  comprendere  sotto  questa  denomi¬ 
nazione  soltanto  ed  esclusivamente  «Mussolini».  Per  la  stragrande 
maggioranza,  un  Fascismo  senza  Mussolini  è  incomprensibile,  men¬ 
tre  sarebbe  magari  comprensibile  un  Mussolini  senza  Fascismo.  Del 
resto,  è  nel  destino  del  genio  di  asservire  l’idea  al  punto  da  sostituir¬ 
la  con  la  propria  personalità.^^ 

Lo  stesso  atteggiamento  veniva  osservato  fra  la  popolazione 
romana  nell’agosto  1940:  «Il  ritornello  è  sempre  lo  stesso:  ci  si 


Ivi,  1930,  Roma,  febbraio  e  27  settembre  1930. 

“  ACS,  PNF,  Situazione  politica  per  provincie,  b.  9,  fase.  «Napoli». 
ACS,  MI,  DGPS,  Divisione  polizia  politica  1927-1944,  b.  220. 


264 


Il  culto  del  littorio 


inchina  al  Genio  del  Duce,  ma  non  si  tralascia  occasione  per  sca¬ 
gliarsi  contro  abusi  e  soprusi  dei  Gerarchi  qualunque  essi  siano 
e  quale  sia  la  carica  che  ricoprono»^.  AlFinformatore  da  Roma, 
faceva  eco  un  altro  da  Milano:  «Il  concetto  che  Mussolini  sia  iso¬ 
lato,  che  il  99%  dei  suoi  più  vicini  collaboratori  siano  indegni  del 
loro  posto,  che  molti  uomini  del  Governo  si  diano  alla  specula¬ 
zione,  è  generale  [...]  Il  popolo  sarebbe  pronto  a  stringersi  effet¬ 
tivamente  attorno  al  Duce  con  più  amore  e  più  fedeltà,  se  la  stes¬ 
sa  risoluta  energia  che  Mussolini  spiega  in  politica  estera,  fosse 
impiegata  per  salvaguardare  il  suo  popolo  dai  vampiri»^^ 
ste  osservazioni  trovavano  conferma  in  quanto  scriveva  un  ano¬ 
nimo  antifascista  rispondendo  nel  1933  ad  un  questionario  di 
«Giustizia  e  Libertà»:  «Il  ‘culto  del  duce’  (astrazion  fatta  dei  ca¬ 
si  in  cui  dietro  l’omaggio  al  capo  si  vuole  celare  un  atteggiamen¬ 
to  di  critica  verso  il  regime  che  si  teme  eccessivamente  audace) 
influisce  ancora  notevolmente  sugli  animi  mantenendo,  anche  in 
opposizione  ai  fatti,  la  fiducia  neH’infallibilità  dell’uomo,  cosic¬ 
ché  si  accetta  tuttora  senza  discutere  l’idea  della  sua  genialità»^^. 

In  effetti,  quanto  più  si  diffondeva  fra  le  masse  l’insofferenza 
contro  l’invadenza  totalitaria  del  partito  fascista  e  crescevano  le 
critiche  ai  gerarchi,  tanto  più  veniva  esaltato  per  contrasto  il  mi¬ 
to  del  duce,  posto  al  riparo  dalle  critiche  perché  sollevato  in  una 
sfera  di  fiducia,  quale  ultima  speranza  per  un  atto  risanatore  dei 
mali,  anche  di  quelli  inflitti  dal  fascismo  stesso  attraverso  i  suoi 
gerarchi.  Ciò  derivava  dal  modo  in  cui  la  gente  comune  percepi¬ 
va  il  mito  di  Mussolini,  anche  al  di  là  delle  manifestazioni  or¬ 
chestrate  dalla  propaganda  e  dalla  liturgia  del  regime.  Questo  mi¬ 
to  era  percepito  come  l’immagine  di  un  nume  protettore.  E  sul 
fondo  di  questa  ingenua  ma  tenace  fiducia  nella  bontà  mussoli- 
niana,  il  mito  generò  spontanee  e  superstiziose  forme  di  culto, 
accompagnate  da  una  attesa  quasi  miracolistica,  largamente  dif¬ 
fusa  fra  i  ceti  popolari.  Ciò  costituiva,  nello  stesso  tempo,  la  for¬ 
za  e  la  debolezza  del  culto  mussoliniano.  Un  nume  che  si  fosse 
rivelato  fallibile,  attirando  sul  popolo  dei  suoi  credenti  la  furia 
distruttrice  dei  cavalieri  dell’Apocalisse,  nella  specie  di  sconfitte 


Ivi,  b.  223. 

65  Ibid. 

66  Quaderni  di  «Giustizia  e  Libertà»,  n.  6,  marzo  1933,  p.  103. 


VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia> 


265 


militari,  bombardamenti  aerei,  fame  e  morte,  era  destinato  ad  es¬ 
sere  detronizzato  e  dissacrato  dai  suoi  credenti  con  la  stessa  pas¬ 
sione  con  la  quale  era  stato  adorato.  Non  sappiamo  se  Mussoli¬ 
ni  avesse  letto  e  meditato  le  riflessioni  che  Roberto  Michels,  ispi¬ 
randosi  alla  sua  figura  politica,  aveva  dedicato  nel  1927  al  pro¬ 
blema  dei  grandi  uomini  e  al  rapporto  fra  il  duce  e  la  massa: 

Nel  pretendere  troppo  da  essi,  le  masse  pongono  il  duce  e  se  stes¬ 
se  in  gran  repentaglio.  La  fede  collettiva  ambientale  nel  duce  talora 
può  assumere  forma  spiccatamente  mistica.  Epperò  avvenne  che  lad¬ 
dove  le  folle  stimavano  il  duce  onnipossente,  la  fede  collettiva  crollò, 
non  appena  un  avvenimento  naturale  qualsiasi  smentì  la  supposta  on¬ 
nipotenza.  Gli  antichi  popoli  pagani  più  volte  hanno  scacciato  un  ca¬ 
po  idolatrato,  se  questi  veniva  esautorato,  agli  occhi  dei  suoi  seguaci, 
dall’eruzione  di  un  vulcano  o  dallo  straripare  di  un  fiume  ch’egli  si 
era  dimostrato  incapace  di  scongiurare.^’ 


6^  R.  Michels,  Corso  di  sociologia  politica,  Milano  1927,  pp.  98-99. 


Conclusione 

IL  FASCISMO  E  LA  SACRALIZZAZIONE 
DELLA  POLITICA 


Noi  dobbiamo  diventare  nuovamente  reli¬ 
giosi.  La  politica  deve  diventare  la  nostra  re¬ 
ligione;  ciò  essa  può  fare  però  soltanto  se  noi 
possediamo  nella  nostra  visione  del  mondo 
qualcosa  di  supremo,  che  ci  trasformi  la  po¬ 
litica  in  religione. 

L.  Feuerbach 

L’infermità  dei  nostri  tempi,  l’infermità  da  ri¬ 
sanare,  è  proprio  questa:  che  non  si  riesce  ad 
infiammarsi  per  le  pure  idee  come  in  altri 
tempi  per  la  redenzione  cristiana,  per  la  Ra¬ 
gione  o  per  la  Libertà;  e  perciò  (né  questo  di¬ 
co  io  solo)  la  crisi  salutare  della  società  mo¬ 
derna  dovrà  essere,  presto  o  tardi,  di  caratte¬ 
re  profondamente  religioso. 

B.  Croce 

Le  ragioni  per  cui  oggigiorno  abbiamo  nuo¬ 
vamente  sentito  il  bisogno  di  un  rafforza¬ 
mento  del  mito  ci  porterebbero  troppo  lon¬ 
tano,  in  una  diagnosi  della  cultura  moderna. 

F.O.  Matthiessen 


I 


r 


Il  fascismo  fu  una  nuova  religione?  Alla  fine  del  nostro  viag¬ 
gio,  la  definizione  potrà  ancora  apparire  forse  estravagante  o  as¬ 
surda.  Ma  essa  risulterà  probabilmente  più  plausibile  e  convin¬ 
cente  se  collochiamo  storicamente  il  fascismo  nel  più  ampio  fe¬ 
nomeno  della  sacralizzazione  della  politica  nella  società  moderna. 
Neanche  per  questo  aspetto,  infatti,  il  fascismo  è  st^to  un  feno¬ 
meno  estraneo  e  isolato  dal  mondo  politico  della  modernità.  Es¬ 
so  appartiene,  invece,  al  rigoglioso  e  inquietante  fenomeno  mo¬ 
derno  delle  religioni  laiche,  che  da  oltre  due  secoli  hanno  popo¬ 
lato  il  mondo  della  politica,  suscitando  entusiasmi  e  paure,  agi¬ 
tando  le  masse  fra  l’orgoglio  del  fanatismo  e  la  disperazione  del¬ 
le  persecuzioni,  elevando  monumenti  aU’eterna  gloria  di  terrestri 
semidei  e  seminando  violenza  e  morte  su  interi  continenti. 

Il  declino  della  supremazia  delle  religioni  tradizionali  e  la  lai¬ 
cizzazione  della  società  e  dello  Stato  non  hanno  portato,  come  pre¬ 
vedeva  e  auspicava  il  razionalismo  laico  e  scientista,  ad  una  pro¬ 
gressiva  scomparsa  del  «sacro»  dalla  vita  collettiva.  Vi  è  stata,  al 
contrario,  come  mostrano  numerose  esperienze  storiche  situate  in 
ogni  parte  del  mondo,  una  frequente  trasfusione  del  «sacro»,  dal¬ 
le  religioni  tradizionali  ai  movimenti  politici  di  massa,  sia  di  destra 
che  di  sinistra,  da  cui  hanno  preso  vita  nuove  religioni  secolari.  Fin 
dall’epoca  della  rivoluzione  americana,  ma  soprattutto  con  la  ri¬ 
voluzione  francese  e  la  nascita  della  politica  di  massa,  i  confini  fra 
politica  e  religione,  mai  effettivamente  istituiti,  si  sono  spesso  con¬ 
fusi:  ma  ora  è  stata  la  politica  ad  assumere  una  propria  autonoma 
dimensione  religiosa,  diventando  uno  dei  luoghi  principali  dove  si 
è  realizzata  la  metamorfosi  del  sacro  nel  mondo  contemporaneo. 

Al  processo  di  autonomizzazione  e  di  laicizzazione  del  pote¬ 
re  politico,  si  è  accompagnato  un  processo  di  sacralizzazione  del¬ 
la  politicai  Dalla  fine  del  XVIII  secolo,  ma  soprattutto  nel  XX 


Per  una  trattazione  complessiva  di  questi  problemi,  da  un  punto  di  vista 


270 


Il  culto  del  littorio 


secolo,  c  è  stata,  cioè,  una  tendenza  della  politica  a  costruire  pro¬ 
pri  universi  simbolici  a  carattere  religioso,  spesso  assimilando  li¬ 
turgia,  linguaggio  e  modello  organizzativo  della  tradizione  cri¬ 
stiana,  adattandoli  ai  propri  valori  secolari,  per  conferire  a  que¬ 
sti  ultimi  un  aura  sacrale.  «Sbaglia  il  liberalismo  —  affermava  Tho¬ 
mas  Mann  nelle  sue  Considerazioni  di  un  impolitico,  scritte  du¬ 
rante  gli  anni  della  Grande  guerra  -  quando  crede  di  poter  sce¬ 
verare  la  religione  dalla  politica.  Senza  la  religione,  la  politica, 
quella  interna,  vale  a  dire  la  politica  sociale,  a  lungo  andare  è  im¬ 
possibile,  giacché  l’uomo  è  fatto  in  modo  tale  che,  dopo  aver  per¬ 
so  ogni  religione  metafisica,  traspone  il  fatto  religioso  sul  piano 
sociale,  innalza  agli  altari  la  vita  sociale»^.  Tutte  le  rivoluzioni  mo¬ 
derne  sono  state  creazioni  o  innovazioni  di  simboli,  miti  e  riti  che, 
con  diversa  intensità,  hanno  conferito  una  potenza  numinosa  al 
potere  politico.  Entità  della  moderna  politica  di  massa  —  nazio¬ 
ne,  razza,  classe,  Stato,  partito  o  capo  -  hanno  richiesto  ed  han¬ 
no  suscitato  atti  di  devozione  totale  che  erano  tipici  della  devo¬ 
zione  religiosa  tradizionale.  Persino  nelle  società  dove  più  radi¬ 
cale  è  stato  il  processo  di  laicizzazione  o  di  deliberata  scristia¬ 
nizzazione,  si  sono  manifestate  queste  nuove  forme  di  religiosità 


sociologico,  è  fondamentale  J.-P.  Sironneau,  Sécularisation  et  religions  politi- 
ques,  Mouton  1982;  sul  rapporto  fra  la  «metamorfosi  del  sacro»  e  la  moder¬ 
nità,  ctr.  G.  Filoramo,  /  nuovi  movimenti  religiosi,  Roma-Bari  1986  pp  3-29 
Sui  rapporti  fra  religione  e  politica,  neUa  prospettiva  della  nostra  analisi,  cfr.' 
in  particolare  R.  Aron,  L’oppio  degli  intellettuali,  trad.  it.,  Bologna  1958  (Aron 
ha  probabilmente  introdotto  per  primo  la  definizione  di  «religione  secolare» 
m  un  articolo  del  1943);  E.B.  Koenker,  Secular  Salvations,  Philadelphia  1964- 
U.h.  Apter,  Politicai  Religion  in  thè  New  Nations,  in  C.  Geertz  (a  cura  di)  Old 
Societies  and  New  States,  London  1963,  pp.  57-104;  W.  Stark,  The  Sociològy  of 
Rehgion,  voi  I,  London  1966;  R^E.  Richey,  D.G.  Jones  (a  cura  di),  AmeVican 
Ctvtl  Rehgion,  New  York  1974;  G.L.  Mosse,  La  nazionalizzazione  delle  masse, 
trad.  It  di  L.  De  Febee  Bologna  1975;  L.  Pellicani,  I  rivoluzionari  di  profes- 
sione,  Firenze  1975;  C.  Lane,  The  Rites  ofRulers,  Cambridge  1981,  pp.  35-44- 
1 Reilgion  in  Israel,  Berkeley  1983,  pp.  125- 
1^0 Politics  in  thè  Modern 
World  New  York  1983-,  Religion  Ideology  andNationalism,  in  Europe  and  Ame¬ 
rica,  Jerusalem  ,1986;  C.  Amdsson,  L.E.  Blomqvist  (a  cura  di),  Symbols  of 
Power,  Stockholm  1987;  B.  Kapferer,  Legends  of  People  Myths  of  State,  Wash¬ 
ington  1988;  C.  Riviere,  Les  liturgies  politiques,  Paris  1988;  W.  Zelinskv  Na- 
tion  into  State,  Chapel  Hill  1988. 

^^'’^^^^^^^zioni  di  un  impolitico,  trad.  it.  di  M.  Marianelli,  Bari 

1967,  p.  281. 


Conclusione.  Il  fascismo  e  la  sacralizzazione  della  politica 


271 


secolare  e  di  misticismo  politico.  E  fra  le  varie  manifestazioni  del¬ 
la  sacralizzazione  della  politica  nel  mondo  moderno,  il  naziona¬ 
lismo  è  certamente  la  più  vitale  e  la  più  universale,  una  religione 
dotata  di  un  fascino  potente,  con  una  straordinaria  capacità  sin- 
cretica  di  assimilazione  e  di  metamorfosi,  e  con  una  formidabile 
forza  di  costruzione  e  di  distruzione^ 

La  tendenza  dei  movimenti  politici  moderni  ad  assumere 
aspetti  religiosi,  nell’ideologia,  nello  stile  di  vita,  nelle  attività  di 
socializzazione  e  di  integrazione  dei  loro  affiliati,  con  la  formu¬ 
lazione  di  un  insieme  di  credenze,  con  il  culto  fideistico  dei  capi 
e  l’adozione  di  riti  e  simboli,  fu  già  notata  alla  fine  del  secolo 
scorso  nei  nascenti  partiti  di  massa,  visti  come  istituzioni  che  imi¬ 
tavano  i  movimenti  religiosi  organizzandosi  sul  modello  della 
chiesa.  Gaetano  Mosca,  in  un  capitolo  dei  suoi  Elementi  di  scien¬ 
za  politica,  analizzò  in  modo  unitario  il  fenomeno  associativo  di 
«chiese,  partiti  e  sette»,  interpretando  le  manifestazioni  religiose 
della  politica  attraverso  le  categorie  del  positivismo,  consideran¬ 
dole  un  prodotto  del  bisogno  di  fede  delle  masse  e  dell’astuzia 
demagogica  dei  politici: 

è  sempre  occorso  di  mettere  a  profitto  le  stesse  debolezze  umane.  Tut¬ 
te  le  religioni,  anche  quelle  che  rinnegano  il  soprannaturale  hanno  il 
loro  speciale  stile  declamatorio,  con  cui  si  fanno  le  prediche,  i  discorsi 
ed  i  sermoni;  tutte  hanno  per  colpire  la  fantasia  il  loro  rituale  e  le  lo¬ 
ro  pompe  esteriori;  le  processioni  alcune  le  fanno  coi  ceri  e  salmo¬ 
diando  litanie,  altre  dietro  le  bandiere  rosse  al  suono  della  marsiglie¬ 
se  o  cantando  l’inno  dei  lavoratori.^ 

Nello  stesso  periodo,  la  definizione  di  «nuova  religione»  fu 
per  Gustave  Le  Bon,  Vilfredo  Pareto,  Georges  Sorel  la  chiave  di 
interpretazione  del  socialismo  sulla  base  di  una  rivalutazione  rea- 


’  Cfr.  G.J.H.  Hayes,  Essays  on  Nationalism,  New  York  1928,  Id.,  Nationa- 
lism:  A  Religion,  New  York  1960;  G.L.  Mosse,  L’uomo  e  le  masse  nelle  ideo¬ 
logie  nazionaliste,  trad.  it.  di  P.  Negri,  Roma-Bari  1982. 

G.  Mosca,  Elementi  di  scienza  politica,  I,  Bari  1953  (la  prima  edizione  era 
del  1895),  p.  284.  Sull’«ampia  interscambiabilità  del  modello  religioso  col  mo¬ 
dello  politico»,  si  vedano  le  osservazioni  di  P.  Pombeni,  Il  problema  del  parti¬ 
to  politico  come  soggetto  teorico:  sull’origine  del  «Partito  moderno».  Premesse 
ad  una  ricerca,  in  F.  Piro,  P.  Pombeni  (a  cura  di).  Movimento  operaio  e  società 
industriale  in  Europa  1870-1970,  Venezia  1981,  pp.  65-67. 


272 


Il  culto  del  littorio 


listica  della  forza  insopprimibile  dell’irrazionale  nella  storia  e  nel¬ 
la  politica^.  Nel  1920,  reduce  dal  suo  viaggio  nella  Russia  bol¬ 
scevica,  Bertrand  Russell  dichiarò  che  il  bolscevismo  era  una  re¬ 
ligione  per  certi  aspetti  simile  all’Islam^’.  Qualche  anno  dopo, 
John  Maynard  Keynes  riprese  e  sviluppò  questa  definizione^; 

Come  altre  religioni  nuove,  il  leninismo  non  deriva  il  suo  potere 
dalla  moltitudine,  ma  da  una  piccola  minoranza  di  convertiti  entu¬ 
siasti,  a  ciascuno  dei  quali  zelo  e  intolleranza  danno  forza  di  un  cen¬ 
tinaio  di  apatici.  Come  altre  religioni  nuove,  il  leninismo  è  guidato  da 
coloro  che  sanno  associare,  forse  sinceramente,  il  nuovo  spirito  con 
la  capacità  di  vedere  molto  più  in  là  dei  loro  seguaci:  uomini  politici 
con  una  dose  per  lo  meno  normale  di  cinismo  politico,  capaci  di  sor¬ 
ridere  e  di  irritarsi,  agili  sperimentalisti  che  la  religione  ha  liberato 
dall’obbligo  verso  la  verità  e  la  pietà,  ma  non  ciechi  di  fronte  alla  realtà 
dei  fatti  e  alla  convenienza,  e  passibili  quindi  dell’accusa  di  ipocrisia 
(benché  sia  accusa  superficiale  e  inutile  quando  si  tratti  di  politici,  lai¬ 
ci  o  ecclesiastici  che  siano).  Come  altre  religioni  nuove,  sembra  to¬ 
gliere  ogni  colore,  ogni  allegria  o  libertà  alla  vita  quotidiana,  sosti¬ 
tuendo  una  monotona  tetraggine  sul  volto  dei  suoi  fedeli.  Come  altre 
religioni  nuove  è  pervaso  da  ardore  missionario  e  da  ambizioni  ecu¬ 
meniche.  Ma,  dopotutto,  dire  che  il  leninismo  è  la  fede  di  una  mino¬ 
ranza  di  fanatici  che  perseguitano  e  fanno  proseliti,  significa  dire,  né 
più  né  meno,  che  è  una  religione,  e  non  soltanto  un  partito  e  che  Le¬ 
nin  è  un  Maometto  e  non  un  Bismarck. 

Il  XX  secolo  può  esser  definito  Vepoca  della  sacralizzazione 
della  politica.  Infatti  questo  fenomeno  ha  raggiunto  i  momenti  di 
massimo  dispiegamento  ed  affermazione  con  i  movimenti  totali¬ 
tari  nella  prima  metà  del  Novecento: 

I  dittatori  -  scriveva  Salvemini  nel  1932  -  abbisognano  di  miti, 
simboli  e  cerimonie  per  irreggimentare,  esaltare  e  spaventare  le  mol¬ 
titudini  e  soffocare  ogni  loro  tentativo  di  pensare.  Le  cerimonie  fan- 


^  Cfr.  G.  Le  Bon,  Psychologie  du  Socialismo,  Paris  1898;  V.  Pareto,  /  siste¬ 
misocialisti,  Torino  1974  (la  prima  edizione,  in  due  volumi,  era  del  1902-1903). 

^  B.  Russell,  Teoria  e  pratica  del  bolscevismo,  trad.  it.  di  J.  Sanders  e  L.  Brec¬ 
cia,  Roma  1970,  pp.  81-82. 

^  J.M.  Keynes,  Esortazioni  e  profezie,  trad.  it.  di  S.  Boba,  Milano  1968,  pp. 
229-230. 


Conclusione.  Il  fascismo  e  la  sacralizzazione  della  politica 


273 


tasiose  e  pompose  e  i  riti  misteriosi  in  una  lingua  strana  propria  del¬ 
la  Chiesa  cattolica  sono  capolavori  nel  loro  genere.  E  questo  model¬ 
lo  che  i  fascisti  e  i  comunisti  vanno  imitando  quando,  per  mezzo  del¬ 
le  loro  dimostrazioni  di  massa,  fanno  appello  agli  istinti  irrazionali 
delle  folle.® 

Ciò  che  caratterizza  il  totalitarismo  rispetto  alla  tirannia,  è  sta¬ 
to  scritto,  è  la  «sacralizzazione  del  politico»^.  E  certamente  vero 
che  comuniSmo,  fascismo  e  nazismo,  hanno  dato  un  impulso  de¬ 
cisivo  alla  sacralizzazione  della  politica  ma  non  va  neppure  igno¬ 
rato  o  trascurato  il  contributo  che  alla  nascita  di  nuovi  culti  se¬ 
colari  hanno  dato  i  movimenti  democratici.  Il  caso  degli  Stati 
Uniti  o  della  Francia  repubblicana  sono,  per  questo  aspetto,  ca¬ 
si  altrettanto  importanti  per  lo  studio  delle  religioni  secolari. 

La  sacralizzazione  della  politica  è  dunque  un  fenomeno  mo¬ 
derno,  anche  se  si  nutre  e  si  sviluppa  assimilando  le  tradizioni 
delle  religioni  classiche.  Le  sue  origini,  secondo  alcuni,  possono 
essere  attribuite  ai  conflitti  propri  della  modernità,  cioè  alle  ten¬ 
sioni  strutturali  inerenti  alla  società  moderna,  «tra  la  crescente 
secolarizzazione  da  un  lato,  e  la  necessità  di  mantenere  un  nu¬ 
cleo  centrale  prescrittivo  minimo  sufficiente  per  l’integrazione 
dall’altro».  Questa  tensione  «è  la  conseguenza  della  contraddi¬ 
zione  tra  il  carattere  espansivo  della  secolarizzazione  e  là  neces¬ 
sità  di  mantenere  un  controllo  universalmente  accettato  senza  il 
quale  la  società  cesserebbe  di  esistere  come  tale»^®. 

Nella  società  secolarizzata,  le  religioni  laiche  possono  essere 
una  delle  risposte  che  la  società  moderna  dà  alla  richiesta  di  in¬ 
tegrazione  attraverso  il  movimento,  il  partito,  lo  Stato  o  altre  pos¬ 
sibili  forme  di  organizzazione  e  di  istituzione,  che  possono  svol¬ 
gere  questa  funzione  integrativa  operando  come  un  sistema  di 
credenze  religiose.  In  momenti  di  crisi  o  di  straordinaria  tensio- 

*  G.  Salvemini,  Il  mito  dell’ uomo-dio,  in  «Giustizia  e  Libertà»,  marzo  1932. 

^  J.  Monnerot,  Sociologie  du  communisme,  Paris  1949,  p.  380:  «Le  totalita- 
risme  est  originai  par  rapport  à  la  tyrannie  en  ce  qu’il  est  sacralisation  du  po- 
litique;  il  se  présente  comme  religion  séculière  et  conquérante  du  type  ‘islami- 
que’:  indistinction  du  politique,  du  religieux  et  de  l’économique  pouvoir  con- 
centré,  et  d’abord  informe». 

G.  Germani,  Democrazia  e  autoritarismo  nella  società  moderna,  in  «Sto¬ 
ria  contemporanea»,  aprile  1980,  pp.  177-216. 


274 


Il  culto  del  littorio 


ne  la  collettività  aspira  a  recuperare  un  senso  totale  della  vita,  co¬ 
me  fondamento  di  una  nuova  stabilità,  aderendo  ai  movimenti 
politici  che  promettono  di  superare  il  caos  in  una  dimensione  più 
alta  di  ordine  comunitario.  In  tal  senso,  il  fenomeno  delle  reli¬ 
gioni  laiche  non  va  analizzato  soltanto  come  espediente  dema¬ 
gogico,  ma  come  espressione  sociale  di  una  esigenza  collettiva. 

Questa  prospettiva  è  senz’altro  utile  per  spiegare  l’origine  e  la 
funzione  di  alcuni  fenomeni  di  religiosità  laica,  ma  non  è  certo  l’u¬ 
nica  valida  per  l’interpretazione  storica.  E  ciò  soprattutto  perché 
la  sacralizzazione  della  politica  può  avere  origini,  forme  e  conse¬ 
guenze  molto  differenti  ed  anche  opposte,  nelle  diverse  epoche  e 
nelle  diverse  situazioni  storiche,  culturali  e  sociali  dei  paesi  in  cui 
si  manifesta.  In  una  società  democratica  in  crisi,  la  funzione  di  ga¬ 
rantire  un  «nucleo  centrale  prescrittivo»  può  essere  svolta  da  una 
religione  laica  in  modo  totalmente  diverso,  per  quanto  riguarda  le 
conseguenze,  a  seconda  che  essa  si  manifesti  nelle  forme  discrete 
e  non  coercitive  della  religione  civile,  tipica  delle  «società  aperte», 
o  nelle  forme  integraliste  della  religione  politica,  tipica  invece  del¬ 
le  «società  chiuse»,  quale  fu  appunto  il  fascismo.  Se  la  democrazia 
è  sempre  vulnerabile  per  la  tensione  inerente  alla  società  moder¬ 
na,  una  minaccia  per  la  sua  sopravvivenza,  quando  emerge  l’esi¬ 
genza  di  assicurare  un  «nucleo  centrale  prescrittivo»,  proviene 
dalla  presenza  di  una  religione  politica  piuttosto  che  da  una  reli¬ 
gione  civile,  anche  se  questa,  a  sua  volta,  può  assumere  aspetti  au¬ 
toritari  e  integralisti,  trasformandosi  in  religione  politica.  Inoltre, 
le  crisi  nella  società  moderna  possono  favorire  la  nascita  e  l’affer¬ 
mazione  di  religioni  laiche  ma  possono  anche  essere  l’occasione, 
per  religioni  laiche  preesistenti  alle  situazioni  di  crisi,  di  farsi  stra¬ 
da  ed  emergere  con  successo.  Considerate  da  un  punto  di  vista  sto¬ 
rico,  le  origini  delle  religioni  laiche  risalgono  al  di  là  delle  crisi  che 
ne  favoriscono  l’affermazione,  come  ha  dimostrato  George  L. 
Mosse  nei  suoi  classici  studi  sulla  «nuova  politica»  e  la  nazionaliz¬ 
zazione  delle  masse.  E  si  può  avanzare  l’ipotesi  che  nella  sacraliz¬ 
zazione  della  politica  riemergano,  come  fiumi  carsici,  antiche  cor¬ 
renti  mai  disseccate  di  passioni  ed  entusiasmi  messianici.  Per  que¬ 
sto,  l’analisi  delle  religioni  laiche  non  può  limitarsi  solo  al  loro 
aspetto  funzionale,  ma  deve  estendersi  anche  al  loro  carattere  più 
propriamente  culturale  e  storico.  Le  nuove  religioni  secolari  pos¬ 
sono  essere  originate,  oltre  che  dalle  tensioni  di  una  società  in  cri¬ 


Conclusione.  Il  fascismo  e  la  sacralizzazione  della  politica 


215 


si,  da  motivazioni  culturali  profonde,  non  ultima  la  vocazione  di 
fede  e  la  volontà  di  potenza,  che  possono  anche  coesistere,  di  chi 
ritiene  di  possedere  la  verità,  in  base  alla  quale  è  per  lui  imperati¬ 
vo  missionario  agire  per  cambiare  il  mondo  in  cui  vive,  cambiare 
la  natura  di  uomini  e  donne,  per  creare,  in  una  nuova  era  di  sal¬ 
vezza,  un  «nuovo  ordine»  e  un  «uomo  nuovo».  E  questi  profeti  e 
capi  di  nuove  rehgioni,  continuamente  generati  dal  grembo  fe¬ 
condo  degli  intellettuali  e  dei  politici  che  aspirano  a  plasmare  la 
natura  umana  secondo  i  loro  modelli,  trovano  proseliti  non  solo 
perché  sono  abili  demagoghi  esperti  nell’arte  di  sedurre  e  mani¬ 
polare  le  masse,  ma  perché  rispondono  alle  richieste  di  una  società 
assetata  di  fede  e  di  sicurezza  in  un  momento  di  crisi,  o  perché 
esprimono  correnti  durature  e  profonde  di  particolari  culture,  o 
semplicemente  perché  soddisfano,  come  riteneva  il  Grande  In¬ 
quisitore  di  Dostoevskij,  un  innato  bisogno  dell’uomo: 

A  chi  genufletterci?  Non  c’è  preoccupazione  più  assillante  e  più 
tormentosa  per  l’uomo,  non  appena  rimanga  libero,  che  quella  di  cer¬ 
carsi  al  più  presto  qualcuno  innanzi  al  quale  genuflettersi.  Ma  l’uomo 
pretende  di  genuflettersi  dinanzi  a  ciò  ch’è  ormai  indiscutibile,  tal¬ 
mente  indiscutibile  che  innanzi  ad  esso  tutti  gli  uomini  in  coro  accon¬ 
sentano  a  una  generale  genuflessione.  Giacché  la  preoccupazione  di 
queste  misere  creature  non  consiste  solo  nel  cercar  qualche  cosa  di 
fronte  alla  quale  io  o  un  altro  qualunque  possiamo  genufletterci,  ma  nel 
cercare  una  cosa  tale,  che  anche  tutti  gli  altri  credano  in  essa  e  vi  si  ge¬ 
nuflettano,  e  anzi,  più  precisamente,  tutti  quanti  insieme.  Appunto 
questa  esigenza  d’una  genuflessione  in  comune  è  il  più  gran  tormento 
d’ogni  uomo  preso  a  sé  e  dell’umanità  nel  suo  insieme  fin  dal  principio 
dei  secoli.  Per  bisogno  di  questa  generale  genuflessione  gli  uomini  si 
son  massacrati  l’un  l’altro  a  colpi  di  spada.  Si  son  creati  degli  dèi  e  si  so¬ 
no  sfidati  l’un  l’altro:  «Abbandonate  i  vostri  e  venite  a  genuflettervi  di¬ 
nanzi  ai  nostri:  altrimenti,  morte  a  voi  e  agli  dèi  vostri».  E  così  avverrà 
fino  alla  fine  del  mondo,  anche  quando  saranno  scomparsi  dal  mondo 
gli  stessi  dèi:  non  importa,  cadranno  in  ginocchio  dinanzi  agl’idoli. 

I  movimenti  come  il  bolscevismo,  il  fascismo  e  il  nazismo  si 
sono  affermati  come  religioni  politiche  ed  hanno  intensificato 


“  F.  Dostoevskij,  I  fratelli  Karamàzov,  trad.  it.  di  A.  Villa,  Milano  1969, 
pp.  403-404. 


276 


Il  culto  del  littorio 


l’aura  sacrale  che  ha  sempre  circondato  il  potere,  attribuendosi 
la  funzione,  propria  della  religione,  di  definire  il  significato  del¬ 
la  vita  e  il  fine  ultimo  dell’esistenza.  Le  religioni  politiche  ripro¬ 
ducono  la  struttura  tipica  delle  religioni  tradizionali,  articolata 
nelle  dimensioni  fondamentali  della  fede,  del  mito,  del  rito  e  del¬ 
la  comunione,  e  si  propongono  di  realizzare,  per  mezzo  dello  Sta¬ 
to  o  del  partito,  una  «metanoia»  della  natura  umana  da  cui  deve 
sorgere  un  «uomo  nuovo»  rigenerato  e  totalmente  integrato  nel¬ 
la  comunità.  Esse  sono,  per  usare  la  distinzione  proposta  da  Pet- 
tazzoni,  «religioni  dello  Stato»,  miranti  a  sostituire  nella  co¬ 
scienza  collettiva  le  «religioni  dell’uomo»^^  La  società  moderna 
ha  fornito,  e  può  ancora  fornire,  strumenti  potenti  alle  religioni 
politiche  per  organizzare  la  vita  collettiva  come  un  vasto  labora¬ 
torio  umano,  in  cui  il  partito  e  lo  Stato  compiono  gli  esperimen¬ 
ti  per  creare  r«uomo  nuovo»,  operando  sul  corpo  sociale. 

Gli  aspetti  del  bolscevismo  e  del  nazismo  come  religioni  po¬ 
litiche  sono  stati  già  studiati,  mentre  il  fascismo  italiano,  per  que¬ 
sto  aspetto,  non  era  stato  finora  preso  in  considerazione,  se  non 
marginalmente.  Per  esempio,  nel  suo  schizzo  di  storia  dell’«Ita- 
lia  religiosa»,  Raffaele  Pettazzoni  salta  dalla  religiosità  laica  del 
Risorgimento  alla  religiosità  laica  della  Resistenza  ignorando  del 
tutto  il  fascismo,  che  pure  è  stato  nell’Italia  unita,  come  abbia¬ 
mo  visto,  l’unica  religione  secolare  istituzionalizzata  dallo  Stato^^. 
Anche  studi  comparativi  più  recenti  sulle  religioni  secolari  han¬ 
no  trascurato  l’analisi  della  religione  politica  fascista.  Eppure,  che 
il  fascismo  sia  stato  una  religione  laica  non  è  scoperta  recente  e 
non  discende  soltanto  dall’autorappresentazione  che  i  fascisti  da¬ 
vano  di  se  stessi:  fatto  storico,  questo,  di  per  sé  comunque  degno 
di  attenzione,  se  è  vero  che  «l’uomo  credendo  (non  dico  cono¬ 
scendo,  ma  credendo)  diversamente,  opera  diversamente»^"*.  Do¬ 
po  tutto,  non  va  trascurato  il  fatto  che  il  fascismo  fu  il  primo  espe¬ 
rimento  di  istituzionalizzazione  di  una  nuova  religione  laica  fat¬ 
to  in  Europa  dai  tempi  della  rivoluzione  francese.  Fino  all’av¬ 
vento  del  nazismo  al  potere,  l’unica  analogia  poteva  essere  fatta 

R.  Pettazzoni,  Italia  religiosa,  Bari  1952,  pp.  7-8. 

Ivi,  pp.  67-81. 

*"*  G.  Leopardi,  Zibaldone,  in  Tutte  le  opere,  a  cura  di  W.  Binni,  Firenze 
1969,  voi.  II,  p.  151. 


277 


Conclusione.  Il  fascismo  e  la  sacralizzazione  della  politica 

con  l’esperimento  bolscevico,  che  tuttavia,  a  differenza  del  fasci¬ 
smo,  professava  e  praticava  il  materialismo  ateo,  lo  scientismo  an¬ 
tireligioso,  il  mito  dell’internazionalismo,  e  che  pur  avendo  avu¬ 
to,  specialmente  nei  primi  anni  della  rivoluzione,  un  vistoso  fio¬ 
rire  di  feste  e  riti  di  massa,  procedeva  con  minore  impegno  si¬ 
stematico  nella  istituzione  di  un  culto  collettivo*^.  Nonostante  la 
nascita  del  culto  di  Lenin  dopo  la  sua  morte,  solo  alla  fine  degli 
anni  Venti,  e  probabilmente  anche  per  suggestione  del  modello 
italiano,  cominciò  ad  imporsi  in  Russia  il  culto  della  personalità 
dedicato  ad  un  capo  vivente*^. 

L’importanza  dell’aspetto  religioso  del  fascismo  non  era  sfug¬ 
gita  ad  alcuni  osservatori  contemporanei  che  lo  segnalarono  come 
una  delle  caratteristiche  più  originali  del  nuovo  movimento,  anche 
se  lo  considerarono  inizialmente  soltanto  espressione  di  una  gene¬ 
rica  e  tradizionale  «religione  della  patria»,  sia  pure  in  forma  più  vi¬ 
va  ed  esaltata;  ma  vi  fu  anche  chi  intuì  nel  fascismo  la  natura  di  una 
nuova  religione  politica  consapevole  della  sua  natura  e  dei  suoi 
obiettivi,  e  opportunamente  richiamò  l’attenzione  sui  miti,  i  riti  e 
i  simboli  di  quella  che  venne  definita  «religione  fascista»*^.  Il  fa¬ 
scismo,  osservavano  nel  1929  due  studiosi  americani,  «possiede  i 
caratteri  embrionali  di  una  nuova  religione.  Resta  da  vedere  se  es¬ 
si  si  svilupperanno  o  meno,  ma  non  v’è  dubbio  che  questo  nuovo 
culto  ha  già  una  certa  presa  sul  cuore  e  sull’immaginazione  degli 
italiani  [...]  Il  fascismo  è  una  genuina  religione  e  si  serve  di  tutte  le 
tecniche  di  un  culto  religioso»**.  Negli  anni  Trenta,  un  osservato¬ 
re  francese,  simpatizzante  del  regime,  vide  nella  liturgia  politica  di 
massa  praticata  dal  regime,  la  dimostrazione  che  il  fascismo  aveva 
dato  vita  in  Italia  ad  una  nuova  religione  civile*^. 

Le  conclusioni  a  cui  siamo  giunti  attraverso  la  nostra  indagi¬ 
ne  ci  sembrano  confermare  l’intuizione  di  questi  osservatori.  Il 

Cfr.  Lane,  The  Rites  ofRulers  cit. 

Cfr.  sul  culto  di  Lenin,  N.  Tumarkin,  Lenin  Lives!,  Cambridge  1983;  pel¬ 
le  origini  del  culto  di  Stalin,  cfr.  J.L.  Weizer,  The  Cult  of  Stalin  1929-1939, 
Ph.D.,  University  of  Kentucky  1977. 

Cfr.  G.  Prezzolini,  Le  Fascisme,  Paris  1925,  pp.  72-73;  H.W.  Schneider, 
Making  thè  Fascist  State,  New  York  1928,  pp.  215  sgg.;  H.W.  Schneider,  S.B. 
Clough,  Making  thè  Fascists,  Chicago  1929,  p.  73. 

Schneider,  Clough,  Making  thè  Fascists,  cit.,  p.  73. 

P.  Gentizon,  Souvenirs  sur  Mussolini,  Roma  1958,  p.  225. 


I 


278 


Il  culto  del  littorio 


fascismo  al  potere  istituì  una  religione  laica  attraverso  la  sacra¬ 
lizzazione  dello  Stato  e  la  diffusione  di  un  culto  politico  di  mas¬ 
sa  mirante  a  realizzare  l’ideale  del  cittadino  virile  e  virtuoso,  de¬ 
dito  anima  e  corpo  alla  nazione.  In  questa  impresa  il  fascismo 
profuse  un  considerevole  capitale  di  energie,  sottraendole  ad  al¬ 
tri  campi  forse  più  importanti  sia  per  l’interesse  del  regime  che 
per  quello  della  popolazione,  al  fine  di  propagandare  la  sua  dot¬ 
trina  e  suscitare  nelle  masse  la  fede  nei  suoi  dogmi,  l’obbedien¬ 
za  ai  suoi  comandamenti,  l’assimilazione  della  sua  etica  e  del  suo 
stile  di  vita.  Un  impegno  nella  organizzazione  dei  riti  di  massa, 
che  si  dispiega,  con  ossessiva  determinazione,  nell’arco  di  un  ven¬ 
tennio  senza  arrestarsi  neppure  mentre  il  regime  viene  scrollato 
alle  fondamenta  dalle  sconfitte  militari,  è  già  di  per  sé  un  pro¬ 
blema  che  merita  riflessione. 

Il  tema  della  religione  fascista  non  si  esaurisce  nella  rappre¬ 
sentazione  liturgica,  che  ne  è  soltanto  una  componente,  anche  se 
la  più  spettacolare.  Considerare  il  simbolismo  e  il  rituale  soltan¬ 
to  per  gli  aspetti  estetici  e  propagandistici,  prescindendo  dal  si¬ 
stema  di  credenze  e  di  valori,  dalla  teologia  politica  che  lo  ispi¬ 
rava  e  che  esso  rappresentava,  darebbe  una  visione  parziale  e  di¬ 
storta  del  rituale  stesso  e,  di  conseguenza,  porterebbe  ad  una  va¬ 
lutazione  scorretta  del  suo  significato  storico.  Riti  e  simboli  sono 
presenti  in  tutti  i  movimenti  politici  e  non  è  certo  arduo,  avva¬ 
lendosi  degli  studi  della  sociologia  e  dell’antropologia,  stabilire 
analogie  fra  le  liturgie  delle  differenti  religioni  civili  e  politiche, 
individuando  comparativamente  natura  e  funzioni  comuni,  al  di 
là  della  diversità  delle  credenze^".  Come  abbiamo  cercato  di  di¬ 
mostrare  con  la  nostra  indagine,  riteniamo  che  il  culto  fascista 
non  sia  riducibile  esclusivamente  ad  un  problema  di  propagan¬ 
da,  di  estetica  delle  celebrazioni,  di  spettacoli  per  divertire  e  in- 


Non  volendo  inoltrarci,  dato  il  carattere  di  questo  saggio,  in  una  analisi 
teorica  del  problema  del  simbolismo  e  della  liturgia  politica,  rinviamo  volen¬ 
tieri,  per  questi  aspetti,  agli  studi  più  recenti  che  abbiamo  avuto  particolar¬ 
mente  presenti  per  il  nostro  lavoro:  M.  Edelman,  Gli  usi  simbolici  della  politi¬ 
ca,  trad.  it.  di  R.  Foglia  Manzillo  e  A.  Piazza,  Napoli  1987  (per  una  analisi  cri¬ 
tica  della  teoria  di  Edelman  e,  più  in  generale,  del  problema  del  simbolismo 
politico,  cfr.  G.  Simboli  e  politica,  Napoli  1991);  D.I.  Keitzer,  Riti  e  sim¬ 
boli  del  potere,  trad.  it.  di  V.  Giacopini,  Roma-Bari  1989;  Rivière,  Les  liturgies 
politiques  cit. 


Conclusione.  Il  fascismo  e  la  sacralizzazione  della  politica 


279 


gannare  le  masse,  e  neppure  può  esser  posto  soltanto  in  termini 
di  sincerità  o  di  simulazione  della  fede.  Il  problema  è  più  serio  e 
anche  più  drammatico.  I  riti  e  le  feste  di  massa  volevano  educa¬ 
re  per  convertire,  investendo  i  valori  fondamentali  e  i  fini  ultimi 
dell’esistenza.  La  funzione  della  liturgia  di  massa  andava  oltre  l’a¬ 
spetto  ludico  o  demagogico,  che  pure  era  presente:  mirava  a  con¬ 
quistare  e  plasmare  la  coscienza  morale,  la  mentalità,  i  costumi 
della  gente,  e  persino  i  suoi  più  intimi  sentimenti  sulla  vita  e  sul¬ 
la  morte.  Nella  socializzazione  di  una  religione  politica  capace  di 
cambiare  il  carattere  degli  italiani,  trasformandoli  in  una  comu¬ 
nità  di  credenti  nel  culto  del  littorio,  i  fascisti  vedevano  la  prin¬ 
cipale  condizione  per  gettare  le  fondamenta  di  uno  Stato  desti¬ 
nato  a  durare  nel  tempo  e  a  lasciare  nei  secoli  l’impronta  di  una 
«nuova  civiltà». 

L’esperimento  totalitario  della  religione  politica  fascista  è  fal¬ 
lito  fra  le  rovine  di  una  disastrosa  sconfitta  militare,  in  una  guer¬ 
ra  che  fascismo  e  antifascismo  vissero  e  combatterono  come 
«guerra  di  religione».  Probabilmente  le  cause  del  fallimento  era¬ 
no  nella  natura  stessa  dell’esperimento,  condotto  nell’euforia  di 
un  volontarismo  che  ritenne  duraturo  ciò  che  era  effimero,  scam¬ 
biando  le  emozioni  per  convinzioni,  l’entusiasmo  del  successo 
per  confessione  di  fede,  la  massa  fisica  delle  adunate  oceaniche 
per  il  corpo  cosciente  della  nazione.  Ma  lo  stesso  è  accaduto  per 
altri  esperimenti  di  religioni  secolari.  Il  fallimento,  tuttavia,  non 
consente  di  dichiarare  la  marginalità  storica  del  fenomeno,  e  la 
scarsa  rilevanza  del  suo  significato  per  la  comprensione  della  no¬ 
stra  epoca.  Leggere  la  storia  a  ritroso,  guidati  dal  senno  del  poi, 
non  ci  sembra  il  metodo  più  adatto  per  lo  studio  del  passato,  e 
ancor  meno  per  restituire  drammaticità  ad  una  esperienza  poli¬ 
tica  in  cui  furono  coinvolti  milioni  di  uomini  e  donne,  governati 
e  governanti,  cui  non  era  concesso  di  conoscere  in  anticipo  la  fi¬ 
ne  della  storia  di  cui  erano  attori. 

C’è  un  altro  quesito  ineludibile  che  si  trova  di  fronte  chi  stu¬ 
dia  le  religioni  secolari,  e  che  ha  probabilmente  accompagnato  il 
lettore  in  questo  viaggio.  Erano  la  teologia  e  la  liturgia  del  fasci¬ 
smo  l’espressione  di  una  fede  genuina,  di  una  sincerità  di  con¬ 
vinzioni,  oppure  ci  troviamo  di  fronte  ad  una  mera  manifesta¬ 
zione  della  demagogia,  con  tutto  il  suo  sofisticato  apparato  di  ar¬ 
ti  subdole  e  suadenti  messe  in  atto  per  ingannare  e  manipolare 


280 


Il  culto  del  littorio 


le  masse?  Non  è  forse  il  culto  delle  religioni  secolari  un  fastoso 
cerimoniale,  dietro  il  quale  si  nasconde,  brutale  nella  sua  nudità, 
la  volontà  di  potere  dei  governanti  e  la  spregiudicata  arte  dei  per¬ 
suasori  occulti  o  palesi?  A  questa  domanda  non  ci  sentiamo  di 
dare  una  risposta  univoca.  Non  ce  culto  politico  senza  orche¬ 
strazione  dei  riti  e  dei  simboli.  Ogni  liturgia  predispone,  con  l’ar¬ 
tificio  della  regia,  tutto  quanto  reputa  utile  per  suscitare  forti 
emozioni  nei  partecipanti  e  negli  spettatori.  Anche  il  culto  più 
austero  affida  all’artificio  di  riti  e  simboli  essenziali  l’espressione 
della  propria  devozione  verso  il  sacro.  Ma  accanto  all’artificio, 
mescolati  con  esso,  operano  la  spontaneità  e  l’entusiasmo  del  cre¬ 
dente  convinto  di  possedere  la  verità.  Il  culto  pubblico  è  una  te¬ 
stimonianza  di  fede  praticata  anche  attraverso  l’artificio  della 
propaganda.  Per  il  credente,  la  propaganda  non  solo  non  è  atto 
riprovevole,  da  preparare  nell’ombra  e  praticare  con  la  simula¬ 
zione,  ma  è  anzi  teorizzata  e  sublimata  in  piena  luce,  come  atti¬ 
vità  coerente  con  la  professione  della  fede.  La  propagazione  del¬ 
la  fede  è  dovere  del  credente  per  conquistare  conversioni  e  non 
solo  adesioni  contingenti. 

Affermazioni  generali  sulla  sincerità  e  sulla  simulazione  della 
fede  nelle  religioni  secolari  -  ma  il  problema  sarebbe  poi  diver¬ 
so  per  altri  tipi  di  religione?  -  spesso  attingono  la  loro  pretesa  di 
verità  più  dai  pregiudizi  sulla  natura  dell’uomo  che  da  attendi¬ 
bili  e  verificabili  conoscenze  di  fatto.  Il  fallimento  delle  religioni 
secolari  ha  rivelato  finora  che  esse  sono  fragili,  ma  non  dimostra 
che  siano  sorte  e  si  siano  fondate  solo  sulla  malafede,  la  menzo¬ 
gna,  il  calcolo  politico  e  la  demagogia  come  pure  non  consente 
di  pensare  che  le  fonti  che  le  hanno  generate  si  siano  definitiva¬ 
mente  esaurite.  Sintomi  recenti  lascerebbero  credere  il  contrario, 
inducendo  alcuni  studiosi  a  parlare  di  un  processo  di  risacraliz¬ 
zazione  della  politica  in  corso,  attraverso  una  nuova  politicizza¬ 
zione  delle  religioni  tradizionali  e  una  nuova  «religionizzazione» 
della  politica^b  II  problema  della  sincerità  della  fede  rimane  co¬ 
munque  aperto  ad  ogni  verifica  adeguata  e  approfondita.  Dopo 
le  esperienze  delle  religioni  politiche  del  XX  secolo,  tutt’altro  che 
esaurite  nonostante  i  crolli  fragorosi  degli  ultimi  tempi,  bisogna 


Cfr.  J.A.  Beckford,  T.  Luckmann  (a  cura  di),  The  Changing  Face  of  Re- 
ligion,  London  1991,  pp.  13-14. 


281 


Conclusione.  Il  fascismo  e  la  sacralizzazione  della  politica 

forse  rassegnarsi  a  riconoscere  che  persino  l’assurdo  e  il  disuma¬ 
no  possono  suscitare  entusiasmi  di  fede  e  credenze  religiose.  Il 
cinismo  può  convivere  con  il  fanatismo. 

Al  di  là  del  problema  della  sincerità  della  fede,  c’è,  nella  sua 
indiscutibile  realtà  storica,  il  fenomeno  della  sacralizzazione  del¬ 
la  politica,  che  solo  ora  comincia  ad  essere  affrontato  con  spiri¬ 
to  scientifico.  Negli  ultimi  anni,  molti  progressi  sono  stati  fatti 
per  l’analisi  della  dimensione  religiosa  della  politica  nella  società 
moderna,  soprattutto  però  nel  campo  della  sociologia,  mentre 
siamo  ancora  agli  inizi  di  una  storia  delle  religioni  secolari.  La 
teologia  politica  del  Novecento,  osservava  Clifford  Geertz  alcu¬ 
ni  anni  fa,  «non  è  stata  scritta,  benché  qua  e  là  vi  siano  stati  dei 
fugaci  sforzi.  Ma  esiste  -  o  per  meglio  dire,  ne  esistono  varie  for¬ 
me  —  e  finché  non  verrà  compresa  almeno  quanto  quella  dei  Tu- 
dor,  dei  Majapahit  o  degli  Alawiti,  una  gran  parte  della  vita  pub¬ 
blica  dei  nostri  giorni  resterà  oscura.  Lo  straordinario  non  è  usci¬ 
to  dalla  politica  moderna,  nonostante  tutto  il  banale  che  vi  può 
essere  entrato:  il  potere  non  solo  intossica  ancora,  esalta  anco- 
ra»22.  Ed  è  alla  storia  della  teologia  politica  del  Novecento,  che 
la  ricerca  che  qui  si  interrompe  ha  voluto  dare  un  contributo. 


22  C.  Geertz,  Centri,  re  e  carisma:  riflessioni  sul  simbolismo  del  potere,  in 
Id.,  Antropologia  interpretativa,  trad.  it.  di  L.  Leonini,  Bologna  1988,  p.  181. 


INDICE  DEI  NOME 


Acerbo,  Giacomo,  76,  83. 

Adamson,  W.L.,  23n. 

Alberti,  A.C.,  182n. 

Alfieri,  Dino,  190  e  n,  191  e  n,  192n, 
196n. 

Alighieri,  Dante,  10,  43,  246-7. 
Alvaro,  Corrado,  257,  259n. 

Alvisi,  Giacomo,  15n. 

Amato,  Orazio,  201n. 

Amendola,  Giovanni,  85  e  n. 
Andreotti,  L.,  190n,  197n,  200n, 
206n. 

Anzilotti,  Antonio,  8n. 

Appelius,  Mario,  103n. 

Apter,  D.E.,  270n. 

Aron,  R.,  270n. 

Arpinati,  Leandro,  158. 

Arvidsson,  C.,  27 On. 

Augusto,  Gaio  Giulio  Cesare  Ottavia¬ 
no,  131-2,  219n,  229,  231-2,242. 

Balbo,  Italo,  42n,  44  e  n,  247. 

Banfi,  Gian  Luigi,  228n,  229n,  23  In. 
Bardi,  Pietro  Maria,  113n,  193n. 
Battoli,  Amerigo,  190. 

Bartoli,  M.,  15n. 

Bastianini,  Giuseppe,  82n,  247. 
Battaglia,  Felice,  105n. 

Battisti,  Cesare,  199,  242. 

Bazzani,  Cesare,  224n. 

Becker,  A.,  3 In. 

Beckford,  J.A.,  280n. 

Bedeschi,  L.,  126n. 


Belgiojoso,  Ludovico  Barbiano  di, 
228n, 229n, 231n. 

Benzi,  Fabio,  185n,  224n. 

Bernasconi,  Umberto,  172n. 

Bertoni,  A.,  29n. 

Bertoni  Jovine,  D.,  14n,  17n. 

Betri,  M.L.,  243n. 

Bianchi,  Michele,  82n,  84  e  n. 

Bianchi  Mina,  Ivan,  217n. 

Binni,  W.,  276n. 

Biondi,  D.,  236n. 

Blasetti,  Alessandro,  192n. 

Blomqvist,  L.E.,  270n. 

Boba,  S.,  272n. 

Bodrero,  Emilio,  91,  139. 
Boncompagni  Ludovisi,  Francesco, 
224n. 

Bonetta,  G.,  15n. 

Boni,  Giacomo,  77. 

Borghi,  L.,  14n. 

Borg,  A.,  3  In. 

Bortolotto,  Guido,  120n,  147n. 
Bottai,  Giuseppe,  38, 39n,  50  e  n,  63n, 
93,  99  e  n,  106  e  n,  107  e  n,  125  e 
n,  132  e  n,  146,  165  e  n,  173  e  n, 
178  e  n,  182n,  208  e  n,  233,  246, 
247  e  n,  249. 

Bouthoul,  G.,  28n. 

Bracher,  K.D.,  240n. 

Bragaglia,  Anton  Giulio,  182n. 
Brasini,  Armando,  224n. 

Braun,  E.,  185n. 

Breccia,  L.,  272n. 


*  Per  la  frequenza  con  cui  compare,  non  è  stato  indicizzato  il  nome  di  Be¬ 
nito  Mussolini. 


286 


Indice  dei  nomi 


Buonarroti,  Filippo,  7. 

Burckhardt,  Jacob,  V. 

Burzio,  Filippo,  53n. 

Cagli,  Corrado,  179. 

Calvesi,  M.,  221  n. 

Camesasca,  E.,  185n. 

Cammarata,  Angelo,  244n. 

Campigli,  Massimo,  187n. 

Canal,  C.,  3 In. 

Cannistraro,  P.V.,  XI,  241n. 
Cantalupo,  Roberto,  244n. 
Cantimori,  D.,  7n. 

Carlini,  Armando,  121  e  n. 
Carminati,  Antonio,  224n,  225. 
Carrà,  Carlo,  187n,  237. 

Casati,  Alessandro,  14. 

Cascella,  Basilio,  181  e  n. 

Castelli  Guaccero,  Michele,  263. 
Catalano,  F.,  9n. 

Cataldi  ViUari,  F.,  6n. 

Cavallera,  Harvé  A.,  102n. 

Cavalli,  L.,  238n. 

Cavallo,  P.,  184n. 

Cavara,  Otello,  32n,  53n. 

Cavour,  Camillo  Benso,  conte  di,  20, 
184, 245. 

Cecchi,  Emilio,  231  e  n. 

Cesare,  Caio  Giulio,  132,  184,  232, 
242-3,245. 

Chabod,  F.,  14n,  22n. 

Charles-Roux,  Frangois,  67n. 
Chiappelli,  Alessandro,  2  Un. 
Chiosso,  G.,  lOOn. 

Chiurco,  Giorgio  Alberto,  67n. 
Ciaceri,  Emanuele,  130n. 

Cianetti,  Tullio,  246-7,  248n. 
Ciarlantini,  Franco,  130n,  2  Un, 
244n. 

Cicala,  V.,  19n. 

Cini,  V.,  228n,  229n. 

Ciocca,  G.,  23  In. 

Ciucci,  G.,  212n,  220n. 

Clough,  S.B.,  277n. 

Colarizi,  S.,  261n. 

Comba,  Augusto,  9n. 

Conti,  G.,  XI,  16n. 

Coppino,  Michele,  14. 


Cordova,  F.,  241n. 

Corgnati,  M.,  19n. 

Corneille,  Pierre,  183. 

Corradini,  Enrico,  25,  26  e  n. 
Corridoni,  Filippo,  43,  242. 
Costamagna,  Carlo,  143n,  145  e  n, 
249  e  n. 

Coyer,  Gabriel-Fran^ois,  5. 
Cremonesi,  Filippo,  82n. 

Crescini,  G.,  223. 

Cresti,  C.,  32n,  192n,  212n,  220n. 
Crispi,  Francesco,  21,  242. 

Croce,  Benedetto,  23,  24n,  267. 
Curcio,  Carlo,  144,  145n. 

Czerkl,  E.,  27n. 

D’Annunzio,  Gabriele,  30  e  n,  199 
238. 

D’Aroma,  Nino,  52n. 

David,  Jacques-Louis,  150. 

D’Azeglio,  Massimo,  12. 

De  Benedetti,  M.,  217n. 

De  Bono,  Emilio,  82n. 

De  Felice,  L.,  6n,  270n. 

De  Felice,  R.,  7n,  28n,  3  In,  125n, 
137n,  149n,  184n,  21  In,  236n, 
238n, 240n,  248n,  259n. 

De  Francisci,  Pietro,  130n. 

De  Grazia,  V.,  182n. 

Delcroix,  Carlo,  72. 

Del  Debbio,  Enrico,  226-7. 

De  Leva,  Carlo,  120n. 

Del  Noce,  A.,  102n. 

De  Luca,  Giuseppe,  125n. 

De  Mattei,  Rodolfo,  145  e  n. 

De  Michelis,  Giacinto,  4 In. 

Denis,  Maurice,  202. 

De  Nolva,  Raul,  151  e  n,  251n. 

De  Renzi,  Mario,  193. 

De  Ruggiero,  Guido,  28n. 

De  Sanctis,  Francesco,  9n,  12  e  n,  13 
e  n,  15. 

De  Seta,  C.,  180n. 

De  Stefani,  Alberto,  76. 

Dinaie,  Ottavio,  154n,  190n,  207n, 
21  In,  242n. 

Don-Yehiya,  E.,  270n. 

Dostoevskij,  Fiodor,  275  e  n. 


Indice  dei  nomi 


287 


Dozon  Daverio,  A.,  28n. 

Ducati,  Pericle,  78n. 

Durkheim,  E.,  28n,  37  e  n. 

Edehnan,  M.,  278n. 

Eliade,  M.,  134n,  135  e  n. 

Ercole,  Francesco,  244n. 

Ernesti,  G.,  212n. 

Estermann-Juchler,  M.,  212n,  213n. 
Etlin,  R.A.,212n,217n,  220n. 

Evola,  Julius,  128  e  n. 

Falchi,  Luigi,  77n. 

Fanchiotti,  Edoardo,  16n. 

Fantini,  Oddone,  11  In. 

Farinacci,  Roberto,  109,  184,  247. 
Fasani,  R.,  29n. 

Fatica,  O.,  27n. 

Fava,  A.,  62n. 

Fazio-AUmayer,  Vito,  27n. 

Fedel,  G.,  278n. 

Fedele,  Pietro,  89n. 

Ferrara,  G.,  29n. 

Ferrara,  P.,  XI,  15n,  17n,  158n,  228n. 
Ferretti,  Giuseppe,  lOn. 

Feuerbach,  Ludwig,  267. 

Filoramo,  G.,  270n. 

Fincardi,  M.,  42n. 

Finer,  M.,  152n. 

Finzi,  Aldo,  46,  144n. 

Fioravanti,  G.,  190n,  196n,  219n. 
Fiorentino,  C.M.,  XI. 

Foglia  ManziUo,  R.,  278n. 

Fogu,  C.,  XI. 

Forti,  Raul,  42n. 

Fortunato,  Giustino,  250  e  n. 
Foschini,  Arnaldo,  226-7. 

Fraddosio,  M.,  XI. 

Frampton,  K.,  217n. 

Freddi,  Luigi,  50n,  82n,  190n. 

Funi,  Achille,  187n,  190. 

Gamberini,  Guido,  99n,  113n. 
Gargano,  Francesco,  203n,  204n, 
206n. 

Garibaldi,  Giuseppe,  20,  43,  160, 
199,  242, 245. 

Garibaldi,  Peppino,  71n. 


Garibaldi,  Sante,  7  In. 

Garin,  E.,  227n. 

Garin,  M.,  6n. 

Gaspari,  O.,  259n. 

Gatto,  Salvatore,  103  en,  165n,  167n. 
Geertz,  C.,  iXn,  270n,  281  e  n. 
Gentile,  E.,  lOn,  25n,  3 In,  37n,  lOOn, 
102n,  125n,  130n,  144n,  236n, 
237n,  238n, 246n. 

Gentile,  Giovanni,  11,  23,  62,  101, 
102  e  n,  104, 120  e  n,  128  e  n,  129, 
144  e  n,  165,  166n,  167,  246  e  n. 
Gentizon,  Paul,  277n. 

Germani,  G.,  273n. 

Ghedini,  Giuseppe,  42n. 

Ghirardo,  D.Y.,  190n,  212n,  217n. 
Giacopini,  V.,  278n. 

Giampaoli,  Mario,  104  e  n. 

Giani,  Niccolò,  243. 

Giannetto,  M.,  XI. 

Giansardi,  pittore,  49. 

Gide,  André,  202. 

Giglioli,  Giulio  Quirino,  131. 
Gioberti,  Vincenzo,  8,  229. 

Giolitti,  Giovanni,  193. 

Giordani,  Igino,  126n. 

Giorgetta,  A.,  180n. 

Girard,  R.,  27n. 

Giuliano,  Balbino,  lOln,  104  e  n,  105, 
181n. 

Giunta,  Francesco,  82n. 

Giuntini,  S.,  15n,  16n. 

Giuriati,  Giovanni,  110,  246  e  n, 
247n. 

Goglia,  L.,  23 6n,  240n. 

Golomstock,  L,  180n. 

Gotta,  Salvatore,  179n. 

Gradi,  M.,  238n. 

Grandi,  Dino,  247. 

Grandi,  T.,  9n. 

Gravelli,  Asvero,  49n,  242. 

Gregory,  T.,  227n. 

Guerri,  G.B.,  247n. 

Guerrini,  G.,  231,  232n. 
Guicciardini,  Francesco,  12. 

Guidoni,  E.,  227n,  228n,  229n,  23  In. 
Guyau,  Jean-Marie,  24. 


288 


Indice  dei  nomi 


Harten,  J.,  185n. 

Hasler,  A.B.,  236n,  242n. 

Hayes,  GJ.H.,  27 In. 

Hitler,  Adolf,  170,  236,  238  e  n. 
Horn,  W.,  23 8n. 

Hunt,  L.,  6n. 

Ilari,  V.,  16n. 

Imbriani,  A.M.,  236n. 

Isola,  G.,  19n. 

Isnenghi,  M.,  62n. 

Izzo  Agnetti,  M.L.,  6n,  147n. 

Jannelli,  Mario,  168n. 

Jones,  D.G.,  270n. 

Kapferer,  R.,  270n. 

Kertzer,  D.I.,  278n. 

Keynes,  John  Maynard,  272  e  n. 
Koenker,  E.B.,  270n. 

Kostof,  S.,  13 In. 

Labanca,  N.,  17n. 

Lanaro,  S.,  22n. 

Lane,  C.,  270n,  277n. 

Lanzillo,  Agostino,  29  e  n. 

La  Radula,  Ernesto,  231,  232n. 

Le  Bon,  Gustave,  146  e  n,  149n,  271, 
272n. 

Le  Corbusier  {pseud.  di  Charles- 
Édouard  Jeanneret),  202. 

Ledeen,  M.A.,  3  In. 

Lenin  {pseud.  di  Vladimir  Il’ic  Ul’ja- 
nov),  44,  272,  277  e  n. 

Leonardi,  Giuseppe,  42n. 

Leoni,  Diego,  32n,  62n. 

Leonini,  L.,  281n. 

Leopardi,  Giacomo,  3,  276n. 

Lepre,  A.,  261n. 

Libera,  Adalberto,  190,  193,  196n, 
200,213. 

Liberati  Silverio,  A.M.,  132n. 
Liebman,  C.S.,  270n. 

Lingeri,  Pietro,  224n,  225. 

Lisanti,  L.,  xi. 

Lloyd  Warner,  W.,  3 In. 

Lolini,  Ettore,  98  e  n. 

Lombardo  Radice,  Giuseppe,  23  e  n. 


Longanesi,  Leo,  190,  192n,  199. 
Luckmann,  T.,  280n. 

Ludwig,  Emil,  134n,  143n,  149n, 
150n,  164n,  212n. 

Lupi,  Dario,  60n,  61  e  n,  62  e  n,  97, 
98n. 

Lux,  S.,  227n,  228n. 

Maccari,  Mino,  190. 

Maccaroni,  C.R.,  159n. 

Machiavelli,  Niccolò,  242,  249n. 
Maffi,  E.,  209n. 

Maffi,  Q.,  209n. 

Malatesta,  Errico,  3. 

Mandel,  Roberto  Giuseppe,  60n. 
Mann,  Thomas,  270  e  n. 

Mannucci,  E.J.,  6n. 

Mantoni,  A.,  23  In. 

Maraviglia,  Maurizio,  108n. 
Marchesini,  D.,  146n,  243n. 

Mariani,  Felice,  17n. 

Mariani,  R.,  216. 

Marianelli,  M.,  270n. 

Marinelli,  Giacomo,  82n,  192n,  203n, 
224n. 

Marinetti,  Filippo  Tommaso,  29  e  n, 
193n. 

Marini,  G.F.,  61n. 

Marini,  Marino,  190,  197. 

Marpicati,  Arturo,  1 16  e  n. 
Martignetti,  M.,  112n. 

Marx,  Karl,  44. 

Masi,  A.,  125n,  165n. 

Masi,  Giorgio,  lOOn. 

Mathiez,  A.,  37  e  n,  38n,  166. 
Matteotti,  Giacomo,  86,  252. 
Matthiessen,  F.O.,  267. 

Mazzatosta,  M.T.,  62n,  113n,  256n, 
261n. 

Mazzini,  Giuseppe,  8,  9  e  n,  10,  Ile 
n,  13,21,30,  39,  113,242,245. 
Mcintyre,  C.,  3  In. 

Melchiori,  Alessandro,  209n. 

Mellini,  G.,  19n. 

Melograni,  P.,  236n. 

Mercante,  L.,  180n. 

Menano,  Francesco,  48n,  50n. 

Merkl,  P.M.,  270n. 


Indice  dei  nomi 


289 


Michelet,  Jules,  149. 

Michels,  Roberto,  147  e  n,  265  e  n. 
Millon,  H.A.,  13 In. 

Minucci,  Gaetano,  213. 

Misciattelli,  Pietro,  98n. 

Missori,  M.,  XI,  112n. 

Mola,  A.M.,  14n. 

Momigliano,  E.,  127n. 

Monnerot,  J.,  273n. 

Montanelli,  S.,  28n. 

Monteleone,  R.,  3 In. 

Monti,  Antonio,  168n,  190  e  n,  200n. 
Monticone,  A.,  62n. 

Morbiducci,  Publio,  133. 

Moro,  R.,  125n,  126n. 

Morpurgo  Vittorio,  227,  254. 

Mosca,  Gaetano,  271  e  n. 

Mosillo,  C.,  XI. 

Mosse,  G.L.,  XI,  6n,  22n,  29n,  30n, 
31n,  61n,  150n,  157n, 270n, 271n, 
274. 

Murri,  Romolo,  100  e  n,  101. 
Mussolini,  Arnaldo,  162n,  243. 

Napoleone  I,  imperatore,  184,  242. 
Negri,  P.,  30n,  61n,  182n,  271n. 

Neri,  Giovanni,  144n. 

Nicolai,  Ranieri,  160n. 

Nietzsche,  Friedrich,  24,  121. 
Nochlin,  L.,  13  In. 

Nuti,  F.,  XI. 

Orano,  Paolo,  106  e  n,  244  e  n. 
Oriani,  Alfredo,  242. 

Orlow,  D.,  238n. 

Ostenc,  M.,  243n. 

Paóni,  Roberto,  207n. 

Padellato,  Nazzareno,  107n,  135n, 
148n,  164n. 

Pagano,  Giuseppe,  180  e  n,  212. 
Pagliaro,  Antonio,  124n,  212n. 
Palanti,  Mario,  213  e  n,  214,  222. 
Panunzio,  Sergio,  29  e  n. 

Pareto,  Vilfredo,  271,  272n. 

Parti,  Ferruccio,  252n. 

Passerini,  L.,  236n,  257n. 

Pavese,  Roberto,  173n. 


Pedrazza,  Piero,  103n. 

Pellicani,  L.,  270n. 

Pellizzi,  Camillo,  41  e  n,  46n,  105, 
106n,  146  e  n,  239  e  n. 

Peressutti,  Enrico,  229n,  23  In. 
Petrosino,  A.C.,  261n. 

Petersen,  J.,  236n. 

Pettazzoni,  Raffaele,  V,  276  e  n. 
Piacentini,  Marcello,  215,  224n. 
Piazza,  A.,  278n. 

Picco,  L,  23n. 

Piccoli,  Valentino,  179  e  n. 

Pini,  Giorgio,  174n,  245n. 

Pintor,  Giaime,  170  e  n. 

Pio  XI,  127,221. 

Piro,  F.,271n. 

Platone,  242. 

Poetter,  J.,  185n. 

Pois,  R.A.,  157n. 

Poletti,  R.,  217n. 

Poli,  F.,  19n. 

Pombeni,  P.,  llln,  241n,  271n. 

Ponti,  Gio,  212  e  n,  229n. 

Pontiggia,  E.,  185n,  213n. 

Prampolini,  Enrico,  190. 

Prélot,  Marcel,  93. 

Prezzolini,  Giuseppe,  23  e  n,  24n, 
28n,  32n,  237  e  n,  277n. 

Pucci,  G.,  117n. 

Quilici,  L.,  132n. 

Racine,  Jean,  183. 

Rambelli,  Damiano,  190,  197. 

Ray,  S.W.,  39n. 

Ricci,  Corrado,  224n. 

Ricci,  Renato,  159. 

Richey,  R.E.,  270n. 

Ricotti,  M.,  XI. 

Rivière,  C.,  270n,  278n. 

Rivoire,  Mario,  17  In,  239n. 
Robespierre,  Maximilien  Francois 
Marie  Isidore  de,  120. 

Rocco,  Alfredo,  106,  108,  109n. 
Rogers,  Ernesto,  229n,  23  In. 
Romano,  F.,  XI. 

Romano,  Mario,  231,  232n. 

Romano,  Ruggero,  74. 


290 


Indice  dei  nomi 


Romolo,  245. 

Rosselli,  Carlo,  28  e  n. 

Rossi,  M.,  128n. 

Rossi  Merighi,  Amalia,  XI. 

Rosso  di  San  Secondo,  Pier  Luigi  Ma¬ 
ria,  181  e  n. 

Rousseau,  Jean -Jacques,  5,  6  e  n,  105 
e  n,  149-50,  166. 

Russell,  Bertrand,  272  e  n. 

Russo,  L.,  12n,  13n. 

Saba-Sardi,  F.,  157n. 

Saliva,  Ernesto,  224n,  225. 

Salvemini,  Gaetano,  237,  272,  273n. 
Sanders,  J.,  272n. 

Sapori,  Francesco,  182n,  215n. 
Sarasini,  P.,  3 In. 

Sarfatti,  Margherita  G.,  76,  77n,  175, 
189n,  190  e  n,  196n,  203  e  n,  198- 
199,211  en. 

Sarno,  A.,  143n. 

Scaligero,  Massimo,  135n  162n. 
Schiassi,  Natale,  263. 

Schnapp,  J.T.,  190n,  194n. 

Schneider,  H.W.,  152n,  277n. 
Schumacher,  T.L.,  212n,  217n. 
Schweitzer,  A.,  23 8n. 

Scoppola,  P.,  127n. 

Scorza,  Carlo,  47,  109  e  n,  117-8. 
Sebastiani,  Osvaldo,  24 In. 

Serri,  M.,  170n. 

Setta,  S.,  159n,  241n. 

Settembrini,  Luigi,  9n. 

Settembrini,  D.,  28n. 

Shipley,  R.,  31n. 

Sironi,  Mario,  184,  185  e  n,  187  e  n, 
188-9,  190n,  196  e  n,  224  e  n,  225. 
Sironneau,  J.-P.,  270n. 

Slataper,  Scipio,  28. 

Smart,  N.,  270n. 

Sobrero,  Cesare,  89n. 

Socrate,  242. 

Soffici,  Ardengo,  180n. 

Sorel,  Georges,  143  e  n,  271. 

Speer,  Albert,  209  e  n. 

Spinoza,  Baruch,  242. 


Staderini,  A.,  30n. 

Stalin  (pseud.  di  Josif  Vissarionovic 
Dzvgasvih),  149,  236,  277n. 
Starace,  Achille,  110,  162,  184,  170, 
191n,  203n,  206-7,  208n,  219n, 
241  e  n,  249,  253. 

Starle,  W.,  270n. 

Strappini,  L.,  26n. 

Sturzo,  Luigi,  126  e  n. 

Suardo,  Giacomo,  90n. 

Susmel,  D.,  83n,  95n,  144n,  177n. 
Susmel,  E.,  83n,  95n,  144n,  177n. 

Taddeini,  O.I.,  180n. 

Talmon,  J.L.,  6n,  147n. 

Tanzarella,  E.,  XI. 

Tartaro,  A.,  227n. 

Teilhard  de  Chardin,  P.,  28n. 
Terragni,  Giuseppe,  190,  198,  212, 
217  e  n,  219,  224  e  n,  225. 
Themelly,  M.,  9n. 

Tobia,  B.,  18n,  19n,  22n. 

Tornasi,  T.,  14n. 

Toni,  Alceo,  158n,  159n,  165n. 
Torelli,  Luigi,  19. 

Tumarkin,  N.,  277n. 

Turati,  Augusto,  109-10, 239, 241  e  n. 

Umberto  I,  18-9. 

Usellini,  Gianfilippo,  207  e  n. 

Vacca,  V.,  134n. 

Valente,  Antonio,  190,  200,  212. 
Valeri,  N.,  3  In. 

Valéry,  Paul,  202. 

Valiani,  L.,  240n. 

Venturoli,  M.,  18n. 

Verdi,  Alberto,  79. 

Verucci,  G.,  14n. 

Vesser,  R.,  130n. 

Vietti,  Luigi,  224n,  225. 

Villa,  A.,  275n. 

Visconti  di  Modrone,  Marcello,  21 9n. 
Visintin,  A.,  17n. 

Vittorio  Emanuele  II,  18-9,  22. 
Vittorio  Emanuele  IH,  79. 


Indice  dei  nomi 


291 


Volpi,  C.,  256n,  261n. 

Volt  Fani  Ciotti,  Vincenzo,  150n. 

Weber,  M.,  238n. 

Weizer,  J.L.,  277n. 

Wildt,  Adolfo,  187n. 

Wohl,  R.,  28n. 


Zadra,  C.,  32n,  62n. 

Zama,  Piero,  47n. 

Zani,  L.,  7  In. 

Zapponi,  Ascanio,  183n. 

Zapponi,  N.,  XI,  209n. 

Zelinsky,  W.,  270n. 

Zunino,  P.G.,  lOOn,  125n,  157n, 
166n. 


INDICE  DEL  VOLUME 


Premessa  V 

Ringraziamenti  XI 


Introduzione.  Alla  ricerca  di  una  religione  civile  per  la 

Terza  Italia  3 

Religioni  civili  del  Risorgimento,  p.  7  -  Lo  Stato  senza  anima,  p.  9  - 
Come  fare  gli  italiani?,  p.  11  -  Liturgie  del  cordoglio,  p.  17  -  Anta¬ 
gonismo  e  fragilità  dei  culti  nazionali,  p.  20  -  La  religione  dei  colti, 
p.  23  -  Una  luce  dall’Oriente,  p.  25  -  La  consacrazione  del  sangue, 
p.  27 

1.  La  «santa  milizia»  35 

Le  origini  del  culto  fascista,  p.  37  - 1  crociati  della  nazione,  p.  41  - 

I  riti  della  comunione  squadrista,  p.  44  -  La  sagra  della  rinascita,  p. 

50  -  Una  religione  politica  al  potere,  p.  53 

IL  La  patria  in  camicia  nera  55 

II  culto  della  bandiera,  p.  59  -  Feste  dell’unità  nazionale,  p.  63  -  La 
fascistizzazione  del  culto  della  patria,  p.  66  -  Il  simbolo  della  nuova 
era,  p.  74  -  I  riti  della  rivoluzione,  p.  80  -  Il  calendario  del  regime, 
p.  89 

IH.  L’«arcangelo  mondano»  93 

La  religione  rivelata,  p.  96  -  Una  teologia  politica  per  lo  Stato  nuo¬ 
vo,  p.  99  -  Il  «vero  paradiso»,  p.  104  -  L’ordine  militare  religioso, 
p.  108  -  In  principio  è  la  fede,  p.  Ili  -  Il  custode  della  fiamma  sa¬ 
cra,  p.  115  -  Il  fascio  e  la  croce,  p.  120  -  I  romani  della  modernità, 
p.  129 


294 


Indice  del  volume 


IV.  Liturgia  deir«armonico  collettivo»  139 

Miti  politici  e  politica  dei  miti,  p.  142  - 1  tralignati  discepoli  di  Rous¬ 
seau,  p.  148  -  Riti  della  comunione  di  massa,  p.  151  -  L’italiano  nuo¬ 
vo  per  la  nuova  civiltà,  p.  161 

V.  I  templi  della  fede  175 

L’artista  militante  per  r«armonico  collettivo»,  p.  178  -  L’epopea 
della  rivoluzione,  p.  189  -  Pellegrinaggi  al  tempio,  p.  202  -  Eterna¬ 
re  il  «tempo  di  Mussolini»,  p.  209 

VI.  Il  «nuovo  Dio  d’Italia»  233 

Il  mito  e  il  culto,  p.  235  -  Il  culto  del  capo,  p.  240  -  Il  duce  e  i  ge¬ 
rarchi,  p.  245  -  La  fede  della  gente  comune,  p.  250  -  Il  nume  pro¬ 
tettore,  p.  256 

Conclusione.  Il  fascismo  e  la  sacralizzazione  della  politica  267 


Indice  dei  nomi 


285 


I